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Brexit, keep calm and…parliamone

L’esito del referendum del giugno 2016 in UK, che ha preso il nome di Brexit, ha sollecitato molte discussioni sul presente e sul futuro di tutte le persone straniere presenti sul territorio britannico, e sulle limitazioni e possibilità per coloro che vorranno andarci a studiare e lavorare in futuro.

Vale la pena di ricordare che l’esito di un referendum, in Italia come altrove, non è immediatamente operativo, ma va tradotto in leggi e regolamenti integrativi (o sostitutivi) di ciò che esiste già.

Nel caso della Brexit, termine creato dall’unione di Britain ed exit, il referendum ha dato l’avvio a una serie di atti che porteranno, in un tempo relativamente breve, ad un nuovo stato di cose nelle relazioni dell’antica Albione con il resto dell’UE.

L’uscita dall’Unione, anche se nessuno si aspettava che accadesse, è prevista e regolamentata dall’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea. La procedura prevede che dalla data della notifica dello stato membro uscente (nel nostro caso il 29 marzo 2017) passino due anni. In questo periodo di tempo Regno Unito e UE dovranno negoziare un accordo che disciplini le modalità dell’uscita (aggiornamento: la data dell’uscita della Gran Bretagna dall’EU è stata prorogata dal 29 marzo 2019 al 31 ottobre 2019).

In pratica significa che si comincia ora a definire le condizioni che regoleranno i reciproci rapporti. L’accordo dovrà tenere conto di molti aspetti che riguardano le relazioni tra paesi: l’immigrazione, certo, ma anche le questioni commerciali, fiscali, giuridiche.

Per chi si trova già in UK, le condizioni non sono cambiate e si sta già parlando di mantenere immutati i diritti e le condizioni di cui si è goduto finora. Le autorità britanniche hanno dichiarato che intendono garantire il diritto di residenza permanente ai cittadini che siano legalmente residenti prima di una certa data, la cosiddetta cut-off date, che però è stata più volte posticipata.

Ma rimaniamo a quello che nell’immediato ci interessa di più: potremo ancora andare a lavorare o studiare in UK? E quanto sarà difficile? La risposta in generale è sì, solo le modalità potranno essere un po’ diverse e più complesse rispetto a quelle adottate finora. Spesso infatti non ci rendiamo conto di quali vantaggi ci garantisca il fatto di essere parte dell’UE.

Come succede già per altri paesi extra UE, mete di migrazioni da paesi con condizioni economiche svantaggiate, le limitazioni potrebbero essere relative soprattutto all’ingresso per motivi di lavoro. E’ probabile che si prevedano agevolazioni per l’immigrazione di persone qualificate, che conoscono la lingua del paese dove vogliono trasferirsi, piuttosto che per chi non ha specifiche professionalità e va un po’ allo sbaraglio sperando di cavarsela comunque.

Per quanto riguarda andare a studiare in UK invece non dobbiamo dimenticare che la formazione è anche e sempre più una fonte di ricchezza per chi la fornisce, e quindi è difficile che venga realmente ostacolato l’ingresso di studenti. Chiaramente stiamo facendo delle supposizioni di quelli che saranno gli scenari futuri, dato che di certo e deciso non c’è ancora molto.

Per il momento di certo sulla possibilità di studiare in UK c’è che per l’anno accademico 2017/2018 saranno garantiti per tutti gli studenti UE aiuti economici e sussidi come in precedenza. Restano inoltre immutate le possibilità di usufruire di finanziamenti del programma Erasmus+ a cui la Gran Bretagna aderisce indipendentemente dalla Brexit.

Sicuramente rimangono valide le considerazioni che facciamo di solito per chi pensa di andare all’estero per un periodo più o meno lungo. Prima di tutto, prepararsi per tempo e informarsi bene per quanto riguarda i documenti da presentare. Consiglio in particolare di non improvvisare, dato che le regole per l’immigrazione, escluso lo spazio europeo, cambiano anche molto rapidamente.

Se l’argomento vi interessa, vi consiglio queste due risorse ufficiali da seguire: la pagina dedicata alla Brexit dell’Ambasciata d’Italia, e la pagina ufficiale UK sull’immigrazione.

In conclusione, keep calm and good luck everybody!

La Buona Scuola Bis: cambiamenti in vista

Venerdì 7 aprile il Consiglio dei Ministri ha approvato gli otto decreti attuativi della legge sulla Buona Scuola (L. n. 107/2015) che andranno a regime dal 2018.

Una delle novità principali riguarda il sistema di formazione iniziale e di accesso all’insegnamento nella scuola secondaria di I e II grado.

Viene rivoluzionato il vecchio percorso, mandando in soffitta l’abilitazione all’insegnamento (Ssis prima e Tfa poi).

Per diventare docenti nella scuola secondaria di I e II grado, infatti, dopo la laurea occorrerà superare il concorso che consentirà l’accesso al nuovo percorso di formazione iniziale, tirocinio e inserimento nella funzione di docente, denominato «Fit».

Al concorso potranno accedere tutti i laureati, purché abbiano conseguito 24 crediti universitari in settori formativi psico-antropo-pedagogici o nelle metodologie didattiche.

I concorsi avranno cadenza biennale, il primo sarà nel 2018.

Chi lo supererà si inserirà in un percorso triennale immediatamente teorico-pratico (FIT)

Il primo anno sarà finalizzato al conseguimento del diploma di specializzazione.

Il secondo e il terzo anno serviranno per diventare docente, con una parte notevole di “esperienza diretta” in classe.

Il «Fit» è un contratto di lavoro a tutti gli effetti: sarà retribuito (il terzo anno in analogia a una supplenza annuale).

Al termine del «Fit» l’insegnante passa di ruolo: firmerà un incarico triennale, e sarà assegnato all’ambito territoriale presso il quale ha prestato servizio l’ultimo anno.

Per vedere effettivamente in cattedra i nuovi giovani professori bisognerà, però, attendere almeno il 2022.

Infatti il decreto prevede una fase transitoria per stabilizzare i precari abilitati di seconda e quelli di terza fascia con 36 mesi di servizio alle spalle.

Importanti novità sono state introdotte anche su altri temi fondamentali che trovate riportati sul sito del MIUR.

Quelle di più interesse per gli studenti riguardano la valutazione, gli Esami di Stato e le Prove INVALSI.

Nelle classi finali della secondaria di I e II grado la prova Invalsi è requisito per l’ammissione all’Esame, ma non influisce sul voto finale.

Le novità saranno applicate nel 2018 per l’Esame del primo ciclo e nel 2019 per la Maturità.

Culturability: spazi di innovazione sociale

Culturability è il bando nazionale lanciato dalla Fondazione Unipolis per sostenere progetti culturali ad alto impatto sociale di rigenerazione e riattivazione di spazi.

Il bando è promosso con la collaborazione della Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane (DG AAP) del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, e la partnership di Avanzi/Make a Cube e Fondazione Fitzcarraldo.

Il punto di partenza è la cultura come leva di sviluppo sostenibile.

Infatti i progetti che risulteranno vincitori non solo saranno sostenibili a livello economico, ma anche capaci di promuovere posti di lavoro.

Il bando sostiene, quindi, progetti innovativi in ambito culturale e creativo ad alto impatto sociale, per recuperare e dare nuova vita a spazi, edifici, ex siti industriali, abbandonati o in fase di transizione.

La rigenerazione e il riuso di spazi a partire dalla cultura e dalla creatività è un tema di rilevante attualità, che, tuttavia, risente ancora di limiti importanti: la difficoltà di coordinamento, di sostenibilità delle iniziative nel lungo periodo e di collaborazione con le istituzioni pubbliche.

L’obiettivo è proprio stimolare una riflessione su questi temi e sviluppare un impegno concreto sul territorio nella promozione e nel sostegno di iniziative culturali che abbiano come scopo la crescita delle comunità, con un metodo all’insegna della collaborazione.

Gli ingredienti richiesti dal bando sono cultura, innovazione e coesione sociale, collaborazione, sostenibilità economica, occupazione giovanile.

Possono partecipare alla call organizzazioni no profit, imprese cooperative e private operanti in campo culturale, team informali e reti di partenariato fra organizzazioni; l’unico limite è il requisito anagrafico: l’organo di gestione o il capofila devono essere composti da UNDER 35.

Fondazione Unipolis mette a disposizione risorse per complessivi 400 mila euro, articolate in contributi di natura economica per lo sviluppo dei progetti selezionati, erogazione di servizi di formazione e accompagnamento per il potenziamento dei team proponenti, rimborsi spese per partecipare alle attività di supporto.

In aggiunta ai 5 progetti beneficiari del contributo di Unipolis, verranno selezionati altri 2 progetti ai quali sarà attribuita una “menzione speciale” e assegnato un contributo di 10 mila euro ciascuno.

Il bando rimane aperto fino al 13 aprile 2017.

Tirocini Garanzia Giovani

Nell’ambito del Programma Garanzia Giovani, dal 20 gennaio 2017 è aperto il bando regionale che finanzia 600 tirocini extracurriculari anche in mobilità geografica per giovani NEET.

Il tirocinio è un’esperienza formativa che fa acquisire, attraverso la conoscenza diretta del mondo del lavoro, competenze utili in vista di un successivo inserimento lavorativo.

Il tirocinio, infatti, non si configura giuridicamente come un rapporto di lavoro ma come un periodo di orientamento e di formazione al lavoro.

I tirocini previsti dal bando sono rivolti ai giovani tra 18 e 29 anni, disoccupati, non impegnati in un regolare corso di studi o di formazione, iscritti al programma Garanzia Giovani e possono essere svolti sia in regione, sia fuori regione sia all’estero.

Il tirocinio, retribuito, ha una durata che varia da 3 a 6 mesi, a seconda della tipologia del soggetto tirocinante.

Il bando prevede tre tipologie di tirocini:

  • extracurriculare, si svolge presso un soggetto ospitante che ha sede legale e/o operativa nella Regione Marche;
  • extracurriculare in mobilità geografica nazionale ovvero Tirocinio interregionale, si svolge presso un soggetto ospitante che ha sede legale nella Regione Marche e sede/unità operativa dove svolgere il tirocinio in altra Regione italiana;
  • extracurriculare in mobilità geografica Transnazionale, si svolge presso un soggetto ospitante che ha sede legale nella Regione Marche e sede/unità operativa dove svolgere il tirocinio all’estero.

I giovani in possesso dei requisiti di cui sopra si devono rivolgere ad un soggetto promotore di tirocini autorizzato dalla Regione.

L’elenco regionale dei soggetti promotori è consultabile a questo link.

Il promotore accompagna il giovane nell’individuazione del datore di lavoro e segue le procedure necessarie all’avvio del percorso, con la firma della convenzione e la sottoscrizione del progetto formativo individuale.

Nel caso in cui un giovane sia stato selezionato direttamente per un tirocinio, perché il percorso sia attivato nell’ambito di Garanzia Giovani – con le relative agevolazioni per l’impresa – il giovane deve essere iscritto al programma e la convenzione deve essere siglata con un soggetto promotore autorizzato.

Il bando rimane aperto fino al 31/12/2017 salvo esaurimento fondi.

La domanda va presentata esclusivamente on line.

TrainingDay Erasmus+ all’Informagiovani!

Martedì prossimo, il 24 gennaio, abbiamo il piacere di ospitare qui all’Informagiovani il TrainingDay Erasmus+ per l’asse VET – Istruzione e Formazione Professionale, realizzato in collaborazione con Eurodesk Italy e Inapp, una delle Agenzie Nazionali per l’attuazione del programma in Italia.

Ma cos’è un TrainingDay?
A differenza di un InfoDay, che si concentra sulla prima informazione sulle possibilità offerte dal programma Erasmus+, sulla sua struttura, obiettivi e beneficiari, il TrainingDay è pensato per chi ne conosce già il funzionamento, ed è interessato o già impegnato nella progettazione.
Il TrainingDay che ospiteremo si concentrerà sul settore Istruzione e Formazione Professionale, individuato anche con l’acronimo VET, che sta per Vocational Education and Training. L’asse VET riguarda le opportunità rivolte a studenti, tirocinanti, apprendisti, neodiplomati e neo qualificati, ma anche a insegnanti, formatori, esperti del mondo della formazione professionale (che sono i primi beneficiari dei progetti finanziati) che attraverso Erasmus+ avranno la possibilità di fare un’esperienza di apprendimento professionale in un altro paese (si parla di mobilità individuale).

Una parte della mattinata sarà poi dedicata ai soggetti (scuole, enti di formazione, organizzazioni della società civile, università) interessati a partecipare a progetti di cooperazione per l’innovazione e lo scambio di buone pratiche transnazionali (chiamati anche partenariati strategici), che hanno l’obiettivo di sviluppare iniziative di cooperazione tra uno o più settori dell’istruzione, della formazione e della gioventù e a promuovere l’innovazione, lo scambio di esperienze e del know-how tra diverse tipologie di organizzazioni coinvolte nei settori dell’istruzione e della formazione.
In particolare, verranno approfonditi alcuni aspetti della progettazione su Erasmus+, come quelli legati agli elementi di qualità dei progetti, cioè vedremo quali parti dei progetti, che potranno essere presentati alle prossime scadenze, vanno curati con particolare attenzione per poter aspirare a vedere il proprio progetto positivamente valutato e poi finanziato.

La durata del TrainingDay è di circa 5 ore, ed è previsto un attestato di partecipazione.
Per chi avesse interesse a partecipare, ma non avesse ancora molto chiare le informazioni di base su Erasmus+, è consigliabile prendere visione delle parti della guida al programma che trattano priorità e obiettivi del programma, e che descrivono le attività che prenderemo in esame proprio martedì.

Sul portale Eurodesk è possibile registrarsi per partecipare (è previsto un numero massimo di 90 partecipanti).
L’incontro si terrà presso la sala Informagiovani Ancona: invieremo a tutti gli iscritti indicazioni per raggiungerci, nel caso non siate mai venuti prima a trovarci.
Per qualsiasi informazione siamo disponibili ai nostri numeri di telefono e attraverso i nostri canali di contatto.

SCARICA LE SLIDE DEL TRAINING DAY

Erasmus+: panoramica

Erasums+: dati statistici

KA1: mobilità individuale

KA2: partenariati strategici

 

Le foto della giornata

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lavoro caccia al tesoro

Il lavoro è una caccia al tesoro

Realizzare attività di orientamento professionale è un’attività molto simile ad una caccia al tesoro: abbiamo degli indizi, sappiamo cosa cerchiamo ma spesso non sappiamo cosa in realtà troveremo. Da un certo punto di vista questo setting potrebbe anche essere molto divertente; qualche volta invece risulta preoccupante e genera ansia e preoccupazione. La questione però è: c’è un tesoro alla fine del percorso? Rispondere a questa domanda è, secondo me, un po’ il cuore di un’attività di orientamento professionale. Quello che bisogna dire è che la risposta potrebbe non essere scontata come accade in un film o una storia con il lieto fine a tutti i costi (che poi, diciamolo, sono anche le storie meno affascinanti).

Trovare lavoro non è partecipare a una caccia al tesoro che qualcun altro ha architettato, ma costruire autonomamente un proprio percorso alla fine del quale il tesoro ce lo mettiamo noi. Quando nei primi giorni dell’anno abbiamo ospitato i ragazzi di una classe all’ultimo anno delle superiori, siamo partiti proprio con l’intento di individuare e disegnare lo scenario migliore in cui muoversi. Per farlo il modo migliore è quello di provare a confrontarci con noi stessi prima di tutto e chiederci: che cosa vogliamo diventare? Quali sono gli aspetti della nostra vita che maggiormente ci gratificano? Quali competenze ci rendono migliori di quello che siamo? Quando succede che stiamo bene con gli altri? Non sono domande esistenziali, ma gli unici interrogativi che davvero hanno un senso se vogliamo evitare che qualcuno ci trovi un posto nel mondo ma, realmente, quel posto vogliamo sceglierlo.

Questa parola, scegliere, troppo spesso finisce nell’ambito delle cose che solo qualcuno può permettersi, nella sezione delle nostre esperienze proibite oppure tra le cose a cui diamo poco importanza. E invece sarebbe il caso. soprattutto se siete giovani, che questa parola la rivalutaste un pochino. Discutevo l’altro giorno con alcuni “under 30” (li definisco così perché ultimamente la parola “giovani” faccio fatica a capire quando va utilizzata) ed è uscito questo concetto: qui non abbiamo abbastanza opportunità, dobbiamo accontentarci perché non abbiamo alternative e ogni proposta, anche la meno affascinante professionalmente, è meglio di niente. Questa condizione l’abbiamo definita, di “disperazione” (tra virgolette, perché la disperazione vera in realtà è fatta di altre ben più marcate sofferenze). Ecco io dico che le scelte che facciamo per “disperazione” non sono mai le scelte migliori. Sono giustificabili in quel momento, comprensibili per quel contesto ma mai auspicabili.

Accettare un lavoro umile e senza prospettive perché sono “disperato” non è la stessa cosa che farlo perché fa parte della mia strategia per raggiungere un risultato diverso. E non sto parlando di una strategia di carriera professionale, ma più in generale di come vogliamo impostare la nostra vita. Trovo che i tempi che viviamo siano già abbastanza duri ed emotivamente faticosi per evitare che noi per primi ci mettiamo il carico della nostra “disperazione”. C’è un libro che ho consigliato di leggere ai ragazzi con cui ho parlato che si intitola “Il potere è noioso” di Alberto Forchielli (lo trovate qui, leggete la sinossi), l’ho appena iniziato e ci sono due cose che mi piacciono e trovo che possano essere di incoraggiamento. La prima è l’invito a essere ostinati, fino a quasi a cacciarsi nei guai, pur di far sapere al mondo che esistiamo e abbiamo un valore (scrive l’autore “non litigate mai con un sottoposto, ma sempre con chi sta sopra di voi. Altrimenti, dove starebbe il divertimento?“). La seconda è la possibilità di ampliare gli orizzonti, di non guardare solo al qui e ora, al piccolo contesto che ci circonda; uscire e viaggiare (anche fosse solo attraverso internet (“se non avete tempo o soldi per viaggiare fisicamente, fatelo sull’iPad“) può farci scoprire cose incredibili… su noi stessi!

Lavorare all’estero come “au pair”

Lavorare come “au pair” o “alla pari” significa vivere presso una famiglia straniera, aiutando ad accudire i bambini e a sbrigare leggere faccende domestiche in cambio di vitto, alloggio e una piccola retribuzione, variabile da nazione a nazione.

L’au pair  costituisce una categoria specifica che non è né quella di studente né quella di lavoratore. Infatti i programmi alla pari sono considerati progetti di scambio culturale per l’apprendimento e/o il perfezionamento di una lingua straniera.

Sono allo stesso tempo anche un’opportunità di crescita personale.

La ricerca della famiglia viene fatta generalmente tramite un’agenzia con sede in Italia.

Chi, invece, ha una buona padronanza della lingua straniera può rivolgersi direttamente all’agenzia nel Paese di destinazione oppure tramite internet per i paesi in cui esistono siti ad hoc.

Rivolgendosi ad un’agenzia i rischi di incappare in una famiglia “sbagliata” sono minori perché le famiglie ospitanti vengono selezionate e comunque si ha la garanzia di essere ricollocati presso un’altra famiglia nel caso la prima risultasse inadeguata.

La durata del soggiorno varia da 6 a 12 mesi (eventualmente prorogabili per ulteriori 12 mesi) e dipende sia dalla disponibilitá dell’au-pair e della famiglia sia dalle regole in merito del paese ospitante.

Le famiglie richiedono, in genere, un soggiorno minimo di sei mesi, ma anche nove o dodici, con partenza all’inizio dell’anno scolastico o a gennaio.

Anche gli orari di lavoro possono variare in base al paese ospitante. L´Au pair dovrebbe lavorare un massimo di 30 ore a settimana (ad eccezione degli USA, dove l’au pair puó raggiungere un massimo di 45 ore settimanali).

Ogni Au pair ha diritto di norma a 1 – 2 giorni liberi a settimana (in alcuni paesi almeno un giorno libero deve essere la domenica) ed in alcuni casi avranno anche il diritto di avere libero almeno un week-end al mese.

Durante i loro giorni liberi e le loro vacanze, gli Au pair dovrebbero essere invitati dalla famiglia ospitante a partecipare alle loro attivitá. Inoltre durante il periodo di vacanza i ragazzi alla pari sono liberi di rimanere presso la propria famiglia ospitante continuando a ricevere la solita somma di denaro, cosí come vitto e alloggio.

Di norma gli au pair frequentano un corso di lingua nel paese ospitante per migliorare le proprie competenze in materia e conoscere nuove persone.

Per diventare “au pair” occorre avere tra i 17 e 30 anni (anche se nella maggior parte dei paesi, l’età minima è fissata a 18 anni e la massima a 27),  essere celibi o nubili e senza figli,  avere una conoscenza almeno basilare della lingua del paese ospitante e ovviamente avere esperienza nell’accudimento dei bambini.

Il possesso della patente di guida e il fatto di essere non fumatori sono considerati requisiti preferenziali.

La famiglia ospitante, infine, deve essere una famiglia (ma può essere anche una madre o un padre single) disposta ad ospitare un ragazzo straniero rendendolo parte della stessa, avere almeno un figlio minorenne e avere una stanza libera a disposizione dell’au pair. 

Nuovo lavoro? Come superare i primi giorni da neoassunto

Trovare “IL” lavoro è senza dubbio una delle esperienze più impegnative da affrontare. Dovrebbe essere noto che la ricetta per trovare l’impiego dei nostri sogni (più o meno) è una intricata formula alchemica in cui si mescolano in parti non uguali l’adeguatezza delle competenze e delle capacità al ruolo per il quale ci stiamo candidando (in primis), il saper comunicare noi stessi e le nostre aspirazioni nel modo migliore, un modo di presentarsi adatto e anche, ultimo ma discretamente importante, un pizzico di “fattore c”.

Posto quindi di aver messo in campo con successo tutto quello che serve per l’ottenimento del tanto sospirato contratto, arriva il momento di fronteggiare la situazione che più fa tremare i polsi dei neoassunti: quella dei primi giorni nel nuovo luogo di lavoro.
Se credete che con questo si intenda semplicemente la normale eccitazione che ci coglie quando siamo alle prese con delle novità importanti vi sbagliate di grosso: secondo Michael Watkins, ex professore della Harvard Buisness School e uno dei maggiori esperti sulla formazione dei ruoli di leadership nel lavoro, nonché autore di:I primi 90 giorni. Strategie di esordio vincenti per leader a ogni livello, sono i primi tre mesi a determinare il successo o il fallimento della propria carriera in un’azienda ed è quindi all’inizio che bisogna fare in modo di mostrare il meglio di sé, il che non vuol dire imparare tutto lo scibile sul proprio ruolo in questo ristretto periodo di tempo, ma mostrare quella commistione di intenzioni, atteggiamenti e potenzialità che possano confermare di essere la “persona giusta”.

Dello stesso parere è Russell Johnson, managing director dell’EPR Career Management il quale, come riportato in un articolo pieno di buoni consigli del blog Italians in fuga, afferma che: ”[…] una volta raggiunti i primi 90 giorni, o vi siete affermati oppure siete in crisi. E’ molto semplice: i vostri colleghi stanno formando le loro prime impressioni su di voi e queste sono molto difficili da modificare. […]”.

Premettendo che ogni situazione lavorativa è un mondo a sé, ci sono alcuni suggerimenti che sicuramente valgono in linea generale:

Prima di tutto, informarsi!
Ovviamente, diamo per scontato il procedimento di ricerca (sul web, tramite passaparola o recandosi di persona) di informazioni sull’azienda fatto al momento dell’invio della propria candidatura: una volta che si è diventati parte di quella realtà lavorativa, si deve fare un passo in più e studiarne da dentro la mission e lo stile, così da potersi, pian piano, uniformare.
Ma non solo: cercare di conoscere il prima possibile la disposizione degli ambienti fisici (bagni, zone ristoro, ambienti con determinate strumentazioni, uffici dei colleghi coi quali ci si dovrà rapportare maggiormente) contribuirà ad aumentare la propria professionalità e a rendersi indipendenti in meno tempo; in sostanza, a migliorare l’opinione che il restante gruppo di lavoro ha di noi. L’imperativo è quindi tenere ben aperti occhi ed orecchie e dedicarsi, almeno all’inizio, all’ascolto e al sempreverde “imparare con gli occhi” (e se c’è una mappa dei locali di lavoro, ricordarsi di studiarla!).

Non vergognarsi di non sapere.
Al contrario, fingere di avere la risposta a tutto e mostrarsi come qualcuno che non ha nulla da imparare può mostrarsi molto controproducente non solo per la formazione in azienda, ma anche e soprattutto per la costruzione del rapporto con i colleghi.
Bisogna mettere quindi in campo tutta la curiosità, l’interesse e la voglia di apprendere, magari organizzando un elenco di domande da porre durante questo primo periodo; è auspicabile appuntare tutti questi dettagli e informazioni da qualche parte, così da mostrarsi coinvolti e organizzare meglio le proprie mansioni (e magari evitare di chiedere ripetutamente le stesse cose).

Iniziare subito a costruire il rapporto con i colleghi.
Di importanza fondamentale durante questo primo periodo: essere sorridenti e positivi, saper ascoltare, mostrarsi aperti alla collaborazione e al gioco di squadra piuttosto che all’individualismo, evitare per quanto possibile le competizioni, i conflitti o l’immergersi nelle diatribe tra colleghi (che ci saranno sempre!), sono alcune delle buone pratiche da seguire per costruire una buona immagine di sé e per mettere un’ipoteca sulla propria permanenza (oltre che per evitarsi molte situazioni stressanti). Anche saper regalare buonumore è molto importante: meglio non sottovalutare l’importanza dei piccoli gesti, come il volersi fermare per la pausa pranzo assieme ai colleghi, o l’offrire di tanto in tanto un caffè, ma anche l’evitare di sovrapporre le proprie esigenze a quelle dei colleghi presenti da più tempo (un esempio su tutti è quello dei periodi di ferie).
Chiudiamo questo punto con un’informazione: non è affatto raro che i periodi di prova per un nuovo lavoro si concludano in un nulla di fatto a causa della mancata integrazione del neoassunto nel team dei colleghi.

Non dire no!
Non c’è niente di strano nel sentirsi inadeguati alle proprie mansioni durante i primi giorni. Ma non bisogna scoraggiarsi e soprattutto, non bisogna farsi la nomea di qualcuno che rimanda o evita i lavori. Provare ad eseguire tutti i compiti che verranno proposti (nei limiti di quello che vi sembra lecito, ovviamente) e imparare “strada facendo” è sicuramente una strategia vincente. Mostrarsi intraprendenti (senza esagerare), disponibili e allegri lastricherà la vostra strada verso il successo.

Dal canto nostro, non stiamo con le mani in mano riguardo questi argomenti! L’Informagiovani offre tanti servizi legati al mondo del lavoro e se avete bisogno di consigli o consulenze sulla vostra situazione vi basta venire a trovarci durante i nostri orari di apertura. A proposito, con il mese di settembre arriva una carrellata di eventi dedicati ad una ricerca efficace del lavoro: restate sempre aggiornati dalla pagina dedicata!

Vuoi saperne di più sul mondo del lavoro? Ti aspettiamo il 16!

Clicca e scopri come partecipare gratuitamente

 

Informagiovani in ferie

Un tuffo e via!

Sono arrivate anche per noi le ferie: ci dedichiamo a qualche giorno di svago, riposo e divertimento non tanto perché ce lo meritiamo. Ma, soprattutto, perché qualche volta fa bene, al di là dei risultati che raggiungiamo. Crediamo che il momento di relax, allentamento della tensione, piacere e pace se lo meritano tutti. Ecco, andare in vacanza, anche solo con il cervello se non si è in condizione di farlo diversamente è davvero una bella occasione che tutti dovremmo regalarci. Anche fosse solo per un tuffo e via!

Noi abbiamo la fortuna di poterlo fare per quasi una settimana intera: così dal 12 al 19 agosto troverete l’Informagiovani chiuso, un messaggio in segreteria telefonica, una risposta automatica alla mail e un po’ di silenzio anche sugli altri nostri canali di comunicazione. Magari c’è anche qualcuno di voi che dirà: alleluja! Ma torneremo e abbiamo già programmato degli appuntamenti speciali per voi: a settembre torneremo a parlare di lavoro (il 16 settembre) con un workshop dedicato alla giusta strategia per la ricerca di un lavoro (in collaborazione con Company Improvement), di lavoro all’estero (il 22 settembre) con un workshop dedicato al colloquio di selezione in inglese (con The Victoria International School) e infine scopriremo le opportunità che ci sono in Australia (il 5 ottobre, in collaborazione con Students World). A tutti gli eventi è già possibile iscriversi e scoprire maggiori dettagli attraverso la nostra apposita pagina.

Non ci resta che augurarvi con tutto il cuore: buone vacanze!

Informagiovani in ferie

Passione coworking

Quanto è importante condividere? Secondo una canzone che sta tormentando la nostra estate, è più importante che vivere. Ma senza essere così iperbolici, possiamo affermare che anche (o soprattutto?) nel mondo del lavoro di oggi, il successo vero arriva quando si è in grado di formare una rete di contatti, di competenze, di idee in grado di produrre un enorme valore aggiunto a tutto ciò che stiamo creando.

Chi fa coworking lo sa bene, pure se la definizione di questa tipologia di lavoro è, a primo impatto, piuttosto sterile: Wikipedia infatti ci spiega che “Il coworking è uno stile lavorativo che coinvolge la condivisione di un ambiente di lavoro, spesso un ufficio, mantenendo un’attività indipendente. A differenza del tipico ambiente d’ufficio, coloro che fanno coworking non sono in genere impiegati nella stessa organizzazione“.

Il coworking, la cui traduzione letterale è “lavorare insieme”, ha in realtà una duplice funzione: da un lato la fornitura di spazi “chiavi in mano” in cui un professionista o aspirante tale che non può permettersi un ufficio può trovare, in genere a costi piuttosto accessibili, un luogo creato sempre più ad arte e fornito di tutti i comfort (computer, wi-fi, telefono e fax, ma anche aree relax e postazioni open space per tenere riunioni) dall’altro, ed è qui la sua maggiore utilità, è una vera fucina di idee, un luogo in cui l’incontro di menti, esperienze e competenze anche piuttosto diverse tra loro può fiorire e dare il suo meglio.

In barba alla definizione semplicistica di Wikipedia, in non molto tempo le reali potenzialità di questo nuovo stile lavorativo sono saltate agli occhi delle grandi aziende, in primis a quelli delle multinazionali statunitensi, ben disposte ad ospitare in propri spazi debitamente allestiti menti creative e giovani imprenditori, così da “nutrirsi” – nel senso più positivo del termine, ovviamente – delle loro idee e prospettive, praticando il cosiddetto “coworking verticale“, formato da professionisti che operano nello stesso settore (al contrario del “coworking orizzontale“, che si sviluppa invece sul lavoro di persone impiegate in ambiti diversi).

Ma senza scomodare le grandi imprese d’oltreoceano si possono scoprire, con una semplice ricerca Google, numerosi esempi di realtà italiane nate appositamente per favorire il lavoro condiviso: c’è chi cerca di riunire le realtà di coworking sotto uno standard e chi offre consulenza e sostegno per l’allestimento di spazi di coworking all’interno di realtà professionali con ambienti inutilizzati, ma anche chi fonda, sui valori della condivisione del lavoro e delle idee, associazioni no-profit.

Facendo un passo indietro, chi ha “creato” il coworking? É importante premettere che, citando l’intervista all’avvocato Domenico Comito per la Wind Buisness Factory: ” Il coworking spesso è istituito da una cd comunità di coworking, ove vengono condivisi i medesimi obiettivi e/o affini modalità di gestione del lavoro”, a dimostrazione ulteriore del fatto che la condivisione semplicemente fisica di uno spazio di lavoro per “dividere i costi d’affitto” conta poco o nulla.
La prima realtà di coworking nasce negli USA nel 2005, su iniziativa di Brad Neuberg, un programmatore di San Francisco a cui serviva un posto in cui riunirsi con il suo gruppo di lavoro che non fosse l’ormai abusato bar. Poco dopo si fecero strada tentativi più articolati e sempre più diffusi, negli Stati Uniti e altrove, fino a quando anche l’Italia, nel 2008, “si incontra” con il coworking, dapprima nelle principali metropoli e poi in tutto il resto della penisola (Marche comprese! Provate a cercare e resterete sorpresi. Noi nel frattempo vi suggeriamo due realtà nelle nostre vicinanze: Cowo Coworking Ancona e Cowo42). Ad oggi, anche se è piuttosto complicato determinarne con precisione il numero, si conoscono più di 300 realtà di coworking in Italia.

Anche se è passato qualche anno, una buona parte di chi pratica questo stile lavorativo ha ancora lo stesso profilo professionale degli albori: meno di trenta anni e specializzazione nell’ambito dell’informatica, del web design e della comunicazione. La giovane età e una professione che più di altre si presta alla necessità di “fare rete” sono caratteristiche  che hanno favorito questa concezione di lavoro fuori da quella classica di ufficio, anche se sono sempre di più i professionisti di altri settori interessati a prendere il meglio dall’autonomia imprenditoriale e dalla condivisione del lavoro e delle competenze.

Nel mondo odierno, frutto di una società liquida in cui trovare il proprio posto di lavoro (non solo materialmente parlando) è sempre più complesso e meno scontato, in cui crearsi una rete di contatti e collaborazioni è ben più importante che nel passato, la possibilità di costruire la propria identità professionale in luoghi di costante confronto vivo e creativo è un’opportunità da non perdere, soprattutto se si è dei giovani bisognosi di accrescere le proprie competenze ed entusiasti di dare forma a quello che, secondo molti, è il futuro del lavoro.

All’ Informagiovani lo sappiamo bene, per questo vi ricordiamo che i nostri spazi, oltre a poter essere affittati per riunioni e conferenze, si possono utilizzare, mentre siamo aperti, come aula di studio, luogo per incontrarsi e perché no, “cantiere” per far nascere progetti in condivisione e dare vita a collaborazioni di tutti i tipi. Vi aspettiamo nei nostri orari di apertura!

#GUIDAeBASTA

Primo week end di luglio, che si fa? Ci si diverte e soprattutto si va in giro. E per girare l’auto rimane il mezzo più utilizzato da noi italiani: basta vedere le code in autostrada a partire da questo week end. L’auto, grande passione degli italiani. Come lo smartphone al quale dedichiamo sempre più tempo: telefonate, messaggi, post sui social network e quant’altro. Smartphone e automobile possono essere però un’accoppiata micidiale!

Lo dicono quelli che si occupano di traffico e, purtroppo, anche la cronaca. 48.524 sono state le infrazioni contestate nel 2015 per utilizzo di telefono o smartphone alla guida: il +20,9% rispetto all’anno precedente. Tra i principali fattori di distrazione vi è l’uso del cellulare alla guida per telefonare o per inviare/leggere messaggi nonché la maggior parte dei dispositivi di bordo (di navigazione, di intrattenimento ecc.). Diversi studi hanno confermato una generale sottovalutazione della distrazione come fattore di rischio da parte dei conducenti. Peraltro il fenomeno è in crescita parallelamente alla diffusione dell’utilizzo di dispositivi telefonici e di bordo che possono distogliere l’attenzione dalla guida.

La campagna #Guidaebasta, lanciata da ANAS e Polizia di Stato a cui abbiamo deciso di aderire anche noi,  lancia il messaggio forte: è arrivato il momento di dire che essere costantemente connessi non è sempre la cosa più giusta. Che è meglio non sentire i nostri cari per qualche ora, piuttosto che rischiare di non vederli più. Come dice anche LaPina di Radio DeejayNon casca il mondo se non rispondi: non muore nessuno, nel vero senso della parola. Insomma, diciamolo chiaro che quando guidi, devi guidare e basta”.  Con loro anche noi pensiamo che sia giunto il momento di rinfrescare la nostra educazione stradale, informare gli automobilisti sui rischi e sulle conseguenze delle cattive abitudini e del mancato rispetto delle regole.

Scattare un selfie: 14 secondi; consultare un social network: almeno 20. Se lo fate mentre siete alla guida l’effetto può essere fatale. A 100 km orari, si percorrono “al buio” una distanza pari a cinque campi da calcio. Avrai tempo di farlo quando sarete di nuovo fermi. Quando guidi, guida e basta!

Per quale professioni siete pronti

Per quale professione siete pronti?

Il mondo delle professioni non è mai stato così poco definito come oggi. Ci sono tanti professionisti che alla domanda “che lavoro fai?” non sanno realmente rispondere o non sanno farlo con un solo nome della loro professione. Il motivo è che attualmente le professioni è più facile descriverle come un insieme di competenze, piuttosto che come una mansione. Fino a qualche tempo fa la cosa non era così, anche contrattualmente: il mansionario, documento utilizzato all’interno delle organizzazioni lavorative, serviva proprio a definire chi faceva cosa e, di controverso, dire che professioni venivamo impiegate.

Le abilità richieste oggi negli ambienti di lavoro, soprattutto quelli meno classici, sono quelle che raccontano i problemi che sappiamo risolvere, gli obiettivi che sappiamo raggiungere e più in generale la nostra adattabilità e preparazione generica a stare in un luogo di lavoro. Questa terza categoria di abilità non è riservata solo ad alcune professioni ma riguarda un po’ tutti. Potremmo dire che sono le capacità che dicono se siamo realmente pronti per essere assunti. Per esempio: siamo in grado di essere puntuali? Sappiamo organizzare un lavoro semplice? Sappiamo gestire uno spazio di lavoro? Sembrano banali, ed alcune di queste lo sono, ma non tutte sono così scontate (se non ci credete provate a chiedere ad un datore di lavoro qualsiasi).

C’è un test da fare on line che si chiama “Skillage: sei pronto ad essere assunto?” con il quale ognuno può verificare se è realmente pronto per lavorare. Noi lo abbiamo fatto ed è stato pure divertente: vi raccontiamo un po’ che ce n’è parso.  Il test verte su 4 aree di competenze che sono “Idoneità a lavoro”, “Produttività”, “Comunicazione”, “Social Media”, “Gestione dei contenuti e sicurezza”. Prima osservazione: una buona aprte delle domande ha a che fare con le tecnologie e con internet in generale: non è più ammissibile che ci sia qualcuno che sta cercando lavoro e che di queste cose, anche poco, non sappia nulla. C’è una domanda che riguarda la fascia di età e, udite udite, da 16 a 24 anni siamo “cazzuti”, ma da 25 in poi siamo già “anziani” (una bella botta di realismo, anche se ironico). Per il resto le domande spaziano su competenze diverse: come utilizziamo i social network, con quali strumenti organizziamo banche dati e archivi, come gestiamo aspetti cruciali come quello della sicurezza e della riservatezze. Noi vi consigliamo di provarlo e verificare, con il report finale, quanto e cosa ancora dovete imparare.

serviziocivile

Un anno all’estero con il Servizio Civile Nazionale

Lo sapevi? Oltre a poter scegliere tra tanti progetti ed enti di accoglienza in Italia, grazie al bando del Servizio Civile Nazionale puoi andare all’estero, in Europa o fuori, a svolgere i 12 mesi di servizio civile.
I requisiti per partecipare sono gli stessi, e i posti previsti sono 708, distribuiti su Portogallo, Tanzania, Myanmar, Australia, Cuba, Tunisia, Brasile, Slovenia, Bosnia, Kenya, Kosovo, Mozambico, Senegal, Libano, Spagna, Bolivia, Madagascar… insomma, praticamente ovunque!

I settori nei quali è possibile svolgere il servizio civile sono assistenza e protezione civile, ma anche ambiente, educazione e promozione culturale, cooperazione internazionale, interventi di ricostruzione post conflitto o a seguito di calamità naturali, sostegno a comunità di italiani all’estero.

Per chi svolge il servizio civile all’estero, oltre all’assegno mensile di 433 euro, è prevista una quota giornaliera che va dai 13 ai 15 euro, a seconda del paese. Al volontario inoltre viene garantito vitto e alloggio, e il viaggio di andata e ritorno per e dal paese di realizzazione del progetto.

Anche per i volontari che vanno all’estero è prevista una prima fase di formazione e preparazione, che dura circa un mese e viene svolta in Italia: la formazione riguarda sia il servizio civile in generale (storia e funzione), che il contesto e le attività che si andranno a svolgere durante il servizio vero e proprio.

Per sapere quali sono i progetti tra cui scegliere, sia in Italia che all’estero, consulta la banca dati ufficiale, oppure approfitta di questa occasione:

Vieni a trovarci all’Informagiovani martedì 21: ci vediamo alle 11 per un incontro informativo dedicato

Potrai chiarire ogni dubbio sul bando del Servizio Civile Nazionale e Regionale, parlare con un esperto che ti darà brevemente le informazioni essenziali per poter partecipare, confrontarti e fare domande ai referenti dei progetti, conoscere l’esperienza di un volontario che è ancora in servizio. Non c’è bisogno di un’iscrizione e la partecipazione è gratuita. Ti aspettiamo!

Perché è importante scrivere bene (in italiano)

Scrivere bene in italiano è una competenza che spesso viene considerata scontata ma che nel tempo trova sempre meno adepti.

La conoscenza della lingua del proprio paese è, in teoria, un requisito fondamentale (l’italiano questo sconosciuto). Non solo per le attività professionali, ma anche per la vita di tutti i giorni. Allo stesso tempo però è altrettanto vero che alcune competenze linguistiche di base si indeboliscono: lo si può notare nella lingua parlata di tutti i giorni, negli articoli di giornale e, soprattutto oggi, nel brulicare di testi che ci sono su internet (compresi i post nei più diversi social network).

Di per sé questo, pur essendo un peccato per certi versi, non è un male in assoluto: le lingue sono vive, cambiamenti e trasformazioni fanno parte integrante del loro sviluppo (nel 2016 non utilizziamo le stese parole ed espressioni che venivano utilizzate nell’ottocento. Ciò che invece è decisamente più allarmante è l’aumento di errori grammaticali, anche per questioni linguistiche molto semplici: la “A” del verbo avere senza “H” che è decisamente grave. Ma ci sono anche altri errori oggi molto comuni : “po’” scritto con l’accento invece che la forma corretta “po’” con l’apostrofo; “qual’è” scritto con l’apostrofo mentre deve essere scritto senza; “davanti la casa” invece del corretto “davanti alla casa”; “fuori la porta” invece del corretto “fuori dalla porta”; le frasi introdotte da “malgrado che”, “a condizione che” prive di congiuntivo; le forme “sò” e “sà” del verbo “sapere” scritte con l’accento, mentre devono essere scritte senza; infine l’immancabile “piuttosto che” utilizzato come alternativa tra più opzioni invece di contrapposizione tra due soltanto (in altre parole è un sinonimo di “anziché” e non di “oppure”). La domanda di chi legge a questo punto potrebbe essere: a chi interessa tutto ciò?

La risposta a questa obiezione la lasciamo a due autori, Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, autore di un libro proprio sugli errori grammaticali (Senza neanche un errore, Sperling & Kupfer editore, 2016): “Oggi è più che mai importante esprimersi in un italiano corretto. Al tempo del web qualcuno pensa che ogni trasgressione linguistica sia lecita, in nome della libertà individuale a mettere in rete le proprie opinioni e i propri sfoghi. Ma nelle situazioni diverse dagli incontri nei social network si viene ancora giudicati in base alla lingua che si usa. L’italiano è il primo biglietto da visita di una persona: nelle interviste, nei colloqui di lavoro, nei contatti con chi non conosciamo, appena apriamo bocca o scriviamo una lettera o un curriculum, diamo di noi la rappresentazione più reale. Lo strafalcione, la costruzione sintattica zoppicante, la parola usata a sproposito rivelano immediatamente la mancanza di cultura, l’approssimazione, e perfino il poco rispetto nei confronti dell’interlocutore. Che cosa vuol dire, oggi, esprimersi in buon italiano? Significa, a nostro avviso, saper fare quattro cose: nel parlato, adattare il tono della lingua alla situazione; nello scritto, non trascurare gli aspetti formali; in entrambi, dominare le regole essenziali della grammatica e combinare le parole e le frasi in modo corretto“.

Più in generale dovremmo rifuggire dall’idea che se una espressione scorretta va bene per noi, possa andare bene anche per il pubblico che ci ascolta. Cosa può accadere con un errore grammaticale in una lettera di presentazione allegata ad un cv oppure dentro il cv stesso? Probabilmente ci preclude la possibilità di avere un’opportunità di lavoro. Direte voi: sì, vabbè, la sostanza però non cambia. E invece cambia eccome. Se sbagliate a scrivere in italiano (per ignoranza, sbadataggine, poca cura), che cosa potreste combinare con altre competenze che richiedono, si presume, un’abilità anche maggiore?

Emozioni in foto

Il prossimo 9 giugno torneremo a parlare di immagini, fotografia e di come queste possono diventare un potente strumento per rappresentare le proprie emozioni. Lo faremo ospitano Emanuele Maggini, fotografo anconetano che ha realizzato un interessante progetto con il carcere. In anteprima sul nostro blog un’intervista che gli abbiamo fatto per capire meglio che cosa è successo.
Il tuo progetto ha portato la fotografia in carcere: ci spieghi meglio di cosa si è trattato?

La mia esigenza in quanto fotografo è sempre stata quella di trasmettere sensazioni ed emozioni,con la fotografia si ha la possibilità di rendere tangibile ciò che abbiamo dentro. Ho sempre desiderato fare qualcosa di buono per gli altri con la mia passione e con il mio lavoro,quindi ho deciso di portare la fotografia in un contesto molto particolare,in un contesto,ovvero il carcere, dove la fotografia è totalmente assente. È stata una sfida anche con me stesso che poi ha portato a risultati eccezionali anche grazie alla presenza costante di mia sorella Alice dottoressa in scende e tecniche psicologiche che ha dato un contributo enorme alla realizzazione di questo progetto. Si è trattato di uno corso settimanale con lezioni di due ore, dove è stata insegnata l’importanza della fotografia come mezzo di comunicazione in tutti i suoi aspetti ( racconto autobiografico, mezzo pubblicitario e come portavoce di contenuti inconsci) il tutto accompagnato da slide con esempi di fotografie tipo. Si è poi proseguito con l’insegnare la tecnica base della fotografia (tempi, diaframma, regola dei terzi, luci). Tutto quello che è stato imparato al corso i detenuti lo hanno messo in pratica, realizzando foto da loro progettate che potessero esprimere i loro contenuti.

Come mai hai pensato alla realtà carceraria? Nella tua percezione che tipo di stimolo,valore poteva avere la fotografia in quel contesto?

La mia esperienza personale e professionale mi ha portato alla consapevolezza di quanto la fotografia possa essere un potente mezzo per poter comunicare molto più di quanto possa essere detto. Ha il potere di poter esprimere contenuti scomodi e dolorosi di chi fotografa con eleganza e meno sofferenza e al tempo stesso la capacità di richiamare emozioni proprie in chi la guarda. Ho così pensato che potesse essere un valido sostegno farla entrare nella realtà carceraria. E che potesse offrire un valido ponte per tirare fuori l emotività di un utenza che ero sicuro avesse molto da comunicare e che poi potesse riavvicinare la comunità libera alla penitenziaria, avvolte questi due mondi sono così distanziati da stereotipi e pregiudizi che creano le vere sbarre della reclusione. Va aggiunto che secondo la costituzione il carcere è un sistema rieducativo e non mi dispiace l’idea che dopo questo corso teorico e pratico al quale ho rilasciato anche un attestato, finita la detenzione, qualcuno decidesse di fare buon uso di questa esperienza, appassionarsi a questa arte, così da farne un lavoro a tutti gli effetti.

Come è stato accolto dai detenuti il tuo arrivo? E la tua proposta?

La prima lezione è stata una di quelle più particolari, si avvertiva l’emozione ambo le parti, da parte mia sebbene avessi già sostenuto corsi importanti entrare nel contesto carcerario mi dava un mix di alte aspettative e paura, i ragazzi dall’altra parte erano incuriositi da questo corso innovativo mai fatto prima non avevano mai affrontato la fotografia in un contesto carcerario,alcuni di loro prima, e non sapevano cosa aspettarsi, abbiamo da subito appreso che il sistema detentivo lascia poco spazio alla comunicazione e che si erano iscritti a questo corso alla ceca senza sapere di cosa so trattasse ne con che modalità, hanno quindi iniziato a riempirci di domande e questo a facilitato il momento della presentazione, da lì in poi abbiamo instaurato immediatamente un bellissimo rapporto insegnantei-alunni che ci ha portato a collaborare in maniera eccezionale e professionale.

La fotografia nel tuo caso è stata un’esperienza artistica più che tecnica: possiamo dire che l’arte riesce a liberare le persone? In questo caso non hai corso il rischio di acuire ancor più il senso di libertà? Se ce stato questo rischio come lo avete superato?

La parte tecnica è stata fondamentale nell’insegnare a loro come poter utilizzare questo mezzo di comunicazione in maniera idonea, poi effettivamente la parte artistica è stata prevalente e molto più stimolante dato che il fine principe del progetto era di tirare fuori emozioni ed imprimerle in uno scatto. Il percorso per creare una foto è: concentrarsi su un pensiero, riflettere a fondo su di esso e imprimerlo. Progettando il corso io ed Alice abbiamo più volte riflettuto sul pericolo effettivamente di acuire il senso di perdita della libertà e abbiamo fatto molta attenzione ad usare immagini e parole che limitassero quanto più possibile questo pericolo. Ma l’arte è sinonimo di libertà di pensiero non fisica, e offrire loro un percorso che potesse restituirgli un po’ della loro individualità persa con l’entrata in carcere e la possibilità di comunicare anche contenuti indicibili è stata una cosa molto apprezzata dai detenuti. Abbiamo da subito compreso che la vera condanna non è la reclusione fisica ma lo smarrimento della propria personalità. Esistono celle di ferro ma anche delle prigioni mentali, l’offrire l opportunità di tirare fuori quello che avevo dentro dentro positivo o negativo, e poterlo raccontare oltre le mura, li ha secondo me per una frazione di secondo resi, veramente liberi.

In questo percorso sei stato coadiuvato da un dottoressa in scienze e tecniche psicologiche: quale è stato il suo contributo e quale, se possibile, la sua analisi dei risultati ottenuti?

Maggini Alice dottoressa in scienze e tecniche psicologiche ha contributo prettamente alla parte emotiva del corso. Il suo ruolo è stato finalizzato alla spiegazione della fotografia come veicolo di contenuti emotivi che in questo particolare contesto può rivelarsi strumento portavoce di sentimenti anche scomodi e dolorosi, ma che sono inevitabilmente presenti, anche se non detti, come anche di elementi positivi che esistono anche se si fatica a vederli in un contesto così duro e restrittivo. Portando poi i detenuti a far emergere questi sentimenti e individuando con il gruppo gli oggetti che potessero rappresentarli. Oggetti che poi sono stati utilizzati nel set e che i detenuti hanno utilizzato per le foto prodotte in still-life.
Alle luce di quanto emerso dalle foto prodotte la Dott.ssa Maggini Alice ritiene che l’ obiettivo del progetto sia stato raggiunto a pieno, considerando l’evolversi delle dinamiche di gruppo nelle varie fasi del progetto. Partito con un utenza che se pur ben disposta e pronta al dialogo è risulta nelle prime fasi palesemente in difficoltà a fermarsi su certi contenuti emotivi e non abituata a lavori che coinvolgono l’ emotività e che alla fine ha prodotto foto che raccontano di temi importanti come il rimorso, la solidarietà, la nostalgia e tanto altro. Particolarmente importante risulta il lavoro sul “tempo che scorre” tematica che come si può ben immaginare ha creato non poco disagio nel gruppo (utenza che nella maggioranza ha 10 e più anni di reclusione da scontare), argomento tanto fastidioso da essere considerato in prima istanza tabu e che alla fine del progetto risulta essere l’elemento principe della maggior parte delle foto.
Hai realizzato un corso di fotografia e quindi avevi un’aula anche se del tutto particolare; come è stato il rapporto umano con questi alunni? Cosa hai notato di diverso dalle altre aule.

Come ti dicevo prima,ho insegnato in molto corsi,con tantissimi partecipanti,non è stato poi cosi diverso a parte la presenza delle telecamere e le regole restrittive in cui ho dovuto giostrarmi. Ho trovato nell’utenza molta educazione e disciplina e soprattutto interessata e collaborativa, il rapporto è stato sempre insegnante-alunno come sempre faccio,in questo caso a maggior ragione ma ovviamente non sono mancate risate e momenti meno impegnativi dove poter scambiare due parole in tranquillità. Non sono mancati anche momenti di tensione soprattutto quando si è andati a toccare le emozioni che solitamente sono tenute al di fuori delle mura carcerarie e che come ci hanno più volte spiegato i detenuti se e quando emergono sono in questo contesto amplificate. Io e Alice ci siamo sempre concessi un momento di restituzione alla fine del corso dove io e lei discutevamo insieme su ciò che era emerso nella lezione, sui contenuti emotivi che ci portavamo via e su quale strategie adottare nella prossima lezione, siamo così riusciti a fronteggiare il tutto al meglio creando un bellissimo rapporto con la classe tanto che a fine corso per i saluti finali ci sono stati momenti toccanti conclusi con un arrivederci. I detenuti hanno pensato di salutarci scrivendoci delle lettere di ringraziamento da come ricordo per quanto abbiamo fatto insieme. È stata una cosa molto emozionante.

Ci puoi dire se questa esperienza ha cambiato il tuo modo di vedere la realtà carceraria e se si in quali termini?

Ho sempre pensato che il carcere debba essere rieducativo e non prettamente punitivo ,per molti di loro come ci hanno detto tramite lettere la punizione più grande è dentro di loro,quella di dover convivere con rimorsi e sensi di colpa. È stata un’esperienza molto intensa che mi ha portato a ragionare a fondo sulle conseguenze delle nostre azioni di tutti i giorni,sia piccole che grandi,sia positive che negative. Mi hanno fatto capire l’importanza della vista ,della libertà,della possibilità di scegliere,l’importanza di una carezza e il peso di uno schiaffo.

In che modo invece pensi possa essere stato utile per i detenuti?

Prima di tutto,la nostra presenza li ha stimolati a conoscersi, confrontarsi,a interagire con noi che venivamo da oltre le mura, hanno inoltre imparato un mestiere,che ovviamente in caso in un futuro lavoro come fotografo andrà rinforzato ma alcuni di loro hanno lasciato questa porta aperta per quando usciranno…e cosa più importante sono riusciti a tirar fuori ciò che avevano dentro con loro sorpresa,sono loro che hanno preso la reflex,calcolato la luce,creato il set e fatto lo scatto….creando delle vere e proprie opere che raccontano di loro. Secondo me sono stati straordinari.

Ci dici quali saranno i prossimi passi e come altre persone posso avvicinarsi a questa esperienza anche solo per conoscerla? E per conoscere i lavori fatti?

Certamente, abbiamo in previsione diverse mostre in tutte le Marche, partendo da Ancona ovviamente per poi fare altre tappe a Senigallia, Jesi ed altre città. Non saranno solamente mostre dove verranno esposte le foto dei detenuti ma faremo anche degli incontri aperti al pubblico dove io e Alice parleremo di questa straordinaria esperienza (l’appuntamento ad Ancona è per il 16 giugno nella sala dell’Informagiovani, in piazza Roma; ndr)

Che obiettivi può avere nel tuo futuro questa esperienza? Possiamo dire che ci sarà un continuo?

Una delle cose che ho capito ancor prima di iniziare il corso è che niente è impossibile,nonostante molti dicevano che non ci sarei riuscito per molte ragioni,quindi continuerò a portare avanti questo programma facendo altri corsi in tutta italia,ci hanno già contattato altri carceri per organizzare mostre,corsi ed incontri. Ho fatto della fotografia la mia disciplina,il mio stile di vita,ne ho ulteriore avuto conferma dell’importanza, quindi poterò sicuramente avanti altri progetti come questo. La cosa straordinaria è che questa esperienza ha formato loro quanto noi e vorrei ricordare che senza la disponibilità del Carcere di Montacuto,senza la determinazione e la voglia di cominciare dei detenuti con le loro stupende foto, tutto questo non sarebbe mai potuto accadere. Quindi ringraziamo tutti loro.

Vorremo infine ringraziarvi per questa bellissima intervista che ci avete fatto, per noi è stato importante il lavoro che abbiamo fatto dentro al carcere quanto riuscire a portarlo all’esterno, grazie ancora.

Lo faccio domani (l’arte poco nobile di rimandare)

Vi è mai capitato di avere un sacco di cose da fare? E di decidere di farle un altro giorno? La frase “lo faccio domani” crediamo sia abbastanza diffusa sia tra chi di noi è meno efficace ed efficiente, sia tra chi ha invece un sacco di cose nella propria lista delle attività da fare. In altre parole rimandare è un vizio piuttosto facile da prendere. Così succede che dovremmo preparare una relazione, controllare un budget, scrivere (magari anche un post come questo) ma prima di iniziare ci concediamo una visita a Facebook, poi clicchiamo sul link che il nostro contatto ha condiviso e da lì partiamo per altri “lidi”. A quel punto la nostra testa non è più concentrata su quel che avremmo dovuto fare e si perde per altri rivoli, senza una meta.

Perché questo accade? Un po’ senz’altro per mancanza di disciplina. Alcuni ricercatori considerano la procrastinazione fondamentalmente come l’incapacità di sapersi organizzare, come succede per altre cattive abitudini legate alla mancanza di autocontrollo, come l’abuso di cibo, i problemi con il gioco d’azzardo o la tendenza a spendere troppo. Per altri, invece, non ha a che fare con la pigrizia o la cattiva gestione del tempo, come possono dimostrare molte persone brillanti che hanno risultati sopra le media e tendono comunque a procrastinare

Per alcuni psicologi rimandare è una sorta di autodifesa: evitiamo un compito perché ci mette ansia senza restituirci una sensazione positiva. Per intenderci non è l’ansia che potremmo avere prima di giocare una partita del nostro sport preferito: quel tipo di ansia la superiamo solitamente con la voglia di giocare, di stare insieme agli altri, di vincere. Si tratta invece dell’ansia che ci fa sentire in colpa e ci fa vergognare perché non siamo all’altezza del compito da svolgere oppure non abbiamo fatto quel che dovevamo.

Il meccanismo con il quale agisce chi rimanda a domani funziona più o meno così: siccome la paura o l’ansia per il compito che ci aspetta sono insopportabili, sostituiamo quel compito difficile con uno più facile, comodo e divertente. Il comportamento è reiterato fino a che l’incombenza è troppo urgente e importante per non essere affrontata; a quel punto però diventa anche di più difficile gestione e soluzione. Esempio: dovremmo fare un certo esercizio di matematica per la lezione che avremo fra 3 giorni; oggi non la affrontiamo perché ci sembra di avere ancora molto tempo; domani ci avviciniamo all’esercizio ma ci distraiamo con altro; il terzo giorno, con sorpresa, abbiamo anche poco tempo per finirlo. Come lo risolveremo secondo voi? Sicuramente non con la nostra migliore performance. Senza contare che per qualcuno è preferibile non presentarsi a scuola piuttosto che affrontare l’esercizio e risolverlo, aggravando così ancora di più la situazione. Ma questo circolo vizioso non è proprio solo della scuola, accade con una certa frequenza anche agli adulti nel posto di lavoro.

Gli psicologi concordano sul fatto che il problema dei procrastinatori è che, invece di rimanere concentrati sui loro obiettivi a lungo termine, sono tentati a cedere alle gratificazioni immediate, che innescano quella forma di sollievo istantaneo che gli psicologi definiscono  “piacere edonico”. Gli obiettivi importanti sono più difficili ma a lungo andare portano una sensazione di benessere e soddisfazione più durevole. Se cadiamo nel tranello di pensare soltanto all’immediato e non vedere un futuro, quello che possiamo fare è cominciare a essere più attenti alla nostra dimensione futura e allo stesso tempo provare a risolvere i nostri compiti un pezzo alla volta. C’è una famosa domanda che si fa nelle sessioni formative in cui si tratta della gestione del tempo e delle risorse: come si mangia un elefante intero? La risposta più banale ma anche più giusta è: un pezzo alla volta. Questo significa che se il compito che abbiamo ci appare troppo grande, possiamo sempre spezzettarlo in compiti più piccoli, in fasi, che possiamo affrontare con maggior tranquillità e più efficacia. Provate a pensare al vostro prossimo compito come ad un puzzle: prima o poi lo finirete, basta mettere insieme un pezzo alla volta.

 

Fermatevi un anno

Sapete che cosa è un “gap year“? Il “gap year” è il modo in cui gli anglosassoni chiamano l’anno in cui decidono di prendersi una pausa. Sì, esatto, un anno di pausa da qualsiasi attività professionale (intendendo con questo anche l’inizio della carriera universitaria). Forse la cosa potrà sembrare strana per la nostra cultura, soprattutto oggi che siamo portati a pensare che ogni minuto passato a non far nulla è tempo sprecato. In alcuni paesi esteri invece il “gap year” è una prassi conosciuta, in certi casi consolidata, qualche volta addirittura consigliata. Quale potrebbe essere il vantaggio di dedicare un anno all’ozio?

Innanzitutto non si tratta di ozio come generalmente viene inteso. Esiste l’ozio creativo, che è quella condizione nella quale lavoriamo (o comunque facciamo qualcosa di produttivo, per noi stessi o gli altri) anche se non ne abbiamo consapevolezza, coscienza e intenzione. Il sociologo che ne ha definito caratteristiche e confini lo ha fatto in un libro che si intitola proprio “L’ozio creativo” (Domenico De Masi, Ediesse 1995). Quindi, una prima questione è che anche quando decidiamo di non fare nulla, in realtà stiamo producendo: ideiamo progetti per il futuro, immaginiamo come potrà svilupparsi la nostra professionalità o la nostra vita, fantastichiamo su dove vorremmo andare o come vorremmo vivere, ci dedichiamo a un hobby, coltiviamo una passione e altre cose del genere. Attenzione: deve essere però una scelta, cioè deve essere intenzionale. Per intenderci, giocherellare e perdersi tra i post di Facebook non è ozio creativo :-).

A ogni modo il “gap year” non è solo ozio, anche se creativo. In realtà è un modo interessante e intelligente per scoprire veramente di che pasta siamo fatti. Per prima cosa il “gap year” è anche e fondamentalmente un anno trascorso a vivere esperienze originali, inconsuete, diverse dalla routine o dalla programmazione che la maggior parte delle persone fa della propria vita. Per prenderci un anno di pausa dobbiamo quindi decidere come utilizzeremo quel tempo e cosa decideremo di fare: dovrà essere un’esperienza che non è dettata dalla funzionalità o da un obiettivo utilitaristico. Molto semplicemente si tratta di scegliere di fare cose ci piacciono e che ci fanno stare bene senza necessariamente che questo ci porti un utile, in qualsiasi senso lo intendiamo.

Se avete modo di ascoltare il racconto di chi ha fatto questa esperienza, vi dirà sicuramente che il “gap year” è stato fondamentale (a questo link http://goo.gl/71WTb5 potete trovare il racconto di una di queste storie; in inglese): l’esperienza può essere il punto di svolta di una vita, aiuta ad aprire gli occhi sul mondo, a respirare aria nuova per fare scelte migliori per il proprio futuro sopratutto per gli studenti. Per esempio, dal racconto di chi lo ha fatto e che potete leggere la link che vi abbiamo segnalato, scopriamo che un anno trascorso a vivere esperienze originali aiuta a comprendere meglio la diversità delle persone e come l’interpretazione del mondo in cui viviamo possa essere molto diversa dalla propria, a migliorare le capacità di adattamento di una persona, a essere maggiormente indipendenti. Se poi un anno di pausa è un anno trascorso all’estero, l’esperienza diventa ancora più interessante perché si aggiungono la conoscenza di una lingua estera, quella di una cultura diversa, la possibilità di avere contatti internazionali. Un anno di pausa può insegnare molte più cose di 10 anni si scuola e formazione.

Il nostro consiglio? Se per esempio siete nell’anno della maturità e state per affrontare la scelta (se non l’avete già fatta) di che cosa fare nella vostra vita, prendete in considerazione il fatto che un “gap year” potrebbe essere per voi la vera svolta.

 

Come prendiamo le nostre decisioni?

Come mai alcune persone decidono di diventare imprenditori e altre no? Perché preferiamo rimandare (decisioni, lavori, impegni) piuttosto che fare quel che occorre? Come reagiscono le persone davanti a una perdita o a un guadagno? Cosa motiva in generale le persone? Come prendiamo le nostre decisioni? A queste domande e ad altre ancora cerca di rispondere una recente disciplina, chiamata neuroeconomia.

Il termine neuroeconomia deriva dall’unione di due discipline che possono sembrare distanti tra loro: la prima indica lo studio del cervello, del sistema nervoso e di come influenza ed è influenzato dall’ambiente che lo circonda. La seconda, invece, studia come due soggetti interagiscono tra loro, attraverso scelte più o meno razionali, utilizzando le risorse che possiedono o sono presenti nel loro ambiente.

L’obiettivo della neuroeconomia è capire come si comporta il cervello durante i processi di decisione. In particolare in quelli di decision making, quando nella scelta sono implicati fgattori economici: dalla semplice spesa in un supermercato, all’acquisto o vendita di un titolo azionario. Modi di agire che in linea di principio sono legati alla sfera economica, ma che effettivamente derivano da comportamenti spcifici del nostro cervello.

Questa disciplina si basa su strumenti, ormai sempre più diffusi, come il PET (Tomografia ad emissione di positroni https://it.wikipedia.org/wiki/Tomografia_a_emissione_di_positroni), la risonanza magnetica e altri strumenti di indagine del nostro cervello che permettono di capire come reagisce agli impulsi esterni.

Per esempio, sono stati realizzati alcuni studi su trader  professionisti e sulle emozioni che si scatenano durante le operazioni di borsa. È stato osservato che nei momenti cruciali delle decisioni si attivano nelle menti degli operatori due dinamiche di pensiero: quella emozionale e quella razionale. Spesso è la prima a predominare sulla seconda. Attraverso questi studi risulta chiaro che l’ansia è maggiore quando le variabili esterne sono impreviste. Prendere decisioni è sempre stata considerata un’attività razionale e consapevole, in cui l’individuo che decide agisce esclusivamente in base alla massimizzazione del proprio interesse. La neuroeconomia attraverso studi e ricerche mette questa convinzione in discussione, fornendo prova che nel momento in cui si prendono delle decisioni hanno molta importanza le esperienze, le emozioni e i processi mentali involontari.

Quante volte siete andati in ansia per una scelta difficile? Quante volte abbiamo pensato di fare la scelta sbagliata? Non preoccupatevi, rilassatevi: la neuroeconomia ci insegna che per quanti sforzi possiamo fare la nostra scelta non sarà mai perfettamente razionale.

(questo articolo è stato scritto da Ilaria Carrasso)