Sinner sorride

Cosa può insegnare Sinner a chi non gioca a tennis

Lo ammetto: scrivo da tifoso e appassionato di tennis. Ma ho anche provato a cercare spunti e motivi per cui un fenomeno del tennis (vale anche per altre discipline e forse attività) può essere interessante anche per chi non lo segue.

Non starò qui a dire chi è Jannik Sinner visto che nell’ultimo periodo se ne parla tanto, in tutti i modi e per tutti gli aspetti che lo riguardano. Di spunti forse ce ne sarebbero molti ma per dare un’idea di come da un fenomeno (in questo caso inteso come fatto o evento suscettibile di osservazione, da vocabolario) possiamo trarre consigli e insegnamenti ho scelto tre aspetti che reputo rilevanti.

Persistenza: per costruire risultati serve tempo (e fiducia). Sinner ha scelto di dedicarsi totalmente al tennis a 13 anni e, anche se è vero che è molto giovane, bisogna considerare che per arrivare dove si era prefissato ha dovuto lavorare, con costanza e impegno, per 10 anni. Come spesso ribadisce sono stati anni di impegno, sacrifici, scelte non sempre facili. Ecco, la persistenza è la capacità di cui possiamo dotarci per non arrenderci alle difficoltà e, soprattutto, non aver fretta di raggiungere i risultati, saperli aspettare, confidare nel lavoro fatto (e non nel destino). 

Controllo: essere fautori del proprio destino, qualunque esso sia. Il controllo che Sinner racconta con il suo gioco è di due tipi. Il primo, potrei dire, tecnico: come lui si destreggia con la racchetta, migliorando i propri colpi di volta in volta, così tutti noi abbiamo i nostri “strumenti” di cui dobbiamo imparare ad essere raffinati utilizzatori. Poi il controllo è anche, in qualche modo, del contesto: da Sinner possiamo prendere spunto per gestire le difficoltà, le emozioni, le situazioni mutevoli e impreviste che ci capitano (come si reagisce dopo un errore? e dopo una vittoria?)

Rispetto: il coraggio della gentilezza.Come da più parti è stato rimarcato, Sinner è un “bravo ragazzo”. Quello che superficialmente viene individuato come un aspetto del carattere del tennista, è invece una capacità che aiuta a immergersi in un contesto con facilità, a predisporre l’ambiente in cui entriamo ad accoglierci al meglio. La gentilezza è il miglior ingrediente che facilita l’osmosi tra noi e il mondo. E, al contrario di quello che si potrebbe pensare, serve molto più coraggio (e consapevolezza) per praticarla di quanto se ne trova in chi decide di usare l’aggressività. Chi gioca a tennis lo sa: lo spirito è sempre combattivo, ma i modi sono gentili.

C’è poi un’ultima cosa che mi è venuta in mente mentre scrivevo queste righe. Sarebbe un errore , a mio parere, prendere Sinner come un esempio, tanto più grande (l’errore) farlo diventare un guru. Sinner è uno sportivo che vuole fare bene quello che impara: questo lo possiamo fare tutt*, in ogni campo. La cosa bella del tennis, dello sport in generale, è che rende evidenti ed universali degli esempi che possiamo tutt* seguire. Pure tu che stai leggendo, puoi “giocare” come Sinner, anche senza racchetta.

Soldi facili, perchè sono pericolosi

Stai cercando lavoro e vorresti poter guadagnare qualcosa facilmente? Magari da casa davanti al computer? Se hai ricevuto un messaggio che ti promette questo potresti essere nel mirino di una truffa che si potrebbe rivelare un reato.

Tecnicamente si chiama money-muling (dall’inglese asino, mule e denaro, money) ed è la pratica di chi, spesso senza saperlo, fa riciclaggio di denaro per conto di altri attraverso strumenti e meccanismi digitali.

Si tratta di una prassi che, grazie alla volatilità (in tanti sensi) del digitale, riesce a raccogliere “adepti” per una pratica illegale raccontata come una possibilità di guadagno (extra rispetto ad un lavoro che si ha già oppure come sostituto dello stesso). La pratica è semplice e al tempo stesso ben architettata. L’adescamento avviene attraverso servizi di messaggistica (prevalentemente Telegram) o social media, nei quali a un certo punto compare un nuovo contatto (tendenzialmente rappresentato dalla foto di una bella donna o ragazza) che chiede se sei interessato a un lavoro facile che permette un introito in denaro in breve tempo.

Se accetti di conoscere i particolari, ti verrà spiegato che la cosa è semplice: per ottenere i tuoi soldi basterà effettuare, con periodicità e frequenza, un’azione su un sito web (per es.: mettere un “mi piace” ad una struttura su Booking o cose simili). La persona  che ti contatta può darti da subito una dimostrazione: in cambio di qualche tuo click (non troppi, meno di 10) ti chiede un IBAN in cui far arrivare già i primi euro (tra i 10 e 20). La giustificazione di questo pagamento è, nell’esempio degli alberghi, il fatto che questi hanno bisogno di “like” per poter attirare nuovi clienti e per questo sono disposti a pagare.

Considerando l’ipotesi valida (in realtà, non è vero) decidi di proseguire. A questo punto le cose cambiano perchè verrai dirottato in una chat apposita in cui, insieme ad altri, dovrai compiere azioni simili. Ma cambiano un po’ le cose. I soldi, in proporzione, aumentano anche di parecchio, ma al posto di un semplice “like” devi effettuare una prenotazione che potrai poi vedere rimborsata con una differenza in positivo (guadagno). Per fare questa operazione puoi scegliere di ricevere il denaro in più sul tuo conto oppure, preferibilmente e qualche volta in via obbligatoria, in un conto in criptovalute (molto più difficili da controllare).

A questo punto magari qualcuno può chiedersi se la truffa sta nel fatto che non riceverai i soldi. E invece no. La truffa o, meglio, il reato è proprio nella transizione di denaro: tu paghi una cifra e quei soldi sono “puliti” e ricevi in cambio una cifra più un margine che però sono soldi “sporchi” (guadagnati illecitamente in altro modo). In questo modo chi mette in pratica la truffa a fronte di, poniamo, 100 euro illeciti, può ritrovarsi 90 euro puliti. Per la legge questo è riciclaggio, un reato penalmente perseguibile e tu che hai “guadagnato” sei colpevole. Cioè criminale alla stessa stregua di chi ha architettato il tutto.

Se cerchi “money muling” su internet trovi diversi post e articoli (come questo) che raccontano come evitare questo “raggiro” (in realtà lo sarebbe solo in caso in cui un truffato avesse ridotte capacità cognitive) e rifuggire da facili esche in nome del denaro. Come spesso diciamo, anche nei nostri laboratori, guadagnare denaro è essenziale per costruire un’autonomia. Ma è altrettanto essenziale capire come farlo ed essere consapevoli dei limiti normativi ed etici che questo comporta. Senza farsi distrarre da facili guadagni che, come insegna anche Pinocchio, potrebbero essere molto pericolosi.

Quanti K vuoi fare? L’illusione del lavoro da ricchi

Sono convinto che se frequenti i social media e scorri tra i video che l’algoritmo propone avrai incontrato anche tu un qualche “guru” che, in poco tempo, promette di farti realizzare guadagni milionari (anzi, come va di moda dire ora, una certa quantità di “kappa” dove con “k” si intende il simbolo che sta a indicare le migliaia). C’è da fidarsi? Anzi: sono promesse che possono essere mantenute? La risposta semplice (ma vera) è: no, a entrambe le domande.

Internet prima e i social media poi, hanno sicuramente arricchito le potenzialità del mercato del lavoro e aumentato anche le opportunità. Ma in questo tripudio di occasioni è diventato sempre più difficile riconoscere quelle che lo sono veramente da quelle che invece rappresentano solo una perdita di tempo se non una truffa. Forse qualcun* avrà sentito la parola (neologismo) “fuffaguru” che intende definire tutti quei soggetti che fanno della “fuffa” (chiacchiericcio e paccottiglia di varia natura) l’ingrediente principale della propria offerta: spesso (se non sempre) si tratta di non-lavori. Attività di formazione, creazione di imprese (sempre promettenti!), vendita facile, supporto alle imprese per le loro vendite, business (non meglio identificati) online, criptovalute. Quello che manca, sempre, è la competenza (sia posseduta che richiesta)  perchè, a quanto pare, non è ingrediente necessario: basta la voglia di fare (che, come abbiamo scritto, non è una competenza).

Come fare a riconoscere quali sono queste opportunità che rischiano di farci sentire degli allocchi quando le accettiamo?

Il linguaggio, le parole. “Quello che vuoi nella vita”, “profitto”, “pensare in grande” , “da 3 a 10 k in un mese” (migliaia di euro chiaramente). Sono alcune parole che denotano un linguaggio sempre molto spocchioso, ricco di esagerazioni, che fa leva spesso su una presunta forza personale quasi illimitata e su un atteggiamento molto aggressivo (che, diciamolo, non è sempre quello che serve nel mondo del lavoro). L’idea che vogliono tramettere i fuffaguru è quella che ciascuno di noi è potenzialmente un uomo/ una donna di successo che finora non ha sviluppato il proprio potenziale; possiamo essere tutti miliardari, solo che nessuno ce lo ha detto prima. Questo semplicemente non è vero. E non è vero nemmeno se ci “accontentiamo” di 1k anziché 10, perché, semplicemente, queste scalate di successo non esistono con questi presupposti.

Come funziona. Il meccanismo con cui il “lavoro” che dovrebbe renderci milionari si sviluppa spesso non è molto chiaro. La proposta è quella di diventare, quando va bene, bravi venditori (anche se questa parola non viene mai usata). Al termine in italiano è però sostituito da  qualche inglesismo, tipo “closer“, che sta indicare una sorta di specialista di chiusura delle trattative: di fatto si tratta di qualcosa molto vicino al telemarketing più assillante (tipo quelle telefonate fastidiose per luce, telefonia, gas, bitcoin, ecc.). Ma se lo chiami “closer” e aggiungi qualche “k” guadagna molto fascino (ma nessuna sostanza). La cosa non si palesa subito, perché prima di arrivare al dunque bisogna passare per la visione di video (motivazionali o ricchi a loro dire di segreti), il download di ebook eccezionali, eventuali interviste o questionari da compilare. Si tratta di una tecnica di marketing, applicata in maniera un po’ grezza ed aggressiva, che si chiama imbuto del marketing (marketing funnel): ad ogni fase quello che viene richiesto (e quello che si offre) è sempre un po’ di più rispetto al passaggio precedente. Così facendo chi sta organizzando la cosa tasta la nostra determinazione, noi ci sentiamo sempre più “presi” e coinvolti in modo da arrivare emotivamente predisposti al passaggio finale. Questo è, sempre, un acquisto di qualche genere (che ci permetterà solo poi di avere tutti gli strumenti per diventare ricchi… ma veramente?). Per non rimanere sul vago ecco qui qualche esempio: questo promette entrate extra on line non si sa bene con cosa; questo ha scritto quello che definisce l’anti-libro (pare l’unico che dovremmo leggere); ma c’è anche chi riesce (pagando) a finire sui quotidiani nazionali (pollice giù anche per i giornali in questo caso); c’è poi il fenomeno del momento e una sorta di evergreen del settore finanziario (peraltro con un libro il cui titolo è emblematico). L’elenco è solo esemplificativo e non esaustivo. Piccola nota: non cliccate e non compilate form nei link che ho messo

Una regola generale. Come avevamo scritto nel nostro articolo “Annunci di lavoro, offerte ingannevoli e avvertenze varie” (peraltro molto letto),  non si può e non si deve pagare per lavorare. Vale anche nel caso che la cosa non sia così diretta ma legata alla possibilità di entrare in un circolo, in un’associazione, far parte di un team e cose simili. Anche perché, a volte, il business è di tipo piramidale (tu compri qualcosa che ti serve per farlo vedere e poi rivenderlo a qualcun altro che poi a sua volta lo rivende a un’altra persona e così via, a costruire una piramide in cui al vertice arrivano percentuali di guadagno dalle attività degli altri).

Oltre il male, però, qualche volta c’è anche la cura, l’antidoto. Uno di questi, online, può essere il gruppo Facebook Fufflix  con il relativo sito web Fuffapedia dedicato alla condivisone di storie, esperienze e suggerimenti su questo mondo e queste “opportunità”. L’altro, forse più vicino e concreto, è l’Informagiovani di Ancona (o altri servizi come il nostro): chiunque si trovi davanti a un’offerta di lavoro, qualsiasi, può sempre chiederci un parere e un consiglio: è tutto gratis! 

 

 

adulti scuole serali

Scuole serali, seconda possibilità per un diploma

Sempre più persone non riescono a conseguire una qualifica o un diploma nel loro percorso scolastico, e questo può accadere per tanti motivi.

A volte non si è abbastanza maturi per capire l’importanza di avere un titolo di studio, non si ha una prospettiva chiara del futuro, oppure la scuola non è un ambiente che favorisce il completamento del percorso, o si fanno scelte sbagliate. 

Le ragioni possono essere molte, ma il risultato è sempre che ci si trova a 20, 35 o 50 anni senza una qualifica o un diploma, e questo può essere da una parte un problema e dall’altra una aspirazione o un progeto professionale lasciati nel cassetto.

 

Che possibilità ci sono a questo punto?

Molti non sanno che esiste la possibilità di frequentare le scuole pubbliche per ottenere il diploma, in classi apposite per persone adulte (cioè dai 18 anni in su) con orari adatti anche a chi lavora: sono i corsi serali per adulti, disponibili per diversi tipi di percorsi e diplomi.

In alcuni casi particolari si può accedere a questi corsi anche prima dei 18 anni.

In generale è possibile farsi riconoscere (e quindi non dover rifare) alcune materie o anni già frequentati in precedenza, soprattutto per chi ha già un diploma o una qualifica e ha deciso di prendere un altro titolo di studio.

I corsi sono naturalmente gratuiti, e vanno di pari passo con quelli del mattino, solo che si va a scuola dalle 18 alle 23, dal lunedì al venerdì.

Ad Ancona in particolare è possibile seguire i seguenti corsi:

Informatica e telecomunicazioni presso l’IIS Volterra Elia;

Manutenzione e assistenza tecnica, Servizi socio sanitari e Grafica e comunicazione presso l’IIS Podesti.

Ma è possibile frequentare anche scuole fuori Ancona, per conseguire altri tipi di diplomi.
Ad esempio ci sono i corsi CAT – Costruzioni ambiente e territorio (ex geometri), AFM – Amministrazione finanza e marketing, Operatore Meccanico Elettronico e Moda
presso l’IIS Corinaldesi Padovano di Senigallia.

Oppure Enogastronomia presso l’IIS Einstein Nebbia di Loreto e l’IIS Panzini di Senigallia.

I corsi cominciano di solito ad ottobre, ma le iscrizioni si possono fare già da prima dell’estate: se ti sarebbe piaciuto prendere un diploma ma ancora non l’hai fatto, sei ancora in tempo!

La voglia di lavorare non è una competenza

L’Informagiovani di Ancona da sempre si occupa di orientamento professionale. Questo significa, nella pratica quotidiana, offrire consigli (consulenza) a chi sta cercando un lavoro e, al contempo, individuare e promuovere opportunità di trovarlo (partendo dagli annunci di lavoro e da un servizio di banca dati).

In un modo meno pragmatico significa anche confrontarsi con il territorio (come si scriverebbe in un progetto): parlare, discutere e confrontarsi con molti ragazzi e ragazze che cercano lavoro ed anche con qualche imprenditore (o libero professionista) che stanno cercando “qualcuno”. “Cerco qualcuno che…” è la frase con cui, molto spesso soprattutto se si tratta di realtà aziendali piccole o piccolissime, inizia la richiesta di un collaboratore o collaboratrice, possibili e futuri dipendenti. Questo gergale incipit (che per gli addetti ai lavori sarebbe il “job title”, cioè la figura professionale) già di per sé racconta un certo modo (o cultura) di vedere il lavoro (molto artigianale, fondato sostanzialmente su una concezione piuttosto datata del rapporto di lavoro), è abbinato a una seconda parte molto presente in alcuni contesti: “ha voglia di lavorare”.

Cerco qualcuno che ha voglia di lavorare” come espressione di una specie di qualifica professionale onnicomprensiva è la frase che ascoltiamo con una certa frequenza da parte di chi ha un’opportunità di lavoro. Ma è anche un concetto che, fortunatamente con sempre minore incisione, è piuttosto presente anche in chi il lavoro lo sta cercando (quanti curriculum nella sezione delle competenze portano la dicitura “voglia di lavorare”!). Ma, svelo un segreto: la “voglia di lavorare” non è un competenza!

La determinazione, la capacità di focalizzarsi su un obiettivo, quella di raggiungere un risultato e di mettersi in gioco, la costanza: ecco queste possono essere competenze, ma non la “voglia di lavorare”. Questa è più che altro e tutt’al più una declinazione del nostro spirito o, forse anche meglio, un atteggiamento che possiamo avere rispetto al lavoro. E che potrebbe essere anche altalenante (per esempio personalmente spesso non ho voglia di lavorare, ma questo non mi impedisce di mettere energia e anche entusiasmo nei compiti previsti dal mio lavoro).

C’è anche un altro aspetto della voglia di lavorare che trovo poco costruttivo. Si tratta di una definizione talmente ampia, opinabile e sfuggente che non permette nemmeno di individuare con precisione quelle che dovrebbero essere le effettive competenze e conoscenze per svolgere quel lavoro. Il rischio che non ce ne siano e che quel lavoro sia (o risulti essere) del tutto squalificato e squalificante. La “voglia di lavorare” non è una competenza, lasciamola agli incompetenti.

Ikigai: un modo di immaginare il futuro (anche professionale)

Una delle ultime novità del nostro servizio è un piccolo laboratorio che proponiamo nelle scuole superiori a tema “Ikigai” (ed è stato anche al centro di un appuntamento del nostro book club). Che cos’è l’Ikigai? La risposta potrebbe essere molto complessa ma proverò a semplificarla (e quindi a ridurla senza la pretesa di esaurire il tema in poche righe).

E visto che l’intento è semplificare, estremizziamo con una definizione imprecisa ma che serve a limitare il tema: “ikigai” è un concetto  filosofico giapponese che possiamo tradurre in italiano come “ragione di vita” o “ragione di essere”. Pur rimanendo lontani dall’idea originaria, possiamo dire che l’ambito è quello della motivazione ma anche della felicità che guidano le nostre scelte di vita (e per quello che riguarda più da vicino i nostri temi, le scelte professionali e di lavoro).

Questo concetto, ridotto e semplificato, può essere utilizzato anche in ambito di orientamento professionale (il nostro! 😊), suggerendo una modalità di “ricerca della propria strada” che ha come fulcro l’equilibrio personale? E su come trovare un proprio equilibrio è prprio l’Ikigai ad aiutarci.

Sempre nell’ambito della semplificazione, l’Ikigai è l’incontro tra quattro dimensioni (cerchi, come rappresentato anche nella figura in questo post) del nostro animo: il primo cerchio è rappresentato da “ciò che amiamo fare“, tutte quelle attività che ci piace realizzare con uno slancio affettivo potremmo dire incondizionato; il secondo cerchio è rappresentato dalle attività di cui “il mondo ha bisogno“, intendendo con questo dire ciò che ha un’utilità verso gli altri (in senso universale come potrebbe essere per certi lavori di cura, o all’interno di una specifica organizzazione), il terzo cerchio è quello fatto delel attività che portiamo a termine perchè “qualcuno ci paga“, i nostri “doveri” e obblighi verso gli altri (principlamente in ambito lavorativo, fuori dal quale potremmo intenderli anche come impegni che ci siamo presi); il quarto ed ultimo cerchio è quello delle “cose che sappiamo fare bene“, per un talento naturale o perchè ci siamo esercitati e impegnati per ottenere un risultato ottimale. “Ciò che amiamo” e ciò di cui “il mondo ha bisogno” danno vita alla “missione” (nel senso di attività strettamente collegate al nostro desiderio di stare bene ed aiutare gli altri). “Ciò che amiamo” e “ciò che sappiamo fare bene” formano la passione, l’anima delle attività legate strettamente a ciò che ci fa sentire bene. Laddove troviamo la “professione” ci sono “ciò che sappiamo fare bene” unitamente “ciò per cui ci pagano”; infine la “vocazione” è l’intersezione tra le “cose per cui ci pagano” e quelle “di cui il mondo ha bisogno”.

Al centro di tutto questo troviamo l’Ikigai, che, come immaginiamo a questo punto, rappresenta un po’ la sintesi di tutti questi nostri intenti e volontà. Ci sono due notazioni da fare a questo punto (dopo la figura).

La prima riguarda il fatto che anche se l’Ikigai in questa sorta di interpretazione è uno schema ben strutturata e definito, nel suo sviluppo o nella sua applicazione dobbiamo immaginarlo più come una sorta di ricerca continua dell’equilibrio. Trovare il proprio Ikigai non vuol dire essere fermi in una situazione in cui tutte le componenti illustrate ne fanno parte in egual misura: possono esserci fasi della vita in cui siamo più spostati sulle cose che amiamo (e magari meno su quelle per cui ci pagano) e viceversa. L’idea è che, per trovare il nostro benessere (ed essere forse felici) possiamo utilizzare questo schema come una bussola orientativa per ritrovare l’equilibrio tra le varie componenti.

La seconda, forse ancor più importante. È che questa è una delle possibili interpretazioni dell’ikigai e forse nemmeno la più corretta. Come fa notare Valeria Candiani nel suo blog, quello dell’ikigai è un tema più complesso e sul quale sarebbe bello 8e giusto) approfondire con minore semplificazione. Ecco allora per noi, e magari anche per chi dovesse appassionarsi al tema dopo averlo scoperto con questo post, la sfida è quella di approfondire e migliorare la conoscenza dell’ikigai. A me sembra un bell’obbiettivo per il prossimo futuro, no?

Dopo il diploma?

Se la maturità fa paura (forse non più), quello che viene dopo genera confusione, disorientamento, incertezza. Lo abbiamo toccato con mano durante una serie di laboratori progettati all’interno di un percorso PCTO con il Liceo Scientifico “Galilei” di Ancona in cui abbiamo affrontato, con i ragazzi, due aree tematiche: la prima, quella sulle professioni e, soprattutto, sulle aspettative professionali di studenti e studentesse; la seconda sulle opportunità e i percorsi possibili dopo la fatidica maturità.

Nel primo laboratorio abbiamo realizzato un’attività che potesse aiutare a scoprire, oltre la superficie, il mondo delle professioni e come, in futuro, una studentessa o uno studente possano costruire la propria carriera. Per farlo ci siamo ispirati a due libri: “Welcome to the jungle” di L. Zanca Feltrinelli e “Job-Hopper’s Guide to Choosing a Career: Find The Right Job for Your Life—And Lifestyle” di K.Knock, Paperback edizioni (pubblicato solo in lingua inglese). Abbiamo coinvolto i partecipanti in un’attività laboratoriale il cui obiettivo è stato quello di confrontarsi sulle aspettative riversate in una professione ma anche sulle competenze che la stessa richiede.

Nel secondo laboratorio abbiamo invece proposto, anche in maniera un po’ provocatoria, un dibattito sulla possibilità di scegliere, dopo il diploma un percorso universitario, uno lavorativo oppure un anno di riflessione e sviluppo personale (conosciuto, con qualche approssimazione, come anno sabatico). L’intento non era quello di proporre una soluzione, con uno dei tre percorsi, alle istanze, di solito diverse, di studenti e studentesse: è stato utile, invece, far emergere idee, informazioni e talvolta stereotipi sul processo di costruzione del proprio futuro professionale e di vita.

Nelle classi, quello che ho notato ad una prima lettura, è una visione del mondo del lavoro ancora frutto delle nozioni e delle esperienze ascoltate e trasmesse da famiglia e figure adulte a cui ragazze e ragazzi si riferiscono, anche in maniera indiretta (discorsi a cui partecipano, esperienze di cui sono testimoni, consigli di cui sono oggetto). C’è l’idea che il percorso di costruzione del proprio futuro professionale sia piuttosto lineare, in un susseguirsi di cause-effetti all’interno del quale la certezza del risultato è garantita. E sulla parola “certezza”, l’altra considerazione: in tempi di “crisi” su versanti diversi, il bisogno di certezze per il futuro si fa più forte soprattutto nelle nuove generazioni, anche se queste sarebbero quelle con maggiori energie, forze e risorse per affrontare l’instabilità. 

A mio modo di vedere, la conferma che il futuro, professionale o meno, lo costruiamo non tanto sulle risorse che abbiamo oggi, ma sulle prospettive, aspettative e visioni che abbiamo del domani: in parole più povere, per chi è più giovane (e non solo), per affrontare con coraggio e determinazione i passi futuri è più utile la costruzione di una prospettiva di crescita condivisa che un sostegno individuale concreto.



Le buone notizie negli annunci

Per proporre ogni settimana una selezione di annunci che possano essere utili a chi sta cercando (o cercando di cambiare) lavoro usiamo diverse fonti (peraltre indicate a margine delle offerte).

Tra queste c’è anche un social network appositamente dedicato al mondo del lavoro (almeno nelle intenzioni): si tratta, come avrete capito, di Linkedin.

Ormai da tempo anche in Italia Linkedin è una piattaforma utilizzata dalle aziende per svolgere tutta o una parte delle selezioni del personale. Anche le agenzie specializzate lo utilizzano anche perché può essere uno strumento potente per conoscere i candidati (e, per loro, farsi conoscere dalle aziende).

Qualche giorno fa, su segnalazione di una newsletter (che peraltro vi consigliamo, si chiama “Sarò brevi” di Flavia Brevi e la potete trovare qui), su Linkedin è apparso un annuncio di ricerca personale che, per come siamo abituati, è sembrato a molti bizzarro.

L’azienda, oltre a specificare quali fossero le mansioni, i compiti e le competenze richieste, ha inserito anche un paragrafo dedicato alle cose che non cercava e che, anzi, chi si fosse candidat* avrebbe dovuto eliminare dal cv:

  • la foto
  • la data di nascita
  • lo stato coniugale
  • tutti quegli aspetti identitari che non hanno a che fare con la posizione, come la religione o l’orientamento sessuale.

L’annuncio (che al momento in cui scrivo è ancora presente anche se non accetta più candidature,  ma non è detto che lo sia al momento della lettura) era di una realtà italiana, Serenis, che si occupa di offrire servizi di consulenza psicoterapica attraverso una piattaforma on line. Mi son detto: bisogna farlo sapere, perché ci sono buone notizie anche da noi!

Dal mio punto di vista, a parte l’esemplare attenzione che questa azienda ha avuto su temi del genere, è importante che ci siano episodi simili perché “insegnano” e segnano un piccolo passo avanti. I contenuti che vanno tolti dal cv sono quelli che non dovrebbero influenzare la valutazione di chi sceglie un candidato o una candidata, valutando così, com maggiore serenità (e direi anche con più precisione e rispetto) le competenze e le caratteristiche di chi andrà a fare quel lavoro.

Ed è una buona notizia anche per chi, come me, crede che dovremmo, nel nostro contesto lavorativo, fare qualche passo in avanti in questa direzione: non solo per avere diritti più equi ma anche, sono convinto, per guadagnare competitività nell’economia delle imprese italiane. 

 



Come la cucina pò aiutarci in qualsiasi altro lavoro

Inizio questo articolo con una nota di orgoglio. Sono davvero soddisfatto di aver organizzato durante questo anno una serie di iniziative che hanno unito due aspetti della mia vita a cui sono molto affezionato: il lavoro (inteso come mondo del lavoro) e la cucina (una passione che ho coltivato tra corsi di formazione e fornelli di casa). Il percorso Be Smart declinato nella versione “food” ci ha permesso di realizzare prima un evento dedicato alla scoperta delle soft skill di questo mondo e poi un percorso di formazione dedicato alle stesse: è stato, per certi versi, anche un modo per esplorare un modo diverso di fare orientamento professionale.

Il tema, però, non è la mia soddisfazione. Ho notato che ci sono delle simmetrie tra il mondo della cucina e quello del lavoro che riguardano l’universo delle competenze trasversali (soft skill) e un’idea più articolata di che cosa significhi orientarsi e districarsi nel mondo del lavoro: secondo il mio punto di vista, ha molto a che fare con lo sviluppo dell’autonomia, intesa come la capacità e l’atteggiamento mentale di trovare risorse proprie per affrontare problemi e situazioni nuove o, più semplicemente, tracciare un proprio percorso.

Il primo aspetto, che reputo fondamentale, è il fatto che la cucina ti obbliga a mettere insieme mani e cervello (e cuore): è un lavoro fisico, prevalentemente, ma più lontano di altri da meri automatismi e routine (certo, il lavoro in questo settore non è sempre il trionfo della creatività ma è altrettanto vero che sono più frequenti che altrove imprevisti e trucchi per fare i “soliti” lavori in modo diverso). La passione è fondamentale per superare ostacoli, fatiche e delusioni. Credo che sia superfluo, poi, argomentare su come, da certi livelli di specializzazione in poi, la parte intellettiva sia fondamentale per creare non solo piatti gourmet ma anche strategie vincenti.

Un secondo aspetto riguarda più da vicino le hard e le soft skill: la cucina ti insegna a organizzarti, a pianificare, a risolvere problemi e a usare la creatività. La razionalità è necessaria per fare scelte competenti e sagge che riguardano motivi etici (oggi) ed economici (da sempre! Ogni scarto in cucina sono soldi buttati via, meglio limitarli). L’empatia è utile non solo per indovinare il gusto del pubblico, ma anche perché chi cucina entra in maniera quasi intima in contatto con chi mangia e consuma ciò che viene cucinato: il rapporto di fiducia (seppur tutelata con norme e regolamenti del settore) che si instaura è più alto (e a volte inconsapevole) che in altri contesti. Se poi allarghiamo un pochino l’orizzonte ad altri ambienti, rimandando nel food, ci sono altrettante competenze trasversali che si sviluppano in chi sperimenta lavori come il cameriere e il barista ma anche l’accoglienza e e l’assistenza ai clienti nelle strutture ricettive (il background e l’esperienza di uno scrittore e filosofo com Sandro Bonvissuto non sono casuali)

Se togliamo “la cucina” da queste argomentazioni rimangono contenuti che possiamo utilizzare in tanti altri settori e contesti senza che perdano efficacia e importanza. Si tratta di un universo che contribuisce molto a sviluppare ed arricchire quelle che sono definite “charachter skill” in un testo edito da Il Mulino dal titolo “Viaggio nelle character skill. Persone, relazioni, valori” (G. Chiosso, A.M. Poggi, G. Vittadini). Come si legge nella prefazione, le character skill sono disposizioni della personalità, quali l’apertura mentale, la capacità di collaborare, la sicurezza. In un’epoca in cui le trame del personale e del professionale si intrecciano, la cucina è una palestra per scoprire ed esercitare le nostre competenze e le nostre abilità personali.

Tre cose che ho imparato dal volontariato

Nel campo dell’orientamento, da che me ne occupo (o sento parlare), si usa distinguere tra tre tipi diversi di “sapere”: il sapere, il saper fare e il saper essere.

Si tratta di un modo per provare a organizzare e distinguere abilità diverse che ogni persona sviluppa durante il proprio percorso formativo e lavorativo. Il “sapere” è l’insieme delle cose che impariamo a scuola e in altri ambienti (sono le nostre conoscenze). Il “saper fare” è il modo con il quale quelle conoscenze le mettiamo in pratica e siamo in grado di applicarle a contesti e situazioni diverse.

E infine, il “saper essere” è il modo con il quale interagiamo con gli altri, affrontiamo le situazioni, risolviamo i problemi, gestiamo le emozioni… insomma tutto ciò che riguarda quello che in altri contesti potremmo chiamare lo “stile” ed anche il sistema valoriale a cui ispiriamo i nostri comportamenti.

Volendo essere spiccioli (e mi perdoneranno gli orientatori), se per il sapere c’è la scuola e per il saper fare c’è il lavoro, per il saper essere un buon terreno di messa alla prova e di crescita può esserlo il volontariato. Lo dico perchè ho avuto modo di rifletterci dopo aver dedicato una settimana di questo mese proprio a questo: tempo e disponibilità al servizio degli altri e di una giusta causa; un’esperienza che mi è servita sotto molti punti di vista, ma qui vi dirò quelli che secondo me sono i più rilevanti da un punto di vista professionale.

Impegnarsi senza un fine utilitaristico: sono, da sempre, un convinto sostenitore che perché si possa chiamare lavoro, deve essere pagato. Ma il fine del denaro (della carriera, degli obiettivi da raggiungere, ecc.) non sempre rappresenta la modalità migliore per disvelare il nostro massimo potenziale. Tolto quello (l’utile), potremmo accorgerci di avere un potenziale inespresso che si libera solo quando a prendere il comando non è il cervello ma magari anche un po’ il cuore, la passione, la motivazione personale. C’è anche il rischio di sorprendere se stessi!

Costruire relazioni nuove. Se stiamo sempre nello stesso contesto, facilmente incontriamo e ci confrontiamo più o meno con le stesse persone e, altrettanto con frequenza, all’interno dello stesso “setting” di riferimento (un po’ come andare in vacanza sempre nello stesso posto, leggere lo stesso tipo di libri, avere sempre e solo gli stessi amici). Invece qualche volta è utile cambiare orizzonte di riferimento e avere a che fare con persone e situazioni lontanissime da noi: funziona come una ricarica di energia e ci aiuta a tornare in maniera più vivace anche nella inevitabile routine.

Sperimentare l’altruismo. Il mondo e la società che stiamo sperimentando di questi tempi sono decisamente orientati a scelte individuali in cui il prossimo è spesso l’ultima delle nostre preoccupazioni, fino a scomparire del tutto. La tecnologia digitale, a cui non do la colpa, è tutta orientata all’individualismo: i social network li consultiamo da soli, lo smartphone è un oggetto personale, lo shopping e altre attività una volta solo fisiche sono diventate virtuali lasciandoci soli nella fruizione. Questo ed altri stili di vita che mano a mano apprendiamo (o ci adattiamo a far nostri) vanno nella direzione opposta dell’apertura agli altri che è invece fondamentale per imparare a essere, per esempio, più empatici e relazionalmente significativi.

C’è poi una cosa che mi sono ricordato facendo volontariato e che trovo utile condividere con chi legge questo post. Personalmente non riesco a lavorare (nel senso di dare il meglio delle mie competenze) in un contesto (ambiente lavorativo) il cui sistema valoriale è lontano (o, peggio, opposto) dal mio. Il lavoro è una brutta bestia perché da una parte ci permette di “portare a casa la pagnotta” e dall’altra ci richiede tempo ed energie che occupano buona parte della nostra vita: credo che sia auspicabile farlo rimanendo (e sentendosi) belle persone.



Tieni il tempo!

La gestione del tempo è una delle soft skill (se non ricordi cosa sono leggi qui) tra le più conosciute e utili nel lavoro e nella vita. Spesso non puoi decidere quanto tempo avere a disposizione, ma quello che conta è riuscire ad organizzarlo al meglio possibile. Quali sono le problematiche più comuni? Scarso tempismo (sei puntuale o ritardatario?), accumulo eccessivo di lavoro o impegni extra, difficoltà a mantenere il focus sugli obiettivi prefissati o a rispettare le scadenze, perdere tempo in situazioni irrilevanti e dispersive.
A volte per non voler rinunciare a nulla, si rischia di fare di fretta o essere in ritardo su tutto. La difficoltà di dare priorità può farti sembrare tutto uguale e non sai più da dove iniziare; è importante stabilire un principio per dare un peso diverso a impegni e attività (Per urgenza? Per importanza? Per interesse?).
Il nostro rapporto con il tempo rivela caratteristiche della nostra personalità; il ritardo cronico può non essere solo questione di disorganizzazione, ma può avere alcune motivazioni psicologiche inconsce tra cui la ribellione ad un genitore vissuto come troppo autoritario nell’infanzia (Se sei ritardatario cronico e ti incuriosisce questo tema qui trovi qualche spunto).
Un’altra difficoltà comune nella gestione del tempo è quella di trovarsi sistematicamente a fare le cose all’ultimo. “Quella relazione importante la scrivo nel pomeriggio, la settimana prossima faccio questa telefonata, da domani inizio a studiare per l’esame …”. Quante volte ti sei fatto simili promesse senza riuscire a mantenerle? Si chiama procrastinazione ed è l’abitudine a rimandare le azioni da fare sempre ad un altro momento; può diventare uno stile di vita caratterizzato dall’incapacità di rispettare impegni e scadenze.
E al lavoro, come si può gestire bene il tempo? Pianifica con cura ed intelligenza, poi segui il piano con la giusta flessibilità (non troppa e non troppo poca!). Tempismo non significa agire frettolosamente quindi prenditi il tempo opportuno richiesto dall’occupazione che devi svolgere.
Un buon sistema che potresti sperimentare è quello delle 4D: 1. Delete (elimina): quell’attività può essere eliminata? Ricorda sempre la regola 80/20 proposta da Vilfredo Pareto secondo cui l’80% dei tuoi risultati deriva dal 20% delle tue azioni. 2. Delegate (delega): c’è qualcun altro che può eseguire quel lavoro al tuo posto? Se si, potresti delegarlo e ottimizzare il tuo tempo a disposizione. 3. Defer (rinvia): alcune attività possono essere eseguite in seguito, ma entro alcuni parametri. Definisci sempre delle scadenze e posticipa quello che può essere posticipato (ma senza cadere nella procrastinazione!). 4. Do (fai): ci sono cose che devono essere fatte immediatamente e avere la priorità assoluta. Rimandare queste attività potrebbe introdurti ad una spirale di ansia e stress.
Qui puoi approfondire le 4D collegate a obiettivi smart e qui trovi qualche tecnica di gestione del tempo.
Se invece vuoi un colloquio di orientamento e un confronto su questa e altre soft skills, passa a trovarci!

L’Informagiovani in due parole: informazione e orientamento

Quando ci chiedono cosa fa l’Informagiovani noi operatori rispondiamo sempre con due parole: informazione e orientamento.

Informazione – beh direte voi – si evince già dal nome; sì è vero diamo informazioni su tante tematiche ma non ci limitiamo a questo.

Cerchiamo infatti di aiutare a scegliere quali tra queste informazioni possono essere utili, ossia  orientiamo verso la strada o percorso più opportuno.

Aiutiamo a capire come muovervi verso il raggiungimento del vostro obiettivo personale e professionale: che si tratti di scegliere un corso di studi, un corso di formazione, un’opportunità lavorativa o ancora un’opportunità di mobilità all’estero o una soluzione abitativa in affitto. E molto altro ancora come potete vedere sul nostro sito.

Come lo facciamo? In maniera del tutto gratuita sia nell’attività quotidiana di sportello sia nelle attività laboratoriali che organizziamo in autonomia o in collaborazione con altre realtà.

Proprio dalla collaborazione tra Informagiovani e Polo 9 sono nati i laboratori di orientamento rivolti alle scuole secondarie di secondo grado di Ancona e provincia che hanno preso il via lo scorso anno e che continuano anche per il 2022, rientranti nel progetto YO – Your Opportunity.

Nel mese di marzo con cadenza settimanale stiamo realizzando infatti 4 laboratori on line rivolti alle classi terze e quinte di alcuni Istituti superiori della provincia di Ancona su tematiche legate al mondo del lavoro: “Il CV e la ricerca attiva del lavoro”, “Il colloquio di lavoro”, “Le competenze per i lavori del futuro” e “Be smart: testimonianze dal mondo lavorativo”.

Questi laboratori che le scuole propongono ai/alle propri/e studenti/esse come attività di PCTO hanno l’obiettivo di preparare i ragazzi e le ragazze ad affrontare il momento dell’uscita dal contesto scolastico e ad affacciarsi sul mondo del lavoro, un mondo con dinamiche e regole molto diverse da quelle che hanno conosciuto finora.

Cerchiamo di far capire ai/alle futur* lavoratori/trici quanto sia importante presentarsi nel modo giusto (regola valida non solo nel contesto lavorativo a dire il vero) con un buon cv, quanto siano importanti le competenze trasversali – avete mai sentito parlare di soft skill? – che, anche se inconsapevolmente, stanno già acquisendo e mettendo in pratica anche nel contesto scolastico e che saranno loro utili in tutti i contesti della vita. Il tutto arricchito da testimonianze provenienti dal mondo del lavoro.

Come sono organizzati questi laboratori? Cerchiamo sempre di mettere al centro delle nostre attività i ragazzi e le ragazze e quindi alterniamo a momenti frontali momenti interattivi dove i/le protagonisti/e siano proprio loro.

Nel corso degli anni abbiamo organizzato anche altri tipi di laboratori rivolti alle scuole; per scoprirli consultate la pagina workshop sul nostro sito.

Ogni anno proponiamo alle scuole i nostri workshop lasciando ai docenti la valutazione di utilizzarli come attività per i/le propri/e studenti/esse ma anche gruppi di ragazz* possono organizzarsi in autonomia per richiederceli. I nostri workshop sono gratuiti e possono essere realizzati sia in presenza (situazione pandemica permettendo) sia on line.

Se sei un* insegnante o un/una ragazzo/a interessat* puoi contattarci per avere maggiori informazioni. Saremo lieti di soddisfare la tua richiesta.

Scuola e lavoro non si vogliono bene

Sentendo la cronaca di questi giorni sul tema dell’alternanza scuola e lavoro mi è tornato alla mente il mio periodo di alternanza. In realtà, quando ero uno studente, l’alternanza non c’era e l’età in cui ho cominciato a “praticare” l’ambiente di lavoro era più tenera di quella in cui lo si fa adesso.

Alla fine della terza media, mio padre ritenne opportuno farmi fare un po’ di pratica: aveva una piccola azienda di commercio di attrezzature e mobili per l’ufficio e il mio primo lavororo fu, me lo ricordo ancora, “creatore di fogli di appunti”. Per un suo senso piuttosto spinto di riciclo della carta (in tempi non sospetti, erano i primi anni ’80) mi diede il compito di ridurre alcuni fogli di carta da pacchi usati, in piccoli fogli per appunti (i post-it all’epoca, almeno in quel contesto, erano un upgrade di lusso). Non era certamente una mansione “di valore” o che potenziava certe mie competenze (forse); e a dir la verità non saprei nemmeno dire di preciso che cosa ho imparato da quella esperienza da un punto di vista tecnico (è evidente che non ho inventato, da lì, uno strumento che potesse competere con post-it).

Ma se quella esperienza la ricordo ancora oggi (e non è un trauma), forse non è stato tempo sprecato e qualcosa dentro di me ha lasciato. Ora, al netto che i figli e le figlie rischiano di mitizzare i padri soprattutto in certi periodi della vita, credo che l’elemento distintivo di quella primordiale esperienza di alternanza scuola-lavoro fosse l’amore, l’affetto e la premura che il mio genitore, datore di lavoro per qualche ora al giorno, metteva nel trattarmi. E intendo nell’accogliermi in quel posto (suo, di cui sentiva responsabilità e orgoglio), nel mostrarmi come comportarmi, nel darmi un compito che potessi, seppur con noia, portare a termine, nell’insegnarmi modi e maniere di gestire impegni, rapporti e relazioni. Forte della giovane età che ci rende decisamente più permeabili e sensibili all’apprendimento, certi concetti (come amava chiamarli mio padre) non me li sono mai dimenticati, come fossero, questi sì, post-it di appunti che mi si sono appiccicati dentro.

Probabilmente è troppo filosofico e magari un po’ hippy parlare di amore in un posto di lavoro. Ma credo che quello che manca all’alternanza scuola lavoro di oggi sia quell’amore. Non sono così ingenuo da pensare che imprenditori e imprenditrici diventino genitori per qualche settimana di adolescenti che, diciamo la verità, professionalmente non prenderebbero in considerazione. Però, credo che le attese e le aspettative per questo periodo di esperienza fuori dalla scuola e dentro le aziende, debbano essere ispirate a quel tipo di cura e affetto. E questo, penso, sia un tema di formazione per chi in azienda si occupa di accogliere i giovani che entrano per scoprire come è fatto il mondo del lavoro.

Scuola e lavoro dovrebbero tornare (o forse cominciare) a volersi bene per rendere la scoperta del mondo del lavoro un percorso meno spigoloso e magari anche più produttivo.

Questo articolo è stato pubblicato su Linkedin qui 

5 consigli per la scelta dell’università

La scelta dell’università è una fase fondamentale della vita, spesso tutt’altro che facile da affrontare. Ecco 5 suggerimenti che speriamo possano aiutare la tua riflessione:

1 – Lascia stare la perfezione
La decisione perfetta non esiste, anche quella ‘giusta’ sarà portatrice di aspetti positivi e negativi. Qualsiasi strada tu decida di intraprendere, probabilmente proverai un po’ di dispiacere per quello a cui rinunci, incontrerai qualche paura o difficoltà. L’essenziale è scegliere con la maggiore consapevolezza possibile, riconoscendo i tanti fattori in causa e mettendo priorità. Cerca di individuare il meglio possibile ad oggi, tenendo conto che, nella peggiore delle ipotesi, il percorso può essere aggiustato in ogni momento.

2 – Fai dialogare testa e cuore
Il piano emotivo è fondamentale (passioni, motivazioni ed aspirazioni), al contempo è importante considerare anche quello razionale, per rendere l’intuizione maggiormente affidabile. Meglio seguire gli interessi personali, anziché le presunte garanzie di trovare lavoro con una certa facoltà. Ma allo stesso tempo è produttivo riflettere su quali delle tue passioni siano maggiormente spendibili e ‘monetizzabili’.

3 – Non lasciarti guidare dalla paura
Prevedere il futuro con sicurezza è impossibile. Quindi fa paura assumersi la responsabilità delle conseguenze di una scelta presa necessariamente nell’incertezza. A questo si possono aggiungere il timore del cambiamento, del giudizio degli altri, ecc. La paura porta a rimandare o fare scelte comode, ma non soddisfacenti. Per crearsi la vita desiderata occorre correre dei rischi: non focalizzarti sull’evitare la paura, ma persegui ciò che vuoi. Quando si esce dall’area protetta e dall’abitudine, si impara, si cresce e si migliora. Un po’ di coraggio e fiducia nell’affrontare l’incertezza possono cambiare la vita.

4 – Informati
Oltre ad un percorso interno di consapevolezza di sé, è utile conoscere l’esterno: l’ampia lista di facoltà, corsi ed indirizzi. Universitaly, il portale del MIUR dedicato all’università, contiene offerta formativa e informazioni utili. Sui siti degli atenei e agli open day è possibile raccogliere notizie sui corsi e sui piani di studio, analizzare gli insegnamenti e conoscere gli sbocchi professionali. Anche lo scambio con amici e conoscenti può essere interessante per raccogliere elementi, a patto di farsi raccontare dati di fatto dell’esperienza e non valutazioni.

5 – Prendi tempo
E’ utile iniziare presto ad occuparsi della questione, per darsi la possibilità di maturare la scelta con calma. Serve tempo per capire quello che si desidera, tempo per raccogliere le informazioni e per analizzare le opzioni, tempo per distrarsi dalla decisione per un po’ e tornarci poi sopra con la mente fresca.

Hai ancora dubbi sulla tua scelta? Passa a trovarci per un colloquio di orientamento!

Lasciare il lavoro

Quando è una buona idea lasciare il lavoro?

Ne avete sentito parlare?

Si chiama the Great Resignation o the Big Quit, ed è una tendenza che negli ultimi mesi si è manifestata nel mondo del lavoro soprattutto negli Stati Uniti d’America, e in parte anche in alcuni paesi europei, tra cui l’Italia

Queste espressioni inglesi significano dimettersi, lasciare, abbandonare, e il fenomeno ha interessato vari aspetti della vita delle persone, come lo sport, le relazioni, la religione. Le persone lasciano il loro lavoro, abbandonano abitudini che avevano da tanto tempo, percorsi intrapresi e relazioni apparentemente consolidate.

Tutto sembra essere iniziato con i cambiamenti a cui la pandemia ci ha costretto: cambiamenti nel modo di lavorare, di vivere, di occupare il tempo e di pensare al futuro.

Rompere la routine giornaliera, settimanale e, alla fine, anche annuale, ha permesso a molti di fermarsi a riflettere se quello che stavano facendo della propria vita fosse quello che volevano. E la risposta per tanti è stata no, proprio no.

Chi ha lasciato il lavoro l’ha fatto in maggioranza per una posizione migliore, ma migliore in che senso? Al primo posto c’è naturalmente la retribuzione, ma subito dopo vengono motivazioni quali la salute (mentale e fisica), e la ricerca di un migliore equilibrio tra vita e lavoro.

Se pensiamo al nostro contesto, quando possiamo dire che vale la pena di considerare un cambiamento?

Naturalmente non è una decisione che va presa con troppa leggerezza, ma nemmeno scartata come impossibile.

Ecco alcune domande, da adattare al settore in cui lavorate, che vi potete fare per valutare se conviene investire tempo ed energie nel posto in cui siete:

  • vengo considerato/a un valore per l’azienda o parte dello staff facilmente sostituibile?
  • i costi che sostengo per andare a lavorare (trasporti, pasti fuori casa, ecc) sono adeguatamente ripagati dalla retribuzione o la riducono notevolmente?
  • mi sono state indicate le norme da rispettare per la mia tutela e per la sicurezza sul lavoro?
  • il mio orario è rispettato o spesso ci sono cambi dell’ultimo momento, per cui è difficile per me organizzare qualsiasi altra cosa al di fuori del lavoro?
  • mi viene data la possibilità di sviluppare le mie potenzialità, di imparare e crescere come lavoratore?

Queste sono alcune piccole riflessioni da fare se vi trovate a pensare al futuro e in prospettiva vorreste migliorare la vostra situazione lavorativa. Se le risposte a queste domande non vi soddisfano e vi sentite pronti a mettervi in gioco, può essere il momento di guardarsi intorno. 

In questo periodo le posizioni di lavoro aperte sono davvero tante e, se avete una preparazione nei settori che stanno crescendo di più, c’è davvero possibilità di ottenere un buon posto di lavoro.

Bisogna naturalmente prepararsi e valutare anche i cambiamenti: dovrò fare qualche chilometro in più per andare a lavorare? Cambierò le persone con cui lavoro a cui ho fatto l’abitudine? Se questi aspetti non vi spaventano, siete pronti a cominciare la ricerca.

Infine, un consiglio per tutti, anche per chi non sente di avere i numeri per lasciare il lavoro che ha: allontaniamoci dalla cultura che vede il lavoro come qualcosa per cui dovremmo ringraziare, un favore che ci viene fatto, e cominciamo a pensarlo invece come uno scambio tra due parti, in cui entrambe hanno doveri e diritti, e magari un obiettivo comune.

Quanto valgo?

Scorrendo tra i post di LinkedIn mi ha colpito uno di Gian Luca Bruno (per essere esatti e corretti anche nell’attribuzione dei meriti). Il post riportava l’immagine di una bottiglietta d’acqua e nel testo Gian Luca spiegava che quella bottiglietta valeva 0,15 cent al supermercato, 1 euro al bar, 2 euro in stazione, per arrivare anche a 3 euro in aeroporto o in altri luoghi in cui era pii “apprezzata”.

La metafora proposta è quella di prendere coscienza che anche noi, possiamo essere simili a quella bottiglietta: se crediamo di meritare o valere più di quello che veniamo pagati (o apprezzati) possiamo sempre prendere in considerazione l’idea che ci possono essere altri luoghi in cui veniamo meglio valorizzati. I luoghi, insomma, possono significativamente incidere sul nostro valore. La metafora dovrebbe farci anche capire che, a volte, vincere la pigrizia e l’abitudine (o la comodità) di stare in alcuni contesti potrebbe darci l’opportunità di maggiori soddisfazioni.

La metafora mi piace molto e per certi versi concordo: soprattutto sulla necessità, in particolare nel nostro contesto nazionale, di “muoverci” maggiormente, anche geograficamente. Troppo spesso facciamo fatica a spostarci in altre regioni o città se non addirittura a pochi chilometri da quella che riteniamo essere la nostra casa “madre”. Una maggiore mobilità, ancor più se fosse in un contesto europeo, ci permetterebbe di avere più chance e anche di guadagnare in competenze e quindi in competitività. In altre parole, di migliorare la nostra condizione professionale e di vita.

C’è un punto sul quale però mi sento di fare un distinguo: il nostro valore non lo definiscono i luoghi o i contesti in cui ci inseriamo.  Quello che i luoghi e i contesti (intesi come sistema di relazioni e opportunità) possono cambiare è il prezzo che al nostro valore (o alle nostre competenze) viene assegnato. L’acqua di quella bottiglietta è sempre la stessa, quindi il suo valore di materia prima essenziale per la vita dell’uomo non cambia. Quello che cambia è la possibilità che qualcuno se ne possa appropriare: questa possibilità ha un prezzo.

Credo che sia importante distinguere, anche per quello che ci riguarda, il nostro valore (e magari poi un giorno parleremo di come determinarlo a prescindere dai contesti in cui viviamo) e il prezzo che gli atri sono disposti a pagare per averci. Qualcuno di noi potrebbe avere un valore molto alto e accettare, nonostante questo, di essere pagato un prezzo basso (per mille e mille motivi); qualcun altro potrebbe avere un valore nella norma e riuscire però a spuntare un prezzo davvero alto (altro tema che sarebbe da affrontare per il benessere delle nostre comunità).

In ogni caso quello che rimane è che, quando cerchiamo un lavoro, una delle cose da chiederci è sicuramente: quanto valgo?

(photocredit: immagine di Steve Johnson on Unsplash)

PS: piccolo (ma nemmeno tanto) disclaimer ecologico: sono per le borracce ecologiche e contro le bottigliette di plastica (davvero, possiamo farle scomparire)