Tre cose che ho imparato dal volontariato

Nel campo dell’orientamento, da che me ne occupo (o sento parlare), si usa distinguere tra tre tipi diversi di “sapere”: il sapere, il saper fare e il saper essere.

Si tratta di un modo per provare a organizzare e distinguere abilità diverse che ogni persona sviluppa durante il proprio percorso formativo e lavorativo. Il “sapere” è l’insieme delle cose che impariamo a scuola e in altri ambienti (sono le nostre conoscenze). Il “saper fare” è il modo con il quale quelle conoscenze le mettiamo in pratica e siamo in grado di applicarle a contesti e situazioni diverse.

E infine, il “saper essere” è il modo con il quale interagiamo con gli altri, affrontiamo le situazioni, risolviamo i problemi, gestiamo le emozioni… insomma tutto ciò che riguarda quello che in altri contesti potremmo chiamare lo “stile” ed anche il sistema valoriale a cui ispiriamo i nostri comportamenti.

Volendo essere spiccioli (e mi perdoneranno gli orientatori), se per il sapere c’è la scuola e per il saper fare c’è il lavoro, per il saper essere un buon terreno di messa alla prova e di crescita può esserlo il volontariato. Lo dico perchè ho avuto modo di rifletterci dopo aver dedicato una settimana di questo mese proprio a questo: tempo e disponibilità al servizio degli altri e di una giusta causa; un’esperienza che mi è servita sotto molti punti di vista, ma qui vi dirò quelli che secondo me sono i più rilevanti da un punto di vista professionale.

Impegnarsi senza un fine utilitaristico: sono, da sempre, un convinto sostenitore che perché si possa chiamare lavoro, deve essere pagato. Ma il fine del denaro (della carriera, degli obiettivi da raggiungere, ecc.) non sempre rappresenta la modalità migliore per disvelare il nostro massimo potenziale. Tolto quello (l’utile), potremmo accorgerci di avere un potenziale inespresso che si libera solo quando a prendere il comando non è il cervello ma magari anche un po’ il cuore, la passione, la motivazione personale. C’è anche il rischio di sorprendere se stessi!

Costruire relazioni nuove. Se stiamo sempre nello stesso contesto, facilmente incontriamo e ci confrontiamo più o meno con le stesse persone e, altrettanto con frequenza, all’interno dello stesso “setting” di riferimento (un po’ come andare in vacanza sempre nello stesso posto, leggere lo stesso tipo di libri, avere sempre e solo gli stessi amici). Invece qualche volta è utile cambiare orizzonte di riferimento e avere a che fare con persone e situazioni lontanissime da noi: funziona come una ricarica di energia e ci aiuta a tornare in maniera più vivace anche nella inevitabile routine.

Sperimentare l’altruismo. Il mondo e la società che stiamo sperimentando di questi tempi sono decisamente orientati a scelte individuali in cui il prossimo è spesso l’ultima delle nostre preoccupazioni, fino a scomparire del tutto. La tecnologia digitale, a cui non do la colpa, è tutta orientata all’individualismo: i social network li consultiamo da soli, lo smartphone è un oggetto personale, lo shopping e altre attività una volta solo fisiche sono diventate virtuali lasciandoci soli nella fruizione. Questo ed altri stili di vita che mano a mano apprendiamo (o ci adattiamo a far nostri) vanno nella direzione opposta dell’apertura agli altri che è invece fondamentale per imparare a essere, per esempio, più empatici e relazionalmente significativi.

C’è poi una cosa che mi sono ricordato facendo volontariato e che trovo utile condividere con chi legge questo post. Personalmente non riesco a lavorare (nel senso di dare il meglio delle mie competenze) in un contesto (ambiente lavorativo) il cui sistema valoriale è lontano (o, peggio, opposto) dal mio. Il lavoro è una brutta bestia perché da una parte ci permette di “portare a casa la pagnotta” e dall’altra ci richiede tempo ed energie che occupano buona parte della nostra vita: credo che sia auspicabile farlo rimanendo (e sentendosi) belle persone.



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