Chi sopravvive all’autoimpiego?

L’autoimpiego è il modo (un po’ burocratese a dir la verità) con cui si individuano tutte le forme di lavoro autonomo. Anni fa (era il 2000) con questa dicitura era stata fatta anche una legge il cui scopo era quello di finanziare chi decideva di non trovare un lavoro ma di crearselo. Da quell’anno, anche se la legge non possiamo dire sia stata un successone, la strada del lavoro autonomo è stata suggerita via via sempre con maggior frequenza. I più maliziosi penseranno che questo suggerimento aumenti con l’aumentare del tasso di disoccupazione: come a dire “visto che il lavoro non c’è, inventatene uno!”. In realtà le cose non stanno esattamente così, anche se non possiamo negare che ci sia chi abbia fatto propria questa strategia nel dare consigli di ricerca attiva del lavoro. C’è un lavoro e un monitoraggio a livello europeo del grado di “imprenditorialità” (passateci il termine) di questo nostro continente. Per come va il mondo oggi, infatti, avere un tasso di crescita delle attività imprenditoriali (inclusi in questo senso anche i lavoratori autonomi), significa stare in una situazione di crescita, di buone prospettive o almeno di terreno fertile per l’economia (Silicon Valley docet).

Sarebbe anche importante che il tasso di crescita sia sano, il che significa che non sia un mero dato dell’attività di nascita delle imprese. Per esempio se in un certo territorio si volesse far alzare il tasso di nascita delle imprese si potrebbe dare un incentivo (economico) a chi la avvia senza troppi vincoli (l’esempio non è casuale). Ma se vogliamo che quell’impresa cresca e si sviluppi questo non è sufficiente, come non lo sono gli obblighi a rimanere aperta (e se un neoimprenditore fallisce non è che lo si può lasciare in attività per legge). Diventano invece importanti fattori come la qualità dei servizi per le imprese, il grado di fiducia dei finanziatori, l’accesso alle risorse economiche e materiali diverse, la cultura locale di impresa. Bisogna insomma capire non tanto il tasso di nascita delle nuove iniziative (imprenditoriali o di lavoro autonomo) ma anche il loro grado di sopravvivenza.

Questo studio è stato fatto da un ufficio dell’Unione Europa che si occupa di sviluppo sociale e occupazione (a questo link potete scaricare il loro studio annuale su questi fenomeni). Quello che ne emerge è una analisi dle contesto europeo sui motivi di sopravvivenza (o non sopravvivenza) delle iniziative personali in tema di lavoro. Innanzitutto come la solito il grado di sopravvivenza cambia da Stato a Stato (ai primi posti ci sono Svezia e Belgio mentre agli ultimi Lituania e Portogallo; l’Italia è poco sopra la media). L’altro aspetto interessante è che il grado di preparazione del singolo incide in maniera rilevante sul suo potenziale successo: chi è più preparato, ha studiato il settore e ha incamerato competenze ha maggiori chance di successo degli altri quando avvia una propria attività. Per coloro che avviano un’impresa perché, nei fatti, non hanno un’alternativa, la scelta di farlo in un settore in cui hanno maturato in precedenza esperienze di lavoro aumenta la probabilità di rimaner nel mercato. L’ultimo dato che emerge è che le iniziative che hanno più speranze di crescere sono quelle inerenti a settori in crescita dove l’iniziativa personale incontra anche un trend di mercato favorevole e in crescita.

In altre parole, per rispondere alla domanda del titolo, riesce a sopravvivere all’avvio di una attività in proprio chi investe nella propria preparazione e in un settore in crescita: non fa per tutti, ma non è nemmeno impossibile.

Lavori emergenti

Individuare le professioni emergenti oggi non è cosa facile perché i cambiamenti a cui la nostra società è soggetta sono molteplici e spesso molto veloci. Per questo quando i ragazzi e le ragazze ci chiedono di avere una indicazione per meglio scegliere il proprio percorso di formazione in vista di una carriera professionale soddisfacente, dare una risposta certa è difficile. In passato abbiamo più volte scritto di quanto sia difficile pronosticare che cosa accadrà tra 3, 5 anni o a fine università; in un articolo di questo blog dello scorso mese avevamo anche ricordato di quanto fosse rischioso, in qualche modo, scegliere avendo come indicatore soltanto il lavoro che chiede il mercato.

Per scegliere bene, tuttavia, sarebbe importante avere informazioni allargate e, soprattutto, prendere in considerazione punti di vista diversi. Ad esempio oggi vi proponiamo quello dei selezionatori o, meglio, quello del mondo degli annunci. C’è un’agenzia on line di annunci che ha fatto una statistica tra gli annunci pubblicati per capire quali fossero le professioni più richieste. Prima di dirvi quali sono stati i risultati è necessaria una premessa che riguarda il mondo degli annunci. Il datore di lavoro che arriva a pubblicare un annuncio di ricerca di personale probabilmente non è alla prima fase della sua esplorazione ma ha già fatto diversi passi. Per esempio ha già verificato che nel network delle sue conoscenze (dalla famiglia alla concorrenza) non ci sia il professionista che sta cercando; ha provato a fare una ricerca interna per verificare che una risorsa che è già al suo interno non possa essere “trasformata” in quello che sta cercando. Arrivato ad un punto più o meno di disperazione sceglie di avviare una selezione (esplicita, esponendo direttamente l’offerta, oppure rivolgendosi ad un selezionatore professionista). In ogni caso l’annuncio è sempre la ricerca di qualcosa che scarseggia, di una “rarità”: il motivo può essere che le abilità ricercate siano molto sofisticate oppure che ci sia una mancata proporzione tra le abilità richieste e il budget messo a disposizione o il reale contesto del mercato (tradotto: in quel contesto la risorsa che si cerca non c’è o non esiste). Purtroppo in alcuni casi si tratta anche di quella che in alcune zone di Italia chiamano sòla (o fregatura).

Quando leggiamo un annuncio quindi, non dobbiamo pensare che quelle indicate siano le uniche figure che realmente trovano lavoro, però sicuramente un’analisi degli annunci ci permette di avere una panoramica sulle figure che possono avere qualche chance in più. Quali sono attualmente in Italia? Un articolo di Wired riporta questa tendenza che possiamo così semplificare:

  • al primo posto ci sono tutti i lavori che interessano l’ICT (le tecnologie della comunicazione e dell’informazione) con il 26,72% dei posti attualmente disponibili;
  • al secondo posto troviamo le figure commerciale e vendita di beni e servizi, che vale il 14,09% dei ruoli cercati;
  • al terzo posto si posizionano i ruoli attinenti a consulenze e libere professioni, con una richiesta pari al 12,05% del totale degli annunci.

La classifica andando avanti menziona anche ruoli un tempo al top di classifiche di questo genere (come l’area dell’ingegneria, del diritto e della economia) che invece ora sono fuori dalle prime tre. Anche questo dato, probabilmente, rappresenta un cambiamento in atto e dovrebbe far riflettere chi ancora si basa su schemi appartenenti a epoche che ormai sono passate (probabilmente i neolaureati in giurisprudenza potrebbero confermare ad alcune mamme e papà che no, l’avvocatura non fa diventare ricchi).

Questi dati vanno resi con una certa saggezza più che con cautela: la saggezza sta nel fatto di non tenerli come unici indicatori ma di metterli insieme ad altri legati al contesto (nel territorio in cui vivo c’è un settore trainante?), alla propensione personale (va bene il mercato ma devo pur sempre scegliere qualcosa che dovrò fare per almeno 40 anni), alle opportunità (quanto è facile/difficile formarsi in un ambito? Cosa sono disposto a fare? Mi posso spostare?). Per chi vuole approfondire qui all’Informagiovani abbiamo una serie di altri materiali, documenti, riviste. Vi aspettiamo!

Cosa bisogna studiare per garantirsi il futuro

Scegliere il proprio percorso di studi non è facile: le incognite sono tante quante sono le raccomandazioni, i consigli, i suggerimenti. Il fatto è che alcune scelte che compiamo nei “primi” annid ella nostra vita potrebbero risultare determinanti per il nostro futuro. Non sempre sono facili da fare per una serie di motivi: ci capita di dover scegliere qualcosa che è più “grande” di noi, non siamo nel periodo giusto, non abbiamo un paragone di confronto che ci aiuta a fare la scelta corretta, non abbiamo la certezza che ciò che sceglieremo si manterrà una buona scelta anche in futuro. E via discorrendo per altre decine di dubbi. La notizia positiva è che questo tipo di “angosciosa” incertezza la viviamo un po’ tutti, un po’ tutti ci siamo passati e, qualche volta, chi non l’ha avuta è chi ha fatto poi le scelte peggiori.

Uno di questi momenti topici nel nostro spettro di decisioni è quando dobbiamo scegliere il nostro futuro professionale. Significa scegliere che scuola fare, che professione intraprendere e, qualche volta, anche se trasferirci dal posto dove viviamo. Su che basi facciamo questa scelta? Solitamente dipende dall’età: da adolescenti sulla scorta di quello che fanno gli amici (che poi uno si chiede: ce ne sarà uno che sceglie?), da giovani sulla spinta di quello che dicono genitori, parenti e insegnanti, da grandi sulla base dell’esperienza. Ma in ogni caso non sempre questi suggerimenti esterni sono corretti, seppur dati con scrupolo e buona fede.

In un articolo apparso questa estate sul Fatto Quotidiano si faceva questa domana: “È giusto studiare quello per cui si è portati e che si ama?” E la risposta del giornale era la seguente: “Soltanto se si è ricchi e non si ha bisogno di lavorare, dicono gli economisti. Se guardiamo all’istruzione come un investimento, le indagini sugli studenti dimostrano che quelli più avversi al rischio, magari perché hanno voti bassi e non si sentono competitivi, scelgono le facoltà che danno meno prospettive di lavoro, cioè quelle umanisticheI ragazzi più svegli e intraprendenti si sentono sicuri abbastanza da buttarsi su Ingegneria, Matematica, Fisica, Finanza. Studi difficili e competitivi. Ma chi li completa avrà opportunità maggiori, in Italia o all’estero.” A dire questa cosa sono gli economisti che hanno studiato il valore (monetario per certi versi) di alcuni studi. A certificare questa cosa c’è un documento di rilevanza internazionale (che chi mastica l’inglese può leggere qui) che indica tra le altre cose quanto vale l’investimento fatto per ottenre una laurea. Ad esempio “fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, per un uomo laureato in Legge o in Economia è 273, ben 398 se in Medicina. Soltanto 55 se studia Fisica o Informatica (le imprese italiane hanno adattato la propria struttura su lavoratori economici e poco qualificati). Se studia Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265. Cioè fare studi umanistici non conviene, è un lusso che dovrebbe concedersi soltanto chi se lo può permettere“.

Questa affermazione, da un puro punto di vista economico, matematico e razionale, è inconfutabile. Quindi: tutti a iscriversi alle facoltà scientifiche? Beh, secondo noi non è proprio così. Per due motivi: il primo è che ci sono una serie settori in cui la preparazione umanistica può essere fondamentale (avete mai sentito parlare, ad esempio, di content manager?) ed anche se rappresentano una nicchia hanno un loro riscontro. Il secondo motivo ve lo spieghiamo per una domanda: se una laurea in lettere vale -265 quanto vale invece una non-laurea (cioè un percorso di laurea intrapreso e non concluso) in ingegneria? Se avete la risposta postatela qui sotto. E buono studio!

Più vacanze per tutti!

Untitled3-e1377294231119.pngConsiderato il tempo e la data oggi parliamo di vacanze. Ora qualcuno si immaginerà, giustamente, che tratteremo di mete in paesi esotici, di arrampicate sui monti o di bagni in mezzo a piscine naturali piene di pesci. Ma su questi temi non siamo molto ferrati e, al massimo, potremmo riportare soltanto qualche piccola esperienza personale di poco conto. Invece scriviamo di vacanze perché la notizia è che le vacanze ci rendono più produttivi e ci aiutano anche a essere più efficaci nelle nostre mansioni professionali.

La cosa nasce da un’indagine fatta da due studiosi americani che hanno analizzato un campione di manager super impegnati ai quali è stato chiesto come preferissero lavorare: se con più tempo e calma o con meno tempo e più fretta. I risultati presentavano una variazione rispetto alla provenienza geografica dovuta al fatto che lo stile di lavoro risulta influenzato anche dalle abitudini e dalle consuetudini locali. Per esempio, i più vacanzieri sono gli svedesi e i brasiliani, con 41 giorni di ferie pagate, mentre negli Stati Uniti non c’è alcuna legge che regola il pagamento di giorni di vacanze e secondo le stime la media delle aziende americane è di 10 giorni di ferie pagate—e solo il 25% degli americani se li prende tutti. A ogni modo, il dato rilevante emerso è stato che i manager con più vacanze tendevano a essere più inclini a lavorare di fretta, a essere più concentrati e più impazienti. I dati raccolti hanno permesso di concludere che avere più vacanze aiuti i lavoratori a capire meglio l’importanza di essere efficienti e a dare il massimo quando se ne ha la possibilità.

Sembrerebbe quindi che prendersi un po’ di vacanze aiuti davvero a essere più produttivi: ma da cosa dipende questo aumento di produttività? Secondo lo studio che abbiamo brevemente illustrato sopra (e che potete leggere qui) si tratterebbe semplicemente di un fattore legato alla gestione del tempo: siccome so che ho meno tempo per fare lo stesso numero di cose, mi adopero per fare in maniera più efficiente. Prendersi una pausa non rinfrescherà il cervello permettendoci di lavorare di più, ma spendere meno tempo alla scrivania ci obbligherà a sprecare meno tempo.. Secondo la nostra modesta opinione ci sono anche altre ragioni per le quali il nostro lavoro può migliorare grazie alle vacanze.

In primo luogo c’è un fattore legato allo stress, il più evidente: il nostro cervello e il nostro corpo hanno bisogno anche di sperimentare contesti diversi da quello lavorativo, anche quando lavoriamo in un posto idilliaco. Chi di voi non si è trovato almeno una volta a tirare un sospiro di sollievo una volta varcata la soglia di uscita dal luogo di lavoro? Un altro fattore è rappresentato dalle opportunità di crescita che possiamo sfruttare all’esterno del nostro luogo di lavoro: per esempio non è detto che la vacanza si possa intendere solo come “svacco” e nullafacenza: per la maggior parte di noi fare vacanza significa anche dedicarsi in maniera più assidua a interessi e passioni, coltivare e sviluppare una competenza magari in maniera allegra e spensierata (molti sport per esempio aiutano a sviluppare doti che poi possono essere adoperate nel lavoro, come il coraggio e al determinazione). Infine un ultimo aspetto riguarda la possibilità che abbiamo di contaminarci con altre idee, culture, valori. Accade se adoperiamo le vacanze per viaggiare e visitare posti in cui non siamo mai stati soprattutto se lo facciamo all’estero, dove abbiamo possibilità di incontrare e conoscere situazioni e condizioni diverse dalle nostre. Questo tipo di vacanza sarebbe bello se potesse diventare in qualche modo un’abitudine di lavoro. Sembra quasi un controsenso ma in realtà esistono già realtà aziendali che includono, nei viaggi di lavoro, un tempo libero per i propri dipendenti: non si tratta (solo) di un premio legato alla disponibilità alla trasferta, ma di un’opportunità di crescita che si offre ai propri collaboratori e che si può poi sfruttare nel contesto lavorativo (funziona in maniera quasi diretta per chi svolge mansioni creative).

Noi ci crediamo talmente tanto in questa cosa delle vacanze che abbiamo già cominciato 🙂 Come forse i più attenti lettori avranno notato gli articoli di questo blog hanno subito una variazione nella frequenza: non più 3 appuntamenti (uscite) alla settimana ma una soltanto. Il tempo guadagnato lo utilizziamo per fare vacanze il più possibile produttive. Se volete provate anche voi e diteci come va: buona produttività!

Tre settimane all'IG

alternanza-scuola-lavoroQuesta avventura è nata nel giorno in cui la mia professoressa mi ha comunicato che avrei fatto le mie tre settimane di alternanza scuola-lavoro all’Informagiovani: non conoscevo molto questo servizio, anzi le mie informazioni erano veramente scarse.

Le emozioni prima di iniziare erano numerose e contraddittorie: passavano dal timore per la nuova esperienza alla curiosità di scoprire un mondo a me sconosciuto che mi avrebbe avvicinato al lavoro e messo a contatto con persone nuove con le quali avrei dovuto relazionarmi e collaborare per tre settimane. Il primo di giorno di “lavoro” mi sono presentato all’ingresso e sono stato gentilmente accolto da tutto lo staff che mi ha mostrato il locale dove avrei passato i giorni successivi e illustrato i servizi che l’Informagiovani svolge, liberandomi immediatamente della tensione e innescando ancora di più curiosità e stimoli.

Per cominciare, mi hanno assegnato una scrivania tutta per me dove avrei iniziato il mio primo lavoro. Consisteva nel revisionare e sistemare un raccoglitore che riguardava i finanziamenti per la creazione di nuove imprese; raccogliendo nuove leggi, nuove disposizioni e nuovi bandi. Col passare dei giorni ho iniziato a socializzare con le persone che collaboravano con me e ho trovato un gruppo che mi ha sempre dato la possibilità di lavorare con il tempo e lo spazio dovuto.

Essendo la prima esperienza lavorativa avevo un’idea e delle prospettive che in parte sono state confermate e in parte invece smentite. L’ambiente lavorativo dove mi sono trovato era energico, stimolante e allo stesso tempo accogliente e rassicurante. Questo mi ha permesso di lavorare in tutta tranquillità con gli stimoli giusti. I lavori che ho affrontato non erano basati solo sul consolidamento delle competenze scolastiche ma anche sull’acquisizione di nuove, come il rapporto e l’accoglienza del pubblico. Le prime volte è stato complicato perché avevo bisogno di un sostegno per via delle mie scarse informazioni. Ma con il passare dei giorni però aumentava la mia esperienza e le mie conoscenze che mi permettevano di consigliare gli utenti nel migliore dei modi. Sicuramente la parte del lavoro più gratificante e interessante è stata la creazione di un video su una mostra ospitata all’interno dell’Informagiovani. Questo perché mi ha permesso di imparare l’uso di un editor di foto e video e mi ha regalato la soddisfazione di ricevere i complimenti sia da parte dello staff che dagli organizzatori della mostra.

Pian piano scoprendo e vivendo l’ambiente dell’Informagiovani ho compreso le numerose difficoltà da affrontare ogni giorno per rispettare tutti i servizi disponibili al pubblico nei quali anche io ero coinvolto: spesso cercavo di trovare la soluzione affinché gli utenti potessero avere a disposizione la risposta migliore..

Arrivando alla fine di queste tre settimane posso affermare di essermi integrato perfettamente all’interno del gruppo e consiglio vivamente a qualsiasi ragazzo di provare questa esperienza. Ringrazio tutte le persone che hanno collaborato a rendere questo stage un bagaglio di esperienza che non dimenticherò.

 

(questo articolo è stato scritto da Federico Capobelli, stagista dell’Istituto Savoia-Benincasa)

 

Mettici la faccia e fatti i selfie tuoi

selfie tuoiLa scorsa settimana abbiamo parlato in questo blog di come e quanto sia importante sapersi presentare, sia di persona che con una forma scritta che oggi si traduce in molti modi, dalla semplice mail con cv allegato alla stesura di un blog o un sito personale. Le modalità con cui ci “rappresentiamo” sono molteplici e per come funzionano oggi la comunicazione e il sistema di relazioni tra le persone c’è un fattore cruciale. la foto!

Oggi, probabilmente, nessuno di noi si è salvato dalla selfiemania: la moda di fare un autoscatto con il proprio telefono, tenendolo in mano alla massima distanza consentita dalle nostre braccia. Il risultato finale non sempre è eclatante: a volte si vede un pezzo di un braccio, la foto è sfocata, le smorfie son quelle di un cartone animato. Anche quando il selfie è azzeccato la domanda che vi e ci facciamo è: sarebbe quella una foto professionale? La potremmo utilizzare per presentarci in un contesto lavorativo?

La risposta a questa domanda hanno provato a darla anche gli esperti di Linkedin, il social network business, dedicato al mondo del lavoro. Con la realizzazione di una apposita guida per i selfie hanno voluto trasformare, con i giusti accorgimenti, una pratica che si vuole legata solo a svago e divertimento in un modo rapido per aggiornare il proprio avatar lavorativo. Certamente il risultato finale non può essere il medesimo di una foto professionale, ma certamente con qualche consiglio che riportiamo qui di seguito il risultato finale sarà sicuramente migliore di un selfie qualsiasi.

Primo passo: scegliete uno sfondo. Probabilmente non ci facciamo caso ma in una fotografia quello che colpisce la nostra attenzione non è solo la faccia che eventualmente sta in primo piano; per dare un “senso” a tutta la foto i nostri occhi e il nostro cervello catturano particolari importanti. Sono particolari che aiutano poi ad elaborare sia il ricordo che l’associazione di idee connessi alla foto. Per questo è importante per esempio scegliere uno sfondo neutro (bianco per esempio) oppure un qualcosa che sia significativo (lo sfondo in questo senso potrebbe riprendere il luogo in cui lavoriamo oppure strumenti che fanno parte della nostra professione). Secondo passo: la giusta luce. Tutti sappiamo (forse) che una foto controsole è quasi vietata per un risultato buono (il viso sarebbe completamente scuro, quasi invisbile): bisogna fare attenzione anche ad altre fonti di luce e cercare di avere il viso sempre in una buona condizione di illuminazione (per esempio mai spalle ad una finestra, semmai il contrario); attenzione anche al flash, distorce la luminosità del vostro viso per cui la cosa migliore è… aspettare che sia giorno 😉

Terzo passo: il “makeup”. Pensate prima di scattare a come vorresti che risultasse la tua immagine finale, scegli la postura, l’abito e l’espressione che vorresti ottenere. Potete fare alcune prove e tentare di vedere come l’espressione che pensate di aver tenuto, il tipo di risultato e di effetto finale restituisce. Potrebbe accadere che un’espressione che vi sembrava affascinante sia ridicola e quella che reputavate poco professionale sia invece quella più adatta. La nostra fotogenia dipende anche da questi particolari. A ogni modo comunque volto rilassato ed espressione naturale, tendenzialmente sorridente. Pensate a quando ti sei sentito fiero di te o alla voce del capo che ti offre la promozione che hai sempre sognato: vedrete che otterrete lo scatto giusto. Quarto passo: il setting. Posizionate la macchina fotografica (o, meglio, il vostro smartphone) ad una distanza adeguata (le inquadrature dall’alto verso il basso tendono a dare risalto agli occhi e assottigliano ovale del viso e collo; viceversa lo scatto opposto può veicolare l’idea di imponenza ma rischia derive caricaturali per chi ha un naso o un mento pronunciati). Per evitare che oltre al viso la vostra foto comprenda anche una aprte del braccio che regge il telefono studiate un modo di appoggiarlo da qualche parte, non troppo distante per evitare di utilizzare troppo zoom (quelli digitali non offrono nulla di più di una inquadratura normale; l’immagine potete tagliarla successivamente): per esempio se fate la foto seduti ad un tavolo il telefono potete appoggiarlo ad una pila di libri messa a 80/100 centimetri da voi.

Il bello del selfie è che potete scattare e riscattare tutte le volte che volete: se non riuscite a trovare la foto migliore condividete gli scatti con un gruppo ristretto di amici (se volete potete farlo anche con noi, garantiamo massima riservatezza) e fatevi dare qualche consiglio.

Quando non hai una seconda opportunità

seconda opportunitàDi solito si dice che abbiamo sempre una seconda occasione: giusto, non sembra nemmeno a noi utile affermare il contrario. Di fatto è anche il momento in cui impariamo qualcosa, perché la “seconda volta” è l’occasione in cui abbiamo avuto già un’esperienza e siamo in grado di poterla mettere a frutto, migliorando quello che abbiamo fatto bene ed evitando gli errori già commessi. Nonostante questo nella vita ci sono casi in cui questa seconda possibilità non ce l’abbiamo:

Una di queste occasioni è quando incontriamo una persona nuova e facciamo la cosiddetta “prima impressione”: proprio perché è la prima, non abbiamo una seconda volta in cui lasceremo il ricordo della prima volta. Sembra un gioco di parole ma se provate a rifletterci un attimo è proprio così. Pensateci un attimo: quando conoscete una ragazza o un ragazzo che vi piace che tensione avete il momento in cui vi salutate per la prima volta? Mani sudate, battito cardiaco accelerato, difficoltà a trovare le parole giuste per presentarsi: in generale un senso di spaesamento e di mancanza di equilibrio che ci spiazza. Tutto questo accade anche perché sappiamo che se “toppiamo” quel ragazzo o quella ragazza non saranno poi così tanto disposti e disponibili a costruire una relazione con noi. Stiamo gettando il seme per costruire una nuova relazione e questa cosa va fatta con cura già dalle prime mosse. In questo blog non trattiamo però di questioni di cuore e quello fatto era solo un esempio per far capire la situazione. C’è una situazione simile nel mondo del lavoro: si tratta del momento in cui facciamo un colloquio di lavoro.

Chiaramente con la persona che abbiamo davanti ad un colloquio di lavoro non stiamo costruendo lo stesso tipo di relazione che vorremmo avere con la ragazzo o il ragazzo che ci piace. Ci sono elementi in comune però. Per esempio la fiducia e l’affidabilità in un rapporto di lavoro sono caratteristiche simili a quelli di una relazione sentimentale. Ma quello che più li accomuna è il fatto che in entrambi i casi siamo in una situazione in cui dobbiamo fare una buona prima impressione. Noi abbiamo qualche consiglio per il caso che riguarda il vostro possibile futuro lavoro: qui di seguito vi elenchiamo alcuni consigli di cui tener conto durante il vostro primo colloquio.

Attenti alle parole. È molto importante essere padroni del proprio linguaggio, parlare fluentemente e senza intoppi, e rigorosamente in italiano. Spesso dipende anche da chi avete di fronte, magari è lo stesso intervistatore (imprenditore o selezionatore) che esordisce con espressioni e frasi dialettali, per cui sta a voi adattare il vostro linguaggio a seconda dell’occasione (senza esagerare: considerate che parlare in maniera corretta l’italiano non è mai un peccato o un difetto). Quello che però deve passare è la vostra abilità nel dialogo e la personalità che avete; è un concetto che passa tramite una conversazione nella quale sono importanti le parole, le frasi, le espressioni ma anche il tempismo con cui le utilizzate. Insomma, cercate di far passare al potenziale datore di lavoro che di fronte a se ha una persona con carattere e personalità, non un semplice burattino da manipolare a piacimento. La bella notizia è che si può imparare a farlo, la brutta è che se non siete ancora capaci dovete iniziare a studiare.

Non pensare sempre a quello. Spesso l’unico obiettivo in testa della persona che si accinge ad affrontare un colloquio di lavoro, è il focus completamente sul suo obiettivo, ottenere il posto di lavoro. Ovviamente è un ottimo modo per orientare la mente e azioni per raggiungere quell’obiettivo. Accade però troppo frequentemente che l’attaccamento all’obiettivo è più dannoso che vincente. L’atteggiamento orientato al volere a tutti i costi quel lavoro, fa passare una sorta di attaccamento all’opportunità e, soprattutto, induce a commettere errori di valutazione. Dovete entrare nella logica che anche un rifiuto alla fine del colloquio sarà per voi acquisizione di esperienze e conoscenze, per poter essere più competitivi e preparati alla prossima occasione. Inoltre un giudizio più ponderato vi aiuterà a capire con maggior facilità se quella che vi stanno proponendo è un’occasione o una sòla 🙂

Come un agente segreto. UN passo fondamentale è consocere il “nemico” prima di affrontarlo. Scoprite quanto grande è l’azienda, da quanto esiste, di che cosa si occupa nel dettaglio, insomma; cercate di raccogliere il più grande numero di informazioni possibili per essere pronti ad ogni evenienza.Spesso spulciando il sito web dell’azienda avete già fatto la metà del lavoro, poi continuate su Google e cercate attentamente tutto quello che vi può servire per conoscere l’azienda, il capo e i collaboratori. L’obiettivo è entrare in sintonia con il potenziale datore di lavoro e fargli capire che già conoscete l’azienda: questo sarà un ottimo punto a vostro favore e passerete per quelli in gamba che si son presi la briga di ricercare qualche informazione su di loro (lo apprezzeranno).

Muoversi bene. Adottate una camminata decisa e ordinata, petto in fuori, testa dritta e un briciolo di coraggio. Dvete trasmettere di essere una persona determinata, qualsiasi sia l’esito del colloquio di lavoro. Non fate l’errore madornale di pensare nella tua testa di inciampare, di commettere errori o di fare qualcosa che non vorreste fare, potreste attirare proprio quel comportamento e manifestarlo di fronte al vostro esaminatore. Siate voi stessi, con qualche trucco per abbellirvi. A proposito: cravatte e tacchi a spillo solo se li avete già indossati almeno due tre volte prima (insomma, che non sembriate impacciati)

Vestirsi meglio. Lasciate perdere prese di posizione, nella nostra società l’immagine conta eccome, non ci sono scuse, e voi dovete essere all’altezza del colloquio. Se andate a un colloquio di lavoro in una importante società è utile andarci vestiti secondo un certo criterio, ovvero dovete essere socialmente accettati. Dovete essere vestiti come se andaste a conoscere i genitori del/lla vostro/a ragazzo/a, dovete essere presentabili nella forma e nella misura più neutra possibile. Niente cose stravaganti, attenetevi al classico e alle regole non scritte della decenza e di buona norma.

E adesso: in bocca al lupo!

Disciplinati e contenti

disciplinati e contentiUna delle cose che fa l’Informagiovani, oramai si è detto un sacco di volte, è orientare le persone. Che cosa vuol dire nello specifico? Tradotto nella pratica vuol dire molte cose. Per esempio significa in un servizio come il nostro se fai una domanda la risposta che ricevi potrebbe non essere solo quella che cercavi, perché cerchiamo di capir se stai cercando davvero quello che fa per te (e per scoprirlo spesso ad una domanda tocca rispondere con un’altra domanda).

Le informazioni che trovi non sono quasi mai a caso e nemmeno le prime scoperte: ogni cosa che viene proposta proviene da un processo di analisi, selezione e verifica delle notizie che riporta (ecco perché difficilmente si trovano titoli a tutta pagina come nelle locandine dei giornali locali). Infine significa che un Informagiovani propone anche informazioni e notizie che non son fatte per avere “successo” (cioè lette, viste e considerate da migliaia di persone); ma stanno lì perché possono essere utili anche se non sono abbastanza affascinanti (e come potrebbe essere affascinante la spiegazione di come si compone una lettera di presentazione?).

Ad ogni modo, per utilizzare un termine che va sempre meno di moda in questi tempi, l’Informagiovani è un servizio che cerca anche di educare. Parola da utilizzare con cautela perché nella migliore delle ipotesi chi la sente potrebbe non gradire non fosse altro per il fatto si sentirsi ricondotto e considerato come un infantile. In realtà la parola educazione ha un’origine tutt’altro che infantile: viene dal latino ed è composta dalla particella “e” che significa “da, di, fuori” e da “ducere” che significa “condurre”. Volendo quindi approssimare una traduzione educare significa condurre fuori, estrapolare qualcosa da qualcuno. Molto diverso da “insegnare” e da “formare” che prevedono la presenza di un soggetto che in qualche modo modifica le nostre conoscenze o le costruisce da zero. Il significato di educazione è più ampio e mirante ad estrapolare e potenziare anche qualità e competenze inespresse che non hanno però bisogno di essere instillate nel soggetto perché quest’ultimo le ha già, solo che non lo sa (come diceva Quelo, il personaggio interpretato da Corrado Guzzanti, “la risposta è dentro di te, e però è sbagliata” 🙂 ).

Un esempio di educazione lo vogliamo riportare anche in questo post (potete utilizzare i post per dirci se lo condividete o meno). Riguarda il nostro comportamento, sono le regole che secondo Tolstoj servono a condurre una vita perfetta (e che abbiamo ritrovato in questo post de Linkiesta). non sappiamo se possono essere davvero utili per tutti gli aspetti della nostra vita, ma magari alcuni possono essere utili per quella professionale (ed è per questo che possiamo considerarle in qualche modo un suggerimento orientativo). Una piccola premessa: nessuno ha mai raggiunto il successo (professionale o meno) passeggiando e fischiettando e quindi un po’ di disciplina può tornareutile (anche se il termine suona militaresco). In questo senso dello scrittore russo Lev Tolstoj pochi conoscono la sua disciplina d’acciaio. La possiamo riassumenre in una serie di regolette (lui le chiamava “regole di vita”) che descrivono il suo inesorabile percorso verso l’ascetismo. Vi potete farne l’uso che volete (compreso quello di far finta di non averle mai lette, se ci riuscirete). ecco quindi in estrema sintesi quello che dovremmo fare:

  1. Svegliati alle cinque
  2. Vai a dormire non più tardi delle dieci
  3. Durante il giorno si può dormire al massimo due ore
  4. Mangia con moderazione
  5. Evita i dolci
  6. Cammina almeno un’ora
  7. Fai una cosa alla volta
  8. Al bordello ci puoi andare al massimo due volte al mese
  9. Smetti di pensare a cosa pensano di te gli altri
  10. Ama le persone cui puoi essere utile
  11. Disprezza ogni opinione diffusa che non sia fondata sulla ragione
  12. Smetti di pensare a cosa pensano di te gli altri
  13. Evita i voli dell’immaginazione, tranne quando non sia necessario
  14. Aiuta chi è meno fortunato

Che ne pensate? A parte la numero 8, che quantomeno andrebbe attualizzata, vi sembra che le altre possano fare al vostro caso? Al di là delle abitudini di sonno e veglia crediamo che possano essere consigli utili e da tenere in mente anche nella vita che ci troviamo a fare anche 100 anni dopo Tolstoj. Noi ne aggiungeremmo soltanto una, la numero 15: seguite le regole precedenti solo se vi rendono felici.

L'arte di (far) scegliere

l'arte di far scegliereAl supermercato ci avviciniamo alla corsia dove dobbiamo prendere i biscotti per la colazione e troviamo subito i nostri preferiti: la busta gialla lì davanti a noi contiene i nostri preferiti, quelli che avevamo proprio voglia di addentare la mattina appena svegli. Li abbiamo scelti perché sono croccanti al punto giusto, ci saziano senza appesantirci, rispettano la nostra dieta ma anche al nostra fame. Insomma, sono quasi perfetti e siamo felici della nostra scelta. L’abbiamo fatta davvero noi? Quei biscotti stanno in quel posto nel supermercato non per puro caso o perché l’abbinamento dei colori delle confezioni suggeriva quella posizione. Il motivo per cui stanno lì è dovuto ad un processo in cui si mischiano marketing, pubblicità, gestione del magazzino e delle vendite, promozioni, accordi commerciali e qualche trucco. Insomma forse quella scelta non l’abbiamo fatta proprio noi: sfruttando il nostro inconscio qualcuno è riuscito a “darci le giuste indicazioni” per arrivare a quella scelta. Un esempio ulteriore, sempre da supermercato: caramelle, gomme da masticare e mentine si trovano in grande abbondanza vicino alle casse. Non solo perché si dice siano “acquisti di impulso” ma anche perché se andaste a vedere il loro costo effettivo prendendovi qualche istante in più (che solitamente alle casse non avete) scoprireste che le mentine potrebbero costare anche fino a 200 euro al chilo (e probabilmente non le scegliereste).

L’arte di far scegliere alle persone si può chiamare persuasione o, nei casi più complessi ed organizzati, marketing. Ne sanno qualcosa anche i ristoratori ed in generale coloro che compilano i menù, come ci spiega questo articolo de Linkiesta. “L’arte di compilare il menù sta nel creare un elenco sensato delle pietanze, disporlo in modo gradevole, con scrittura chiara e font accattivanti e – soprattutto – comporlo con furbizia, adescando il cliente e facendogli ordinare cose costose.”  I trucchi principali che i ristoratori, o chi per loro, seguono sono fondamentalmente tre. Il primo è relativo alle opzioni di scelta: un’ampia scelta crea confusione e mette in uno stato di confusione/agitazione il cliente. Per cui meglio limitare la scelta a 4/5 opzioni per ogni categoria del menù (primi, secondi, contorni, ecc.). La seconda riguarda i numeri ed i prezzi: se sono presentati senza lo zero e scritti in lettere anzichè in cifra fanno molta meno impressione anche quando sono un po’ più alti. Infine, come nei supermercati, la posizione che le varie pietanze hanno la loro importanza. “Ci sono posizioni, sulla carta del menù, che valgono di più rispetto ad altre. Sono quelle che saranno visti di sicuro, su cui gli occhi del cliente saranno costretti a posarsi. E lì finiscono i piatti più cari. Gli antipasti e le insalate sono a sinistra, spesso anche in basso. Sono le leggi del menù“.

Questo è quello che accade quando siamo noi dalla parte di chi crede di scegliere. Ma ci sono occasioni in cui siamo noi a dover compilare un menù? Anche se non siamo ristoratori forse c’è un’occasione in cui dobbiamo servire dei piatti e li dobbiamo presentare bene fin dalla loro descrizione. Si chiama curriculum vitae (e tutte le sue evoluzioni, compreso un profilo Linkedin o una identità digitale) ed è il menù delle nostre competenze. Anche per il cv valgono alcuni trucchi che possiamo serenamente riprendere dai ristoratori. Opzioni di scelta: nessun datore di lavoro ci sceglierà perché abbiamo elencato 14 lavori diversi nel nostro cv, ma sarà portato a prenderci maggiormente in considerazione se le limitiamo a 4/5, possibilmente coerenti tra loro. Cifre: scriviamole e scriviamole bene; il voto del diploma, il voto di laurea, il numero di anni in una certa posizione, la data di inizio di un certo lavoro (ma anche il numero di telefono). I numeri sono importanti come le parole e spesso sintetizzano un concetto meglio di tante parole (non nascondiamo il voto che non ci piace, ahinoi sarà una delle cose più facili da scoprire anche se non ci sta scritto). Posizioni: che cosa va all’inizio e che cosa va alla fine? L’organizzazione classica prevede che prima ci sia il blocco con le informazioni anagrafiche e di contatto, poi la formazione, poi le esperienze ed infine tutto il resto. Ma ci sono disposizioni diverse che potrebbero essere più adatte in certe circostanze. Per esempio, la conoscenza delle lingue in una candidatura in cui è un requisito fondamentale possiamo farla salire di qualche posizione in classifica; il corso di formazione specifico per quella posizione può stare benissimo prima del diploma.

Compilare un cv è un po’ come compilare un menù: dovete conoscere i vostri clienti, sapere quello che preferiscono “mangiare”, dare loro la possibilità di scegliervi anche se c’è qualcuno che, forse, è migliore di voi. Ma non sa compilare un menù.

Non c'è più niente da inventare

non ce niente da invenatreLa creatività, come abbiamo scritto più volte anche in questo blog, può essere una grande alleata in tempi di crisi occupazionale: inventarsi un lavoro, come si usa dire, a volte è l’unica strada veramente percorribile per chi cerca un’occupazione. Ma possiamo davvero inventarci un lavoro dal nulla? Veramente il nostro ingegno può essere ancora capace di trovare qualcosa che non esiste? Esiste ancora la possibilità di far nascere dal nulla qualcosa che prima non esisteva? Rispondere affermativamente a queste domande può essere al tempo stesso un bene o un male. Per rispondere potrebbe forse essere utile capire che cosa accade nel mondo delle invenzioni, quelle vere.

In un articolo apparso su The Economist e ripreso dalla rivista Internazionale di questa settimana, c’è una analisi sommaria ma abbastanza precisa di quel che accade nel mondo dei brevetti. La rivista ha preso in considerazione l’evoluzione quantitativa e qualitativa dei brevetti, le invenzioni registrate per dirla con altre parole. Quello che si può notare è che le vere invenzioni si fermano in realtà a quai due secoli fa. Anche se i brevetti registrati nel tempo hanno mantenuto una crescita costante o sono aumentati, quelli basati su scoperte del tutto nuove sono in realtà diminuiti o quasi scomparsi. facciamo un paio di esempi (un po’ vecchi). La lampadina: chiaramente si tratta di una invenzione ma in realtà non di una novità in assoluto; la lampadina non fu altro che la combinazione di alcune scoperte precedenti che nessuno, prima di Edison, ebbe l’intuito di mettere insieme (tanto di cappello, comunque!). Il transistor invece, nato a metà del ‘900, ha origine da una serie di scoperte contestuali alla sua invenzione (chi lo ideò non fece una mera opera combinatoria). Per quanto straordinari, questi due oggetti che hanno rivoluzionato la nostra vita sono nati da processi generativi diversi: il primo per una sorta di mescolamento di scoperte, il secondo per pure invenzione. Intendiamoci, magari averla oggi l’intuizione di entrambi. Ma il fatto è che oggi le invenzioni, per una serie di motivi, sono sempre più simili a quella della lampadina. La verifica di questo fatto si può fare controllando i codici con cui vengono catalogati i brevetti: per farla breve, se il codice è composto da due serie di numeri si tratta di una invenzione/combinazione, se invece il codice è fatto di una sola serie siamo davanti ad una invenzione pura (ed indovinate un po’ quante serie di numeri hanno la maggior parte delle invenzioni degli ultimi decenni?).

Ecco quindi che se parliamo di invenzioni pure il genere umano pare sia in un punto si stand-by (e a detta di qualcuno forse le biotecnologie daranno nuova spinta su questo versante). Ma per tornare alla domanda iniziale: si può inventare un lavoro? Stando a quello che ci racconta il mondo dei brevetti sul genio umano, diremmo proprio di no. Però sicuramente si può scoprire qualche nuova nicchia di mercato “mescolando” scoperte 8e bisogni) che esistono già. Se è vero che Edison per inventare la lampadina ha messo insieme scoperte non sue in una maniera nuova ed originale, forse noi potremmo fare la stessa cosa mescolando e rivisitando lavori, mansioni e servizi che esistono già (senza la pretesa, chiaramente, di diventare i nuovi Edison). D’altra parte ci sono imprese di successo che hanno fatto proprio questo. Uber, la famosa compagnia di servizi di noleggio con conducente, non ha mica inventato un servizio (i taxi, ed ancor prima gli autisti, esistono da tempo immemore): ha solo trovato un modo diverso di proporlo, mescolando il mondo delle quattro ruote con quello del digitale. Di esempi del genere se ne potrebbero fare a bizzeffe. Quindi quando qualcuno ci dirà di inventarci un lavoro se lo vogliamo trovare, potremo correggerlo dicendo che non c’è più niente da inventare. Semmai, si tratta di trovare la giusta combinazione.

Trovare il lavoro che (non) ti piace

trovare lavoro che non ti piaceChi di noi sta facendo un lavoro (trattasi di attività professionale remunerata, meglio ricordarlo di questi tempi) si sente spesso già fortunato da non mettersi anche a sindacare o discutere sul fatto che il lavoro gli piaccia o meno. Questo almeno per i primi mesi. Poi iniziano ad aumentare le grane, le cose che non vanno, i soldi che non bastano, le opportunità di crescita e carriera che scarseggiano e via discorrendo. Come dice a volte il comico Bertolino, il lavoro è quella cosa che lottiamo allo sfinimento per avere e che poi quando abbiamo non vediamo l’ora di lasciare. Insomma, i sentimenti che ci legano la lavoro che facciamo sono mutevoli e contradditori.

Dal nostro canto abbiamo sempre sostenuto che fare un lavoro che ci piace è essenziale: 8 ore al giorno, 5 giorni alla settimana, 50 settimane all’anno (se ci va bene), per circa 35/40 anni (se ci va benissimo) sono un mucchio di tempo, ben oltre la metà della nostra vita adulta. Passare tutto questo tempo a fare un lavoro o svolgere una mansione che non ci piace può avere conseguenze pesanti anche sugli aspetti non professionali della nostra vita. La soluzione migliore sarebbe quella di scegliere un lavoro che ci piace, ma non sempre è possibile (anche se attuare una corretta strategia nella ricerca del lavoro può essere determinante in questo senso). Cosa fare allora se rimaniamo “incastrati” in un lavoro che non ci piace?

In nostro soccorso viene l’autrice di un libro che si propone di offrire consigli e suggerimenti per una carriera ed una vita professionale (il titolo in inglese è “Love your job: the new rules for career happiness” e lo ha scritto Kerry Hannon, giornalista statunitense. La giornalista oltre alle soluzioni più immediate che vanno dalla ricerca di un nuovo lavoro alla richiesta di aumento della retribuzione (che non è in realtà la vera causa del nostro malessere), propone anche delle ricette pratiche per fare “pace con il proprio lavoro”. In primo luogo eliminare il superfluo: il disordine, il caos, le situazioni in stand-by, le liste di cose da fare, le urgenze e tutto ciò che “inquina” il normale scorrimento di una giornata lavorativa può essere considerato disordine (così come quello della scrivania). Per ritrovare l’armonia come prima cosa bisogna fare ordine. Aiutare gli altri ci aiuta a fare pace con noi stessi, a toglierci di dosso i pensieri negativi e a diventare consapevoli dei bisogni delle altre persone: per questo potrebbe essere utile fare del volontariato, dedicarsi ad attività extralavorative che rappresentino un contributo alla collettività. Crescere solitamente è un buon modo per tornare ad apprezzare le cose che si stanno facendo: per questo può essere utile investire (anche tempo proprio) nella formazione e nello sviluppo delle proprie competenze, anche senza un preciso sviluppo professionale già come obiettivo. Mantenere un clima lavorativo sereno e delle buone relazioni con i colleghi è un buon modo per ritrovare il giusto equilibrio all’interno della propria sfera lavorativa.

Se il lavoro che stiamo facendo (o l’ambiente che stiamo frequentando) non ci piace ma non possiamo lasciarlo, dobbiamo essere abbastanza intelligenti e creativi per ritrovare il nostro giusto comfort.

Nuove professioni crescono

professione-ebookA volte le nuove professioni nascono senza che ce ne accorgiamo. O, meglio, non nascono esattamente come nuove professioni, nascono come “altre cose”, idee e sviluppi che pi portano anche alla nascita di nuove professioni. Parlando di tecnologie non è che il social media manager sia nato una mattina per invenzione di qualcuno o perché un’università ha deciso ad un certo punto di creare una laurea per definire questa professione. Più semplicemente e più coerentemente sono nati i social media, sono cambiate le modalità di comunicazione, si sono intensificate relazioni e modalità di gestirle e a un certo punto c’è stato bisogno di qualcuno che lo facesse di professione. Per guardare alla professione che potremo fare in futuro oggi non possiamo più aspettare annunci di lavoro, richieste più o meno strabilianti delle aziende, attivazione di fantasiosi corsi di formazione. No, niente di tutto questo. quello che dovremmo imparare a fare è guardare alla società e al contesto in cui viviamo e chiederci: cosa potrebbe essere utile? Quali sono i bisogni espressi? Quale competenze possono risolverli? Non si tratta di predire il futuro, ma di saper analizzare il presente.

Probabilmente è quello che hanno fatto i nostri amici di Pepelab quando hanno pensato di creare un percorso formativo intitolatoProfessione e-book: come vedete non hanno inventato nessuna professione, sono andati diretti alla sostanza. Innanzitutto una premessa che forse non è necessaria ma tant’è. Gli e-book tutti sanno cosa sono, ma forse non tutti sono consapevoli del fatto che non si tratta di un mercato che riguarda solo “quelli che vogliono farsi il libro da soli”. Attorno all’editoria digitale ruota un mondo complesso frequentato da editori, grafici, addetti marketing, informatici, software, distribuzione, logistica ed anche di scrittori (ci mancherebbe!).

Come forse qualcuno avrà letto il mercato degli e-book è in crescita: secondo il rapporto dell’Associazione Italiana Editori del 2014 il mercato del libro digitale ha registrato lo scorso anno un incremento del 40%. Un dato ancor più rilevante se si pensa che la stessa analisi riporta invece un calo dei lettori in Italia. Insomma, si tratta diun mondo da esplorare ed è per questo, forse, che il percorso ideato da Pepelab potrebbe attirare l’attenzione di quanti lo vogliono scoprire e approfondirne segreti e caratteristiche.

Professione e-book è un percorso che si sviluppa in 3 week end che sono al contempo 3 moduli e 3 workshop. Su 3 tematiche differenti. Il primo modulo è introduttivo e servirà a conoscere il mondo dell’ebook: “non daremo nulla per scontato e ti accompagneremo per mano alla scoperta degli aspetti più importanti: le tecnologie, i formati, gli standard, le opportunità del mercato. Valuteremo quali canali utilizzare per pubblicare il tuo ebook, come metterlo in vendita negli store digitali e inizieremo a conoscere le strategie per renderlo più visibile e promuoverlo al meglio”. Il secondo modulo entrerà nel vivo della questione affrontando la realizzazione pratica di un testo digitale: “come è fatto un ebook “sotto il cofano”, qual è la sua struttura e quali sono gli aspetti e le specifiche tecniche da tenere presenti nella sua progettazione. Prenderemo inoltre familiarità con alcuni tra i software più conosciuti e utilizzati per la produzione di ebook. Insomma, ci sporcheremo le mani lavorando nella nostra “officina dell’ebook”!“. Il terzo ed ultimo modulo è rappresentato da 3 differenti workshop dedicati al self publishing, all’ebook e fumetto, all’ebook e fotografia. A fine corso ci ritroveremo insieme per un focus dedicato a promozione e visibilità.

Questo percorso è dedicato a chi ha deciso di non stare ad aspettare che nasca una nuova professione ma vuole nascere insieme a lei. Per conoscere modalità di iscrizione, promozioni in corso (eh già, ci sono sconti e offerte), tempi ed avere altre informazioni vi consigliamo di contattare Pepelab: dite che vi mandiamo noi 😉

Ottimismo, con prudenza

Businessman helps statisticAd inizio 2015 è arrivata finalmente la notizia positiva: i contratti a tempo indeterminato sono in aumento! Merito chiaramente della nuova contrattualistica del lavoro che permette maggiore flessibilità ai datori di lavoro nell’eventuale recessione anche da un contratto senza scadenza. Nonostante questo i dati sulla disoccupazione continuano a non essere positivi: il tasso è salito di nuovo al 12,7% “bruciando” di fatto anche i deboli miglioramenti precedenti. Ora la domanda sorge spontanea: sul versante lavoro dobbiamo cominciare ad essere ottimisti o sono tutte chiacchiere?

Per rispondere in una maniera che non sia banale o ideologica, ci siamo affidati a questo articolo apparso su Lavoce.info sito di informazione economica e non solo. Andando con ordine: i dati Istat, quelli che informano sulla disoccupazione, raccontano di una sorta di andamento sussultorio durante gli ultimi mesi (a settembre 102mila occupati in più, a ottobre 35mila in meno, a novembre altri 61mila in meno, poi a dicembre di nuovo 42mila in più, a gennaio aumento di altri 7mila, infine a febbraio calo di 44mila). La questione è che i dati ISTAT vanno letti sul lungo periodo e queste variazioni di mese in mese non hanno molto senso anche perché sono in parte collegate a quello che può essere considerato un errore di carattere statistico (la rilevazione, seppur fatta in maniera rigorosa, è sempre l’analisi di un campione). L’aumento dei contratti a tempo determinato non è invece una rilevazione statistica, ma un computo numerico che attesta un aumento dei contratti a tempo indeterminato rispetto all’anno precedente nello stesso periodo.

Ora si tratta di capire se l’aumento dei contratti rappresenta anche un aumento delle posizioni e dei posti di lavoro: perché alcuni di questi contratti potrebbero essere trasformazioni di contratti precedenti con scadenza (in quei casi il posto di lavoro è sempre lo stesso, non c’è creazione di nuovi posti di lavoro). Inoltre bisogna considerare se alla crescita dei contratti a tempo indeterminato non corrisponda anche una crescita delle cessazioni: in altre parole se e quanti licenziamenti o fine contratto ci sono in corrispondenza dell’aumento degli indeterminati, in quel caso il saldo dei posti di lavoro potrebbe essere nullo od anche negativo (se aumentano di 100 i contratti di lavoro a tempo indeterminato e al contempo si verificano 120 cessazioni i posti di lavoro sono 20 in meno). Su questo punto Lavoce scrive “I dati disponibili per il Veneto attestano chiaramente che nel primo trimestre 2015 gli ingressi nella condizione di occupato a tempo indeterminato hanno sopravanzato le uscite; i dati nazionali, pur limitati al primo bimestre, convalidano un bilancio analogo. Non solo: il saldo 2015 risulta nettamente più positivo del corrispondente 2014 e perciò comporta il netto miglioramento della dinamica dell’occupazione dipendente a tempo indeterminato anche su base annua. Certo, non è ancora sufficiente a riportare il saldo annuale su valori positivi: per conseguire questo risultato occorre che il trend innescato nel primo trimestre 2015 continui per almeno altri cinque-sei mesi“.

Dunque, per tornare alla domanda iniziale, c’è da stare allegri o no? In sostanza l’incremento dei contratti a tempo indeterminato rappresenta un primo segnale di miglioramento dell’intero mercato del lavoro anche se da solo non è sufficiente per dire che siamo sulla buona strada e, soprattutto, allo stato attuale dei fatti, ha prodotto risultati che su base annua sono ancora troppo deboli. L’altra notizia positiva è che in generale un numero maggiore di assunti non ha comportato la perdita di posti di lavoro anche se i dati rispetto a contratti diversi da quello indeterminato non sono positivi.  Due sono le cose che sicuramente possiamo affermare senza tema di smentita: “sicura crescita, nel 2015, delle posizioni di lavoro a tempo indeterminato e la sostanziale stabilità nell’ultimo semestre, al netto di oscillazioni mensili che non meritano attenzione, degli occupati totali. In altre parole: ottimismo, con prudenza.

Lavoro: prima persona singolare, tempo futuro

Orientamento_ISTAO_RSQuando si parla di futuro ci si aspetta sempre delle previsioni: possibilmente vere, rassicuranti, ottimistiche. Ma parlare di futuro significa anche mettersi nell’ordine di idee di poterlo programmare, determinare, realizzare con le proprie forse e le proprie competenze. Ma la questione è che per fare questi passi (programmare, determinare, realizzare) una domanda rimane in sospeso: dove? Da che parte si va? Ecco, l’orientamento professionale (quello realizzato da professionisti e da servizi appositi) cerca di dare questa risposta. Le attività di orientamento però non sono come le agenzie di viaggio che alla domanda “dove?” sono sicuramente sempre pronte a rispondere con mete entusiasmanti. L’orientamento per rispondere alla domanda “dove?” parte sempre da un’analisi della persona che fa la domanda. In primo luogo perché, e questo vale anche per i viaggi, ciascuno di noi può avere una meta diversa, anche se parte con condizioni simili. In secondo luogo perché le condizioni in realtà si chiamano competenze ed è molto importante che ciascuno di noi sia consapevole delle proprie. In terzo luogo perché la “meta” è un obiettivo e per arrivarci serve necessariamente farlo proprio.

Abbiamo dato un titolo a questo post che riporta “prima persona, singolare” proprio perché l’orientamento è un’attività che possiamo fare anche in gruppo ma che ciascuno di noi affronta in maniera del tutto personale. Le attività di orientamento hanno l’obiettivo di aiutare le persone a costruire percorsi pienamente soddisfacenti in ambito formativo e professionale ed è er questo che ciascuno ha bisogno del proprio percorso di orientamento. L’altra questione è quella delle competenze. “Con questo termine si intende valorizzare quello che una persona sa fare, indipendentemente da come lo ha imparato. Si valorizza cioè l’apprendimento non formale in contrapposizione ad esempio a diploma, laurea, qualifica ottenuta attraverso un corso di studi. In questo accezione il termine ‘competenza’ (usato sempre al singolare) indica ‘quella generica qualità, non meglio specificata, posseduta una persona che si dimostra competente” (orientmaento.it). Su questo punto in Italia facciamo molta fatica a fare progressi: c’è una cultura diffusa e radicata che confonde sempre i titoli con le competenze (con casi sempre più frequenti di evidente differenza tra le due cose). Nel linguaggio e nella pratica comune, ad esempio, l’utilizzo del suffisso “dott.” regala al nome che segue una serie di competenze e attributi che sono in realtà tutti da verificare. Anche nei percorsi professionali (e, ahinoi, in quelli formativi) si tende a confondere l’acquisizione del titolo con l’acquisizione delle competenze: se è vero che una volta laureati, per esempio, si sono acquisite una serie di competenze specifiche nella materia, è altrettanto vero che poi la mancata pratica delle stesse o una loro utilizzazione in un campo diverso possono trasformare molto lo standard previsto dal titolo acquisito. Ad esempio una persona laureata in economia può essersi occupata poi di marketing, finanza, fisco o gestione di impresa canalizzando le proprie competenze in un settore o in un altro (e probabilmente chi si è occupato di marketing farà fatica quanto noi a compilare una dichiarazione dei redditi).

L’ultimo (ma solo in ordine di apparizione in questo post) aspetto è quello che riguarda gli obiettivi. Torniamo all’esempio dei viaggi: ammesso che qualcuno di voi abbia già tutto il necessario per viaggiare (soldi, auto, ferie, disponibilità che nella nostra metafora sono le competenze) come fa a scegliere la meta? O le mete? Scegliete quella più vicina o quella più lontana? Quella che implica un viaggio più faticoso e avventuroso o quella più facile da raggiungere? Scegliete di arrivarci subito o vi avvicinate per gradi? Queste sono le stesse domande che si potrebbero fare a chi, anziché un viaggio, sta programmando un percorso professionale ed è alla ricerca dei propri obiettivi. Se ne fa un gran parlare ma non capita spesso che qualcuno ti dica che cosa è un obiettivo e che caratteristiche deve avere. Per rispondere a quest’ultima questione ed anche alle altre di questo post ci vediamo venerdì 17 aprile alle 17 (data e orario parlano della nostra totale mancanza di scaramanzia): con ISTAO parleremo di orientamento, competenze, obiettivi e futuro al seminario gratuito che abbiamo chiamato “In me non c’è che futuro“. Vi aspettiamo!

La tecnologia fa perdere posti di lavoro (è una bugia)

tecnologia lavoroSe tra chi legge questo blog c’è qualcuno esperto o amante di storia forse ha già capito dove vogliamo andare a parare. Sicuramente saprà che cosa si intende per rivoluzione industriale e che cosa questa ha comportato nella storia dell’intero pianeta nel quale viviamo. C’è chi afferma che in questi anni stiamo vivendo una rivoluzione simile, grazie all’informatica e alle tecnologie digitali. Quando utilizziamo il termine rivoluzione intendiamo qualcosa che, anche se lentamente, stravolge completamente il mondo (e il modo) in cui siamo abituati a vivere. Per intenderci, la rivoluzione industriale ha avuto come effetti, tra gli altri, la possibilità di avere la corrente elettrica nelle case (immaginate oggi di poterne fare a meno?) e di trasformare il mondo produttivo (negli Stati Uniti gli occupati nell’agricoltura sono passati dal 90% al 2%). Che cosa sta accadendo oggi? E che effetti potrebbe avere quella attuale se fosse una vera rivoluzione tecnologica?

Nel numero di Internazionale di questa settimana c’è un dossier (quello di copertina) che racconta in qualche modo proprio questa storia. Il titolo dell’articolo è “Il capitalismo dei robot” e la questione che vi è raccontata potremmo riassumerla in questa semplice domanda: la tecnologia sta togliendo posti di lavoro? Per trovare una risposta a questa domanda senza essere banali e frettolosi bisogna analizzare un po’ meglio la questione. Prima di tutto l’informatica ha un grande potenziale perché è in grado di auto-apprendere grazie alla sua incredibile capacità di fare calcoli e, soprattutto, di farli in maniera sempre più veloce (provate a leggere, se non la conoscete, la teoria detta legge di Moore). La conseguenza è che grazie a questa “abilità” il processo di sostituzione macchina/uomo riguarda con una certa facilità tutti i processi che sono ripetitivi ed ancor di più se si tratta di lavori faticosi e logoranti per i quali l’uomo ha come limite la propria resistenza. Il terzo punto riguarda l’automazione: grazie alla potenza di calcolo sempre più grande le “macchine” riescono a fare lavori sempre più complessi. A guardare  questo video sui robot Kiva nei magazzini di Amazon ci si rende subito conto di come possa essere importante l’influenza dei robot nel lavoro: quello che queste macchine fanno in maniera del tutto automatica non più di 10 anni fa era il lavoro di operai in un numero di almeno 5 volte superiore. Operazioni semplici, faticose, ripetitive: il massimo per un robot comandato da un computer.

La sostituzione riguarda soltanto i lavori manuali? Non si direbbe: i bancomat e le casse automatizzate hanno sostituito gran parte dei cassieri di banca e ci sono una serie di strumenti tecnologici (con relative applicazioni) che possono sostituire con una certa facilità il lavoro di una segreteria organizzata (chi ha più bisogno di una segretaria che gestisce gli appuntamenti quando esiste GoogleCalendar?). Considerato che la potenza di calcolo che 30 anni fa aveva un calcolatore dal costo di milioni di dollari grande come un magazzino oggi ce l’ha una PlayStation3, ci sarebbe da scommettere che nei prossimi lustri (pochi) le macchine avranno sostituito completamente gli uomini (e le donne) nella stragrande maggioranza dei lavori. Ora sta tutto nel decidere se questa è una bella o brutta notizia.

Per prendere questa decisione bisogna fare ancora un passo indietro (la storia spesso aiuta sia la scienza che l’economia). Quando negli Stati Uniti l’agricoltura ha perso la maggior parte dei suoi addetti che cosa è successo? La popolazione è diminuita drasticamente? C’è stata una disoccupazione epica? Non è andata così. Quello che è successo è che le persone hanno dovuto imparare a fare lavori nuovi e al contempo sono nati nuovi settori, nuove professioni, nuovi impieghi. Il problema è che la faccenda non è stata automatica e nemmeno immediata. Secondo J.M. Keynes in queste epoche di passaggio in cui l’innovazione tecnologica ha trasformato la società e l’economia, l’adeguamento delle “risorse umane”non ha viaggiato alla stessa velocità, è stato più lento. Questa asimmetria, tra la velocità del progresso e quella dell’adeguamento della popolazione, genera situazioni di mancato equilibrio ed anche un certo senso di smarrimento in chi vive durante il passaggio. Ci sembra che sia un po’ quello che ci sta capitando oggi: non possiamo dire che la tecnologia non sia utile e benefica, ma al contempo facciamo fatica a crederlo quando ci accorgiamo che è anche la causa della perdita di posti di lavoro. Il consiglio che la storia ci regala è che in questi frangenti ci sono solo un paio di cose che tendenzialmente sembrano giuste da fare: la prima è quella di interessarsi, conoscere e imparare a utilizzare la tecnologia; l’altra è di evitare di pensare che le cose che sono andate sempre in una certa maniera continueranno a funzionare sempre così. Questa rigidità, soprattutto se applicata alle scelte che ci riguardano da vicino come quella di un percorso professionale, potrebbe risultare pericolosa. Come facciamo ad accorgercene? Per esempio, se qualcuno di voi sogna ancora di fare il cassiere di banca forse è bene che prenda in considerazione qualche altra prospettiva 🙂

Lavoro, parliamone

lavoro parliamoneQuando cerchiamo lavoro sono molte le cose a cui dobbiamo fare attenzione: la redazione di un buon cv, una strategia attenta e curata per la scelta del nostro obiettivo professionale, la costruzione di una rete di contatti che possa essere costruttiva ed efficace ed infine una nostra presentazione complessiva che sia performante. Che cosa intendiamo per presentazione e come riusciamo ad ottenere questo risultato?

Per presentazione intendiamo qualsiasi azione e comportamento che porta a presentare agli altri quello che siamo e quello che facciamo: si va dalla stretta di mano fino ad un ipotetico elevator pitch. Si tratta in buona sostanza di fare comunicazione e farla bene. L’esperienza più comune, condivisa e forse più intensa di comunicazione per quel che riguarda il mondo del lavoro probabilmente la facciamo quando affrontiamo il colloquio di lavoro. Ma ci sono anche altri momenti in cui il nostro modo di comunicare è importante: quando incontriamo una persona nuova, se dobbiamo presentarci in un contesto diverso, se siamo chiamati a parlare in pubblico. In tutti questi casi dovremmo tenere presente alcuni aspetti fondamentali per fare una buona impressione.

Impariamo a gestire la nostra comunicazione cominciando dal vocabolario: facciamo attenzione alle parole che utilizziamo, a come scegliamo di descrivere cose che ci appassionano ed anche quelle che non ci piacciono. Per esempio: non rispondere mai ad una domanda cominciando con “no”. Fateci caso, capita soprattutto quando ci vengono chieste spiegazioni su qualcosa che ci riguarda: “Di cosa ti sei occupato/a mentre alvorari per l’impresa X?”. Risposta: “No… ero addetto/a…”. Quella negazione all’inizio probabilmente è una brutta abitudine ma in un’interpretazione meno letterale racconta un atteggiamento poco propositivo e convinto. Due lettere che vi mettono già tra i “perdenti”. Altro esempio. Quando spieghiamo qualcosa e non abbiamo certezza che chi ascolta abbia chiara la nostra spiegazione chiedere “capito?” è molto diverso da “sono stato abbastanza chiaro/a?”. Nel primo caso, anche non volendolo, ci mettiamo in una posizione si superiorità (la maestra con l’alunno), nel secondo caso in una posizione di disponibilità. Sono piccoli particolari ma che si possono notare con facilità.

Altro fondamentale. Raccogliamo e ci accorgiamo dei feedback del nostro interlocutore? Riusciamo a capire quando sta seguendo quello che diciamo, se è interessato, annoiato, partecipe o combattivo? Questo è un aspetto molto importante perché non solo ci aiuta a definire meglio quale sia l’atteggiamento di chi abbiamo di fronte, ma allo stesso tempo ci permette di raccogliere segnali per cambiare la nostra comunicazione e, se necessario, differenziare i nostri argomenti. Per capire quanto e come l’attenzione del nostro interlocutore è attiva si possono cercare conferme intercettando lo sguardo, chiedendo conferma alle nostre affermazioni o facendo domande.

Da ultimo: che toni utilizziamo? Parliamo forte o piano? Velocemente o lentamente? Abbiamo mai provato ad ascoltarci? Se per esempio siamo abituati a fare un lavoro in pubblico davanti a molta gente tenderemo, anche in colloquio interpersonale, ad avere un volume alto, a volte troppo per una stanza di pochi metri quadrati. Qualche volta può capitare anche che parliamo velocemente per la fretta (ansia) di dire molte cose come se la quantità di argomenti corrispondesse alla qualità degli stessi. Cambiamo strategia e scegliamo di dire meno cose con maggior tranquillità: un passo che potrebbe aiutarci anche nella scelta degli argomenti più efficaci.

Se volete un consiglio per una prova pratica provate questo: scegliete un argomento (per esempio la presentazione del vostro profilo professionale), parlatene a voce alta e registratevi. Nel riascoltarvi provate a vedere se sui fondamentali che abbiamo illustrato 🙂

Nella rete dei contratti

contrattiDimmi che contratto hai e ti dirò chi sei! Questo è un modo di dire che possiamo utilizzare per raccontare in qualche maniera la complessità e la varietà di contratti di lavoro che ci sono nel nostro sistema di regole. Quanti contratti di lavoro ci sono e come sono utilizzati? Premesso che una risposta totalmente esaustiva è difficile da dare in un post di un blog, proviamo comunque a tratteggiare una panoramica che speriamo possa essere utile ad orientarsi meglio.

Rispondere alla domanda “quanti sono i contratti” è relativamente facile. A questa pagina web c’è un elenco di tutti i contratti: sono una decina anche se molte delle forme illustrate possono avere variabili diverse. Le variabili principali che distinguono i contratti sono due: il tempo e la dipendenza. Ci sono contratti che hanno una scadenza temporale e quelli che non ce l’hanno e poi ci sono i contratti che prevedono una subordinazione ad un datore lavoro ed altri invece che configurano forme di lavoro autonomo. Le forme contrattuali che già molti di voi conoscono sono: la somministrazione di lavoro nel quale un’agenzia mette a disposizione il suo personale in base alle esigenze dell’impresa; il lavoro a chiamata che permette al datore di lavoro di chiamare il prestatore di lavoro all’occorrenza (ma può essere stipulato solo con soggetti di età inferiore a 24 anni, oppure, di età superiore a 55 anni); le collaborazioni coordinate continuative (co.co.co., che non durano più di 30 giornate nel corso dell’anno solare e comunque retribuite sotto i 5.000 euro annui)  e le co.co.pro. possibili solo se subordinate all’esistenza di un progetto. Il contratto a progetto non prevede un orario rigido o un monte ore da raggiungere, ma solo il completamento del progetto entro i temi indicati. Dal 2016, in base alle novità introdotte dal Jobs Act, le collaborazioni saranno possibili solo in settori coperti da un accordo sindacale; il  lavoro accessorio che è quello retribuito dal committente con dei voucher (o buoni lavoro), che includono i versamenti minimi assicurativi e previdenziali. Le attività lavorative retribuite con i voucher non possono superare i 5.000 euro totale annui (il Jobs Act alzerà probabilmente questo limite a 7.000 euro), e i 2.000 euro per ogni committente.

E poi arriviamo al tanto contrastato contratto a tempo indeterminato. Con il “Jobs act” quando parliamo di contratto a tutele crescenti in realtà non stiamo parlando di un nuovo contratto di lavoro: è il nuovo modo con il quale funzionerà il contratto a tempo indeterminato. Per questo se vi capitasse di firmarlo trovereste sempre la stessa denominazione, non quella che si legge sui giornali.
La novità è che dall’entrata in vigore delle nuove regole chi verrà assunto con questo tipo di contratto non godrà più delle tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In poche parole se un lavoratore verrà licenziato ingiustamente per motivi discriminatori o disciplinari (nel caso in cui il fatto contestato non sussista) potrà essere reintegrato e riottenere il proprio posto di lavoro; negli altri casi di licenziamento illegittimo perderà il proprio posto ma avrà diritto a un risarcimento crescente a seconda dei mesi di lavoro effettuati presso quel datore di lavoro.

L’aspetto critico di queste novità è che si creerà un sistema duale in cui ci sono nello stesso posto di lavoro persone che hanno le tutele dell’articolo 18 e i nuovi assunti che non le hanno. L’altro aspetto importante legato al contratto a tempo indeterminato è che per quest’anno le aziende che lo utilizzeranno avranno una importante riduzione delle tasse (fino a 8.060 euro all’anno) e questo dovrebbe aumentare il suo utilizzo. C’è però la probabilità che le imprese utilizzeranno questo sgravio fiscale per assumere lavoratori con esperienza e già “pronti all’uso”, e questo non aiuterebbe soprattutto i giovani.

i 3 perchè di una lettera di accompagnamento

3 perche letteraBen ritrovati a tutti voi! Il nostro blog è stato fermo una settimana: stiamo facendo degli esprimenti per testare novità che speriamo di potervi presentare presto ;-). Ripartiamo di slancio e questa settimana cominciamo subito a parlare di lavoro e di come fare per trovarlo. Oggi proviamo a darvi qualche consiglio su come scrivere una lettera di accompagnamento. solitamente su questo documento ci si concentra poco (a torto) pensando che siano sufficienti “due righe” per accompagnare il cv scritte in maniera più o meno plausibile. Invece non è così: la lettera di accompagnamento, le “due righe” scritte nel testo della mail in cui allegate il cv sono il primo biglietto da visita che mostrate a chi non  vi conosce. E spesso sono fondamentali. Partiamo dal’inizio. Innanzitutto, mail o lettera che sia, va indirizzata se possibile a qualcuno, meglio se una persona fisica (quindi nome e cognome e non solo il ruolo); e meglio ancora se la persona è quella che si occupa di personale in quell’azienda. Nel rivolgervi al vostro destinatario evitate troppe formalità ma iniziate sempre con un saluto e cercate di essere abbastanza cordiali (un “Gentile…”  può andare bene). Evitate se possibile di iniziare con un generico “Spettabile azienda” o un “voi” generalizzato che non ottiene lo stesso grado di attenzione di un incipit maggiormente personalizzato. Se non avete idea della struttura che la lettera può avere, se non sapete da dove iniziare e come terminare la lettera un format molto semplice che ci sentiamo di consigliarvi è quello che abbiamo chiamato dei “3 perché”. Lo abbiamo chiamato così dal momento che una possibilità che avete di strutturare la lettera di accompagnamento è quella di rispondere idealmente a tre perché. Il primo “perché” riguarda voi stessi: perché siete voi? Quali sono le motivazioni che vi hanno portato ad affrontare un certo percorso formativo o una certa carriera professionale? Provate ad illustrare il vostro profilo professionale non tanto con l’elenco di titoli od esperienze (quelli si vedono sul cv!) ma dando qualche spunto sui motivi per i quali avete scelto una certa direzione professioanle. Il secondo perché riguarda invece la professione per la quale vi candidate: perché volete ricoprire quell’incarico? Cosa vi spinge a pensare che sapreste svolgere bene quel lavoro? Cosa potrebbe essere determinante, tra le vostre competenze, per il buon raggiungimento degli obiettivi che quella professione prevede? Cercate in poche righe di descrivere il valore aggiunto che esprimete e i bisognid ell’azienda che volete e potete soddisfare. Il terzo perché riguarda invece proprio l’azienda/organizzazione destinataria della vostra candidatura: perché avete scritto a quell’azienda? Cosa vi spinge a preferirla ad altri suoi competitor? Cosa ha in comune con voi rispetto a progetti, filosofia aziendale, vision? Dovreste riuscire a mettere in piedi in due righe almeno una buona motivazione in questo senso che possa ottenere due effetti: far capire che non state scrivendo la stessa lettera di presentazione all’ennesima azienda e testimoniare il vostro apprezzamento per il loro lavoro (i complimenti, a patto che siano sinceri, sono sempre apprezzati). Se riuscite a rispondere a ciascuna di  queste domande con un breve paragrafo che non contenga errori grammaticali né di battitura avrete tra le mani una lettera di presentazione che può essere utilizzata con profitto. Non sarà una formalità sbrigata ma una vera e propria presentazione di voi stessi. Rileggetela, integratela e modificatela in modo che possa piacervi. Come dicono bene nel blog Tramplinodilancio la lettera d’accompagnamento è un involucro che permette al vostro cv di arrivare nelle mani di chi vi deve giudicare:  può essere uno stupendo incarto piegato con cura giapponese o un foglio di carta da regalo evidentemente riciclato. A voi la scelta.