Per quale professioni siete pronti

Per quale professione siete pronti?

Il mondo delle professioni non è mai stato così poco definito come oggi. Ci sono tanti professionisti che alla domanda “che lavoro fai?” non sanno realmente rispondere o non sanno farlo con un solo nome della loro professione. Il motivo è che attualmente le professioni è più facile descriverle come un insieme di competenze, piuttosto che come una mansione. Fino a qualche tempo fa la cosa non era così, anche contrattualmente: il mansionario, documento utilizzato all’interno delle organizzazioni lavorative, serviva proprio a definire chi faceva cosa e, di controverso, dire che professioni venivamo impiegate.

Le abilità richieste oggi negli ambienti di lavoro, soprattutto quelli meno classici, sono quelle che raccontano i problemi che sappiamo risolvere, gli obiettivi che sappiamo raggiungere e più in generale la nostra adattabilità e preparazione generica a stare in un luogo di lavoro. Questa terza categoria di abilità non è riservata solo ad alcune professioni ma riguarda un po’ tutti. Potremmo dire che sono le capacità che dicono se siamo realmente pronti per essere assunti. Per esempio: siamo in grado di essere puntuali? Sappiamo organizzare un lavoro semplice? Sappiamo gestire uno spazio di lavoro? Sembrano banali, ed alcune di queste lo sono, ma non tutte sono così scontate (se non ci credete provate a chiedere ad un datore di lavoro qualsiasi).

C’è un test da fare on line che si chiama “Skillage: sei pronto ad essere assunto?” con il quale ognuno può verificare se è realmente pronto per lavorare. Noi lo abbiamo fatto ed è stato pure divertente: vi raccontiamo un po’ che ce n’è parso.  Il test verte su 4 aree di competenze che sono “Idoneità a lavoro”, “Produttività”, “Comunicazione”, “Social Media”, “Gestione dei contenuti e sicurezza”. Prima osservazione: una buona aprte delle domande ha a che fare con le tecnologie e con internet in generale: non è più ammissibile che ci sia qualcuno che sta cercando lavoro e che di queste cose, anche poco, non sappia nulla. C’è una domanda che riguarda la fascia di età e, udite udite, da 16 a 24 anni siamo “cazzuti”, ma da 25 in poi siamo già “anziani” (una bella botta di realismo, anche se ironico). Per il resto le domande spaziano su competenze diverse: come utilizziamo i social network, con quali strumenti organizziamo banche dati e archivi, come gestiamo aspetti cruciali come quello della sicurezza e della riservatezze. Noi vi consigliamo di provarlo e verificare, con il report finale, quanto e cosa ancora dovete imparare.

Lo faccio domani (l’arte poco nobile di rimandare)

Vi è mai capitato di avere un sacco di cose da fare? E di decidere di farle un altro giorno? La frase “lo faccio domani” crediamo sia abbastanza diffusa sia tra chi di noi è meno efficace ed efficiente, sia tra chi ha invece un sacco di cose nella propria lista delle attività da fare. In altre parole rimandare è un vizio piuttosto facile da prendere. Così succede che dovremmo preparare una relazione, controllare un budget, scrivere (magari anche un post come questo) ma prima di iniziare ci concediamo una visita a Facebook, poi clicchiamo sul link che il nostro contatto ha condiviso e da lì partiamo per altri “lidi”. A quel punto la nostra testa non è più concentrata su quel che avremmo dovuto fare e si perde per altri rivoli, senza una meta.

Perché questo accade? Un po’ senz’altro per mancanza di disciplina. Alcuni ricercatori considerano la procrastinazione fondamentalmente come l’incapacità di sapersi organizzare, come succede per altre cattive abitudini legate alla mancanza di autocontrollo, come l’abuso di cibo, i problemi con il gioco d’azzardo o la tendenza a spendere troppo. Per altri, invece, non ha a che fare con la pigrizia o la cattiva gestione del tempo, come possono dimostrare molte persone brillanti che hanno risultati sopra le media e tendono comunque a procrastinare

Per alcuni psicologi rimandare è una sorta di autodifesa: evitiamo un compito perché ci mette ansia senza restituirci una sensazione positiva. Per intenderci non è l’ansia che potremmo avere prima di giocare una partita del nostro sport preferito: quel tipo di ansia la superiamo solitamente con la voglia di giocare, di stare insieme agli altri, di vincere. Si tratta invece dell’ansia che ci fa sentire in colpa e ci fa vergognare perché non siamo all’altezza del compito da svolgere oppure non abbiamo fatto quel che dovevamo.

Il meccanismo con il quale agisce chi rimanda a domani funziona più o meno così: siccome la paura o l’ansia per il compito che ci aspetta sono insopportabili, sostituiamo quel compito difficile con uno più facile, comodo e divertente. Il comportamento è reiterato fino a che l’incombenza è troppo urgente e importante per non essere affrontata; a quel punto però diventa anche di più difficile gestione e soluzione. Esempio: dovremmo fare un certo esercizio di matematica per la lezione che avremo fra 3 giorni; oggi non la affrontiamo perché ci sembra di avere ancora molto tempo; domani ci avviciniamo all’esercizio ma ci distraiamo con altro; il terzo giorno, con sorpresa, abbiamo anche poco tempo per finirlo. Come lo risolveremo secondo voi? Sicuramente non con la nostra migliore performance. Senza contare che per qualcuno è preferibile non presentarsi a scuola piuttosto che affrontare l’esercizio e risolverlo, aggravando così ancora di più la situazione. Ma questo circolo vizioso non è proprio solo della scuola, accade con una certa frequenza anche agli adulti nel posto di lavoro.

Gli psicologi concordano sul fatto che il problema dei procrastinatori è che, invece di rimanere concentrati sui loro obiettivi a lungo termine, sono tentati a cedere alle gratificazioni immediate, che innescano quella forma di sollievo istantaneo che gli psicologi definiscono  “piacere edonico”. Gli obiettivi importanti sono più difficili ma a lungo andare portano una sensazione di benessere e soddisfazione più durevole. Se cadiamo nel tranello di pensare soltanto all’immediato e non vedere un futuro, quello che possiamo fare è cominciare a essere più attenti alla nostra dimensione futura e allo stesso tempo provare a risolvere i nostri compiti un pezzo alla volta. C’è una famosa domanda che si fa nelle sessioni formative in cui si tratta della gestione del tempo e delle risorse: come si mangia un elefante intero? La risposta più banale ma anche più giusta è: un pezzo alla volta. Questo significa che se il compito che abbiamo ci appare troppo grande, possiamo sempre spezzettarlo in compiti più piccoli, in fasi, che possiamo affrontare con maggior tranquillità e più efficacia. Provate a pensare al vostro prossimo compito come ad un puzzle: prima o poi lo finirete, basta mettere insieme un pezzo alla volta.

 

Fermatevi un anno

Sapete che cosa è un “gap year“? Il “gap year” è il modo in cui gli anglosassoni chiamano l’anno in cui decidono di prendersi una pausa. Sì, esatto, un anno di pausa da qualsiasi attività professionale (intendendo con questo anche l’inizio della carriera universitaria). Forse la cosa potrà sembrare strana per la nostra cultura, soprattutto oggi che siamo portati a pensare che ogni minuto passato a non far nulla è tempo sprecato. In alcuni paesi esteri invece il “gap year” è una prassi conosciuta, in certi casi consolidata, qualche volta addirittura consigliata. Quale potrebbe essere il vantaggio di dedicare un anno all’ozio?

Innanzitutto non si tratta di ozio come generalmente viene inteso. Esiste l’ozio creativo, che è quella condizione nella quale lavoriamo (o comunque facciamo qualcosa di produttivo, per noi stessi o gli altri) anche se non ne abbiamo consapevolezza, coscienza e intenzione. Il sociologo che ne ha definito caratteristiche e confini lo ha fatto in un libro che si intitola proprio “L’ozio creativo” (Domenico De Masi, Ediesse 1995). Quindi, una prima questione è che anche quando decidiamo di non fare nulla, in realtà stiamo producendo: ideiamo progetti per il futuro, immaginiamo come potrà svilupparsi la nostra professionalità o la nostra vita, fantastichiamo su dove vorremmo andare o come vorremmo vivere, ci dedichiamo a un hobby, coltiviamo una passione e altre cose del genere. Attenzione: deve essere però una scelta, cioè deve essere intenzionale. Per intenderci, giocherellare e perdersi tra i post di Facebook non è ozio creativo :-).

A ogni modo il “gap year” non è solo ozio, anche se creativo. In realtà è un modo interessante e intelligente per scoprire veramente di che pasta siamo fatti. Per prima cosa il “gap year” è anche e fondamentalmente un anno trascorso a vivere esperienze originali, inconsuete, diverse dalla routine o dalla programmazione che la maggior parte delle persone fa della propria vita. Per prenderci un anno di pausa dobbiamo quindi decidere come utilizzeremo quel tempo e cosa decideremo di fare: dovrà essere un’esperienza che non è dettata dalla funzionalità o da un obiettivo utilitaristico. Molto semplicemente si tratta di scegliere di fare cose ci piacciono e che ci fanno stare bene senza necessariamente che questo ci porti un utile, in qualsiasi senso lo intendiamo.

Se avete modo di ascoltare il racconto di chi ha fatto questa esperienza, vi dirà sicuramente che il “gap year” è stato fondamentale (a questo link http://goo.gl/71WTb5 potete trovare il racconto di una di queste storie; in inglese): l’esperienza può essere il punto di svolta di una vita, aiuta ad aprire gli occhi sul mondo, a respirare aria nuova per fare scelte migliori per il proprio futuro sopratutto per gli studenti. Per esempio, dal racconto di chi lo ha fatto e che potete leggere la link che vi abbiamo segnalato, scopriamo che un anno trascorso a vivere esperienze originali aiuta a comprendere meglio la diversità delle persone e come l’interpretazione del mondo in cui viviamo possa essere molto diversa dalla propria, a migliorare le capacità di adattamento di una persona, a essere maggiormente indipendenti. Se poi un anno di pausa è un anno trascorso all’estero, l’esperienza diventa ancora più interessante perché si aggiungono la conoscenza di una lingua estera, quella di una cultura diversa, la possibilità di avere contatti internazionali. Un anno di pausa può insegnare molte più cose di 10 anni si scuola e formazione.

Il nostro consiglio? Se per esempio siete nell’anno della maturità e state per affrontare la scelta (se non l’avete già fatta) di che cosa fare nella vostra vita, prendete in considerazione il fatto che un “gap year” potrebbe essere per voi la vera svolta.

 

Mamma, voglio diventare Youtuber!

Secondo la rivista americana “Variety”, gli Youtuber sono amati dagli adolescenti più delle star di Hollywood. I teen-ager e in generale i nativi digitali costituiscono la fetta maggiore di frequentatori del web. Quindi non è difficile intuire che con Youtube (e altri social) è possibile diventare ricchi e perseguire, spesso in maniera del tutto illusoria per alcuni ingenui, l’obiettivo di “ fare soldi senza fatica ”.
Se si considera che nel 2015 si sono superate le 300 ore di video caricate ogni minuto, perdersi nella massa è quasi la regola, quindi pensare che si possa sfruttare in modo non strategico e ragionato questo mezzo, lasciando che la “barca vada”, è appunto il modo migliore per affondare.

Sara Mormino, l’italiana responsabile mondiale delle partnership di YouTube, durante un’intervista a “La Stampa”, regala dei consigli e rivela che l’unico modo di avere qualche chance nella realtà paritaria (ma forse non meritocratica) del web, è partire sempre da una passione autentica, un qualcosa di assolutamente personale, pur tenendo in considerazione che ci sono temi che funzionano più di altri. I videogiochi su tutti. Infatti, nella classifica fornita da Wikipedia, aggiornata al 7 Febbraio 2016 (dominata quasi completamente da Youtuber americani), ancorato al primo posto c’è PewDiePie, username di un ragazzo svedese il cui canale di recensioni di videogiochi conta 42 milioni di iscritti. Ma come si traduce questo in termini lavorativi e monetari?

Per avere un’idea di quanto sia proficuo “ l’affare video”, vi facciamo presente che YouTube ha fondato una Creator Academy dedicata ai suoi autori, gratuita e aperta a chiunque voglia approfondire i temi legati alla gestione e alla produzione strategica dei propri contenuti su YouTube, con lezioni via Internet, incontri dal vivo, presentazione di casi di successo e lezioni di introduzione sulla monetizzazione con Youtube (ad esempio attraverso il programma “Partner di Youtube”).

Contenuti che interessino, titoli giusti e tag ottimizzati per le keyword cercate maggiormente su Internet, sono alcune delle “regole d’oro” da seguire per fare un buon lavoro. Perché essere uno Youtuber può diventare un lavoro e rappresenta un’occasione soprattutto per i giovani che, oltre ad essere i maggiori utilizzatori di Youtube, sono stati anche tra i primi a “sperimentare con i video”, sempre secondo la testimonianza della Mormino al sito web della Stampa.

In un periodo storico come il nostro, in cui i mantra sembrano essere quello della “flessibilità”, del “crearsi il lavoro” e del “diventare imprenditori di se stessi”, Youtube, che presenta dei costi vivi e dei costi fissi piuttosto contenuti, se usato intelligentemente può diventare la piattaforma ideale per far emergere il proprio talento, guadagnare e, perché no, nutrire il piccolo (o grande) mostro dell’egocentrismo che alberga in tutti noi.

(questo articolo è stato scritto da Viola Ferri)

Cosa sono le competenze?

Sono in molti a pensare che i lavori di domani si fonderanno sulle competenze piuttosto che sui titoli. Spieghiamo la differenza, almeno a nostro modo di vedere. I titoli sono “etichette” che possiamo metterci ed esibire quando qualcuno ce le consegna. Così diventiamo ingegneri, per esempio, solo quando, dopo un percorso universitario, otteniamo il titolo di studio della laurea in ingegneria; oppure siamo giornalisti solo quando un ordine, previo apposito iter ed esame, dichiara che possiamo firmare articoli di giornali e riviste. Niente di male, per carità. Solo che questo meccanismo oltre ad avere indubbi vantaggi (pensate ad esempio alla professione del medico, per la quale il titolo garantisce uno standard di qualità e sicurezza per tutti) ha anche qualche pecca. Per esempio non contempla professioni emergenti che, non rientrando dentro nessuna categoria già preordinata, sfuggono anche a titoli di qualsiasi genere (quando potete dire di essere social media manager?).

Ma il difetto, se così lo vogliamo chiamare, più grande è la logica che sottende a questo tipo di impostazione. Avere un titolo ci fa pensare (a volte pretendere) che sia nostro diritto avere anche un lavoro, una mansione retribuita per quel tipo di titolo. Non che la pretesa sia assurda, ma cosa succede se dato un tot di laureati in giurisprudenza non ci sono posizioni sufficienti per tutti? La risposta nella realtà la conoscete tutti. Questo meccanismo non è sbagliato in senso assoluto, solo che non corrisponde più e non è più adattabile all’attuale mercato del lavoro.  Proviamo avedere se, diversamente, può accadere qualcosa di diverso partendo dalle competenze.

Innanzitutto: cosa sono le competenze? Etimologicamente competenza deriva dal tardo latino competentia, sostantivo di competere (cum, insieme, più petere, dirigersi verso, cercare di avere, aspirare). Competere significa dunque: –Incontrarsi, convergere al medesimo punto –Concordare –Spettare, essere applicabile –Essere padrone di se stesso, cercare insieme (allo stesso tempo) di ottenere qualcosa –Essere adatto, capace di (in senso figurato). Riprendendo una definizione più vicina ai temi del lavoro, proposta da ISFOL, la competenza professionale è un insieme di elementi/dimensioni che concorrono all’efficacia di un comportamento professionale; è finalizzata all’azione ed è intrecciata alla capacità di fare e alla conoscenza delle situazioni e dei contesti. insomma dentro la competenza c’è tutta la nostra professionalità; e l’insieme delle nostre competenze fa di noi professionisti di un determinato campo. Avere delle competenze, quando cerchiamo lavoro, dovrebbe farci fare questa domanda: a chi possono essere utili? L’ottica, rispetto a quella del “posto di lavoro” per titoli, è nettamente diversa anche se il risultato atteso è identico.

Se cominciamo a porci nel mercato del lavoro come professionisti in grado di offrire delle competenze la strategia che dovremmo seguire non è tanto quella di trovare un posto, quanto quella di capire quale bisogno o quale utilità possiamo offrire a chi ci potrebbe pagare per avere i nostri servizi. Il meccanismo che regola questa strategia è lo stesso che seguono aziende ed imprenditori quando decidono di posizionarsi in un mercato. C’è un libro che racconta meglio e in maniera più esaustiva tutto questo: è “Business model you” di Tim Clark, tradotto anche in italiano dalla casa editrice Hoepli. Ah, se volete potete consultarlo gratuitamente anche all’Informagiovani!

Concentrazione minima

“Attenzione!” è questo l’incitamento che con maggiore frequenza e facilità troviamo in contesti diversi della nostra vita: per strada, a scuola, in casa. “Attenzione” è un ammonimento, ma anche un avvertimento, che richiama all’ordine prima il nostro sguardo e poi la nostra mente. La nostra mente ha, infatti, una forte inclinazione a disimpegnarsi, a divagare (e la frequenza con cui questo richiamo viene fatto ne è la dimostrazione). A chi non è capitato di distrarsi? O, meglio, chi non è mai distratto? La disattenzione, a parte i film di spie e 007, è un fattore intrinseco dell’essere umano: tutti noi ci distraiamo (e peggio sarebbe se non fosse così).

La mente umana, spesso e volentieri, vaga senza una meta apparente: non significa che sia inattiva, semplicemente non è focalizzata su di un obiettivo (e quel “attenzione!” magari gridato serve proprio a ricondurci all’obiettivo). Quando ci capita di distrarci, però, non è che il nostro cervello se ne stia lì ad oziare: nel concedersi spazi di svago, nel distaccarsi dalla contingenza la mente esercita anche altre facoltà, con esisti vantaggiosi per noi stessi e gli altri. E allora: a che cosa pensiamo quando non pensiamo a nulla? In un libro intitolato “The wandering mind” (sottotitolo tradotto: che cosa fa la mente quando non guardi”) si cerca danno più risposte a questa domanda. Quello che il nostro cervello fa durante lo “svago” è una ricombinazione di stimoli che durante la fase di attenzione ha ricevuto. La nostra memoria è composta infatti da tre sostanziali livelli. Il primo è quello delle competenze (skills) come per esempio parlare, camminare, scrivere, ecc. Il secondo livello è quello delle conoscenze (knowledge): si tratta dell’insieme delle nozioni che abbiamo ricevuto, in tutti i contesti in cui le abbiamo assimilate (non solo, quindi, la didattica formale). E infine quella che viene definita più comunemente come memoria, cioè la capacità di ricordare, riattivare esperienze del passato. Su questo ultimo livello la nostra mente, stranamente, propende più a guardare la futuro che non al passato, tanto è vero che le zone cerebrali che si attivano ricordando eventi del passato, sono le stesse che si attivano quando pensiamo al futuro.

Se paragoniamo il nostro cervello ad una città, nelle fasi di ozio non è che le strade siano deserte, ma gli abitanti attendono a casa propria salvo confluire in un medesimo posto quando accade un evento importante. Quindi quando divaghiamo, in realtà viaggiamo: oltre che tornare al passato, facciamo anche dei viaggi futuristici immaginandoci possibili scenari futuri. E poi facciamo anche un’altra cosa incredibile: secondo la “teoria della mente” abbiamo l’attitudine a rappresentarci gli stati mentali altrui. In altre parole ci facciamo delle domande e cerchiamo delle risposte su quello che potrebbero pensare gli altri. A volte facciamo anche il salto del cosiddetto “mettersi nei panni degli altri”: sviluppare la disposizione a mettersi nei panni altrui aumenta ala possibilità di comprensione reciproca, di empatia e interesse sociale, con evidenti vantaggi per la sopravvivenza del gruppo.

Questo vagabondare della nostra mente è anche alla base della creatività: si passa dalla fantasticheria privata a un esercizio sociale dell’immaginazione; è il piacere di girovagare nella mente altrui che ci induce a creare personaggi d’invenzione, apposta per questo scopo; ed è il piacere di spostarsi nel tempo che ci porta a inventare trame e storie. Anche l’attività di narrare è una forma di adattamento: i nostri remoti progenitori sono letteralmente diventati umani narrando, usando cioè il linguaggio per riferire, condividere, tesaurizzare esperienze ritenute rilevanti.

D’ora in poi quando qualcuno ci coglierà nel pieno della nostra distrazione potremo rispondere a quel monito (attenzione!) dicendo tranquillamente che stavamo viaggiando per raccontare storie e che quello che riusciremo a produrre grazie a questo metodo sarò molto più proficuo di quanto verrebbe fuori se rimanessimo instancabilmente focalizzati su di un solo obiettivo. Con buoan pace di chi ci vorrebbe soltanto come task manager, siamo in realtà dei poeti sognatori. 🙂

 

 

 

Come (rischiare di) perdere il lavoro

Solitamente consigliamo le cose che si DEVONO fare per trovare un lavoro. Ma forse possono essere utili anche quelle che si devono EVITARE per non rischiare di perdere quella che potrebbe essere un’opportunità lavorativa. Perché se è vero che un buon curriculum può aiutare a fare una bella impressione, è altrettanto dimostrato che mostrarsi trasandati fa ottenere l’effetto contrario. Leggendo un articolo tratto dalla rivista Business Insider abbiamo trovato alcuni comportamenti, atteggiamenti e stili che potrebbero essere a rischio “perdita di lavoro”: eccoli qua.

Poca attenzione: ci sono candidati che durante il colloquio prendono nota delle cose che vengono dette oppure fanno domande sull’azienda e sul ruolo; poi ci sono quelli che invece, con sguardo fisso, ascoltano senza alcun feedback quello che viene detto loro. Ecco, questi secondi stanno perdendo punti preziosi.

Esibizionismo: c’è chi cerca di attirare attenzione su di sè o sul proprio cv con effetti speciali, colori sgargianti, decorazioni floreali, un linguaggio esageratamente pittoresco. Cercano in tutti i modi di attirare l’attenzione: probabilmente ottengono il risultato sperato, ma l’attenzione è di un altro tipo (quella che abbiamo per un pagliaccio, non per un professionista).

Bere e fumare: non è affatto una buona idea bere qualcosa di alcolico prima di un colloquio perché se è vero che questo potrebbe calmare i nervi, si rischia invece di sembrare un po’ annebbiati oppure non troppo intelligenti; il fumo invece ci lascia addosso un odore inequivocabile ed anche se questo di per sé potrebbe non essere un problema, accade però che i selezionatori danno molta importanza alle nostre abitudini di vita che possono incidere sul luogo di lavoro.

Poca cura personale: quella della igiene personale non è una questione da sottovalutare; non sono per fortuna molti quelli a trascurarla, ma bisogna fare attenzione anche alla cura dei particolari, cercando di provvedere alla pulizia delle mani per esempio, oppure a qualche rimedio per una eventuale eccessiva sudorazione.

Mandare messaggi: speriamo che nessuno di voi abbia in mente di mettersi a scrivere un messaggio durante un colloquio; lo sconsigliamo anche nel caso lo facciate in quei momenti in cui siete in attesa (magari perché, giustamente, siete arrivati un po’ prima dell’orario prefissato). Questo perché, al posto del messaggio, nelle sale di attesa delle aziende potreste raccogliere utili spunti da utilizzare nel colloquio (che dite, leggendo una brochure aziendale per esempio?).

Portarsi dietro un sacco di roba: presentarsi ad un colloquio con troppe cose in mano o al seguito (agenda, telefono, bottiglietta d’acqua, scartoffie varie) non è un buon contributo per generare una buona impressione; il vostro curriculum, una penna con un foglio per gli appunti sono più che sufficienti (sì, il telefono lo potete lasciare da parte).

Esagerare: chiaramente l’obiettivo di ogni buon candidato è quello di stupire, impressionare il selezionatore che ha davanti (costi quel che costi). E quindi via a raccontare tutto ciò che si è fatto e che ci è accaduto senza accorgersi, a volte, di straripare in uno sproloquio che rischia di fare davvero una cattiva impressione. Per evitarlo alcuni piccoli accorgimenti: dire le cose rilevanti, tenere fuori dalla discussione la vita privata, ascoltare (e fare delle domande). La declinazione peggiore del candidato strabordante è quello che interrompe mentre parlano gli altri: dimostra mancanza di rispetto e anche poca attenzione (da evitare assolutamente).

Non far parlare il corpo: le parole sono importanti, ma lo è anche il linguaggio del nostro corpo; per esempio se scegliamo di non sorridere, di non guardare l’interlocutore in faccia e di avere una cattiva postura (quasi sdraiati sulla sedia, la testa appoggiata alle mani o ancor peggio sul tavolo per fare un paio di esempi) stiamo contribuendo a gran parte del nostro insuccesso con comportamenti a volte involontari.

Ci potrebbero essere anche altre cose da dire (e ce ne sono se avete voglia di leggere per intero l’articolo su Business Insider, in inglese). Noi ci auguriamo che anche solo questi descritti possano aiutarvi a fare la migliore prima impressione che potete. E in bocca al lupo per il vostro futuro lavoro!

 

front office

Professione front office

In fondo che ci vuole? L’addetto al front office viene considerato un tipo di lavoro semplice, che tutti possono fare e che non richiede particolari qualifiche, una lunga preparazione o capacità specifiche.
E invece occuparsi efficacemente del front office di un ufficio, una azienda, una struttura ricettiva, è molto più che piazzarsi in divisa dietro a un bancone, e farlo bene implica non solo curare l’aspetto, ma anche e soprattutto la relazione, senza confondere un approccio gentile, amichevole e a volte informale (a seconda dell’esigenza del soggetto per cui si lavora) con una chiacchierata tra amici al bar.
Bisogna avere capacità di ascolto e di osservazione, per cogliere i segnali non verbali inviati delle persone che ci stanno di fronte, e capire la domanda reale che sta dietro alla richiesta; se è necessario porre delle domande per capire meglio cosa rispondere, bisogna saperlo fare con discrezione e cortesia.
E’ necessario saper rispondere in maniera educata, cordiale e rassicurante, anche quando non si ha immediatamente la risposta giusta a disposizione (e quindi poi bisogna avere la prontezza e l’intraprendenza per cercare quella più corretta possibile, possibilmente in tempi utili).

E che fare quando diverse richieste arrivano contemporaneamente? Se una persona si avvicina e stiamo già rispondendo al telefono o a qualcun’altro? E come cavarsela con chi arriva con una lamentela bella pronta, che magari non ha niente a che fare con il nostro operato?
Definire le priorità, rispettare le precedenze, gestire le emergenze e le criticità, dedicare ad ognuno il tempo e l’attenzione necessarie sono capacità che si acquisiscono con il tempo, l’esperienza e l’osservazione di chi già svolge questa mansione.
A volte stabilire un contatto visivo con la persona che abbiamo davanti mentre siamo al telefono, accennare un sorriso e, in qualche modo, fargli capire che ci siamo accorti che sta aspettando noi, la predispone ad attendere con maggior pazienza il proprio turno, o a porre la propria questione in maniera gentile.

Fondamentale oggi è ricordare che anche le attività sui canali social sono una forma di front office, di relazione con utenti e clienti: aspetto tanto più delicato quanto la comunicazione è a distanza, passa attraverso quello che si scrive e non è corredata dal nostro tono di voce, dall’espressione del viso, e può facilmente essere fraintesa, o non accolta come avremmo pensato. Le parole e le risposte vanno cautamente e attentamente scelte, e le risposte non devono farsi attendere troppo.

Insomma, la gestione del front office fatta bene comporta un nutrito mix di capacità relazionali, comunicative e organizzative, oltre alla conoscenza di informazioni relative al posto in cui ci si trova e al soggetto per cui si lavora (Con che orari vi trovo aperti? Dove trovo il signor… ? Il bancomat più vicino? Il vostro numero di telefono?).
Il tutto senza mai dimenticare un sorriso, che è sempre la miglior accoglienza e un buon modo per dirsi arrivederci!

Parla come mangi

Il meeting sarà poco dopo il briefing e finirà con un brunch a base di finger food. Questa frase, costruita qui ad hoc, è inventata ma non fatichiamo a credere che potrebbe essere benissimo stata pronunciata, anche più di una volta. Una frase del genere è un mix di parole italiane e inglesi ma quello che notiamo è che le italiane sono solo quelle funzionali e non quelle che danno il significato e il senso alla frase: chi parla o scrive così più che farsi capire sembra proprio che abbia l’intento contrario. L’ingresso di parole straniere nella nostra lingua non è una moda del momento. Per esempio la parola chewingum, ampiamente utilizzata da tempo, è stata introdotto alla fine della seconda guerra mondiale con l’arrivo degli americani. Allora l’inglese era poco conosciuto così come, ahimè, l’italiano (ma temiamo che su questo i miglioramenti non siano stati per tutti omogenei).

La domanda che ci facciamo in questo momento è: sono utili i termini inglesi nella nostra produzione orale o scritta? Possono essere sostituiti con termini italiani di eguale significato e, diremmo, di uguale estetica linguistica? Detto in altre parole e con un esempio: possiamo facilmente sostituire la parola meeting con “incontro” senza timori di non essere capiti, mentre per identificare il brunch forse diventa un po’ più ostico utilizzare una perifrasi come “pasto consumato in tarda mattinata a metà tra la colazione e il pranzo”. Come ci regoliamo? La questione non è solo accademica e di stile linguistico. Riguarda tutti noi per esempio quando ci presentiamo ( proposito, ieri abbiamo detto a scuola quali sono le regole principali, le trovate qui) attraverso una lettera di presentazione professionale, un cv o un post sul nostro profilo social che utilizziamo anche per farci conoscere come professionisti. Secondo noi potrebbe essere utile capire quando possiamo (e dobbiamo) utilizzare un termine inglese perché così è più comprensibile ed invece quando il nostro inglese serve solo a farci sembrare un po’ più “fighetti” senza nulla aggiungere ai contenuti che proponiamo.

La questione non è da poco considerato che anche l’Accademia della Crusca ha creato un gruppo di lavoro dedicato ai neologismi e alle nuove parole che entrano nel vocabolario della lingua italiana. Non da meno ci dovrebbe far riflettere il fatto che su alcune questioni di interesse comune come il lavoro e la famiglia si utilizzino termini in inglese quando si cerca di cambiare qualcosa (rispettivamente jobs act e stepchild adoption): dovremmo capire meglio o di meno? Qualche volta, purtroppo, è la seconda ipotesi che vince. Ma se nelle questioni di politica segue il dibattito nel quale è possibile confrontarsi e approfondire, in un testo scritto che ciascuno di noi invia agli altri non ci sono tante possibilità di discussione e argomentazione. La necessità in questi casi è quella di presentarsi in maniera chiara, efficace e, possibilmente, con successo.

Per risolvere la questione e capire se per esempio nel vostro cv dovete scrivere che vi siete occupati di brand e di budget anziché di “marca” e “bilancio” oppure se avete già lavorato per un competitor anziché un “concorrente” potete fare riferimento a questa lista: contiene 300 parole che utilizziamo in inglese ma che hanno un equivalente più che opportuno anche in italiano. Fatelo, anche se se state rispondendo a qualcuno in cerca di un key account junior: forse è anche un modo che la vostra conoscenza dlela lingua (e delle lingue) supera il loro know-how.

Convincere gli altri

Quando parliamo con qualcuno quanto è fondamentale che la persona che ci sta di fronte non solo comprenda quello che diciamo ma lo condivida pure? L’ascolto e la condivisione sono due passaggi distinti di un singolo processo che è quello di comunicare. La comunicazione potremmo dire che è una brutta bestia: da una parte è un meccanismo naturale, spontaneo per il quale no ci verrebbe mai in mente di dover studiare per imparare a gestirla. Dall’altra però se con la nostra comunicazione vogliamo ottenere risultati precisi, raggiungere obiettivi, essere efficaci dobbiamo forse entrare nell’ordine delle idee che qualcosa da imparare ci sia: le tecniche di comunicazione non sono un patrimonio comune, tanto è vero che c’è differenza tra un oratore e un altro. Fino al punto che quella di comunicare oltre ad essere un’arte a volte diventa anche un mestiere.

Un po’ di comunicazione efficace dovremmo però impararla tutti. Oggi vi proponiamo allora tre indicazioni di massima che riprendiamo da questo articolo comparso su Linkiesta al quale aggiungiamo qualche nostra indicazione. Perché potrebbe esserci utile? Le situazioni in cui ci troviamo a comunicare e dobbiamo farlo perseguendo una performance sono diverse: un colloquio di lavoro, un esame all’università, un’interrogazione, un lavoro di comunità, la gestione di un gruppo di lavoro, un ruolo di leader. Sono tutte situazioni in cui non ci sarà sufficiente dire le cose, dovremo anche riuscire a farle comprendere nel senso più ampio del termine. Vediamo come possiamo riuscirci.

Il primo compito che abbiamo è quello di selezionare. Non possiamo dire tutto quello che ci passa per la testa. I contenuti da trasmettere li dobbiamo scegliere (quindi decidere che alcune cose non le diremo) perché prima di parlare (o scrivere) avremo stabilito una strategia (cioè ci siamo dati un obiettivo e anche un modo per raggiungerlo) rispetto alla quale dovremo “tagliare” i nostri contenuti. Facciamo un esempio: avete mai incontrato un venditore di auto che prima di tutto vi racconta difetti della macchina che volete comprare (o che vuole vendervi)? Non è solo una questione di onestà (in quel caso il venditore vi racconterà che i difetti non ci sono proprio). La stessa cosa avviene per esempio durante un colloquio di lavoro: dobbiamo scegliere prima argomentazioni e temi che vorremo trattare e prepararci su quelli: saranno i temi che tiriamo fuori non appena ci verrà data la possibilità di parlare “liberamente”.

La seconda cosa che dobbiamo imparare a fare è quella di ripetere. C’è una regola che sembra banale, leziosa e forse a tratti ridicola che dice: annunciare ciò che dirai, dirlo e ripetere ciò che hai detto. Espresso in questa maniera viene da esclamare “che assurdità!”. Ma vi possiamo assicurare che quando ascoltiamo il nostro cervello ha un livello di assimilazione dei contenuti che funziona molto bene con la ripetizione. Per fare un esempio pratico: avete fatto caso che ci ricordiamo con una certa facilità slogan e motivetti pubblicitari solo per il fatto che la televisione, la radio o i giornali li hanno ripetuti migliaia di volte senza aggiungere alcun contenuto di maggior valore? Se scriviamo la frase “Dove c’è Barilla…” crediamo che ciascuno di voi sarà in grado di terminare con la seconda parte. Quindi quando vogliamo che la nostra platea (anche fosse di una sola persona) accolga una nostra idea dovremo essere bravi a ripeterla nel discorso più di una volta (senza cadere nella trappola di essere ripetitivi, insomma la giusta misura).

Infine cerchiamo di non essere sconclusionati. Voi direte: e chi lo farebbe? Eppure capita di sentire parlare (o parlare) per lungo tempo senza avere un’idea più completa del discorso nel suo complesso. Sono quei casi in cui ci chiediamo: “dove vorrà andare a parare?”Ecco quelli sono i casi in cui nel discorso (o nel testo scritto) non abbiamo inserito i link. Non stiamo parlando di quelli del web che ci portano da un sito all’altro, ma dei collegamenti che di un discorso fanno la struttura. Questa struttura, anche se non espressa ma costruita fin dall’inizio, è quella che aiuta chi ascolta a comprendere meglio e più in profondità quello che diciamo. Per esempio tutte le favole, scritte per essere comprese dai bambini, sono accomunate da una struttura (spesso semplice): presentazione dei personaggi, vicenda del personaggio, finale (spesso lieto). Si dice che questo è raccontar storie. Ed è quello di cui un buon comunicatore ha bisogno. E voi, che storia avete in mente di raccontare la prossima volta?

 

Che odio quel lavoro

Questo post vorrebbe raccontare di come sia importante scegliere un lavoro che ci piace e, al contempo, di quanto in realtà noi essere umani siamo adattabili. Queste due cose sono una il contrario dell’altra oppure entrambe concorrono a costruire la nostra personalità professionale?

Per rispondere a queste domande che hanno una caratura quasi esistenziale partiamo da un articolo apparso su Vice (la rivista on line di origine canadese presente nella versione italiana ormai da 10 anni) in cui si raccontano 6 lavori odiati e odiabili. Vediamo velocemente quali sono. Il primo è il lavoro del controllore e a raccontarlo è una donna: il brutto di questa professione è che ti becchi rimbrotti e insulti (non sempre per tue colpe) per non parlare di certi orari e treni che a volte trasportano persone “irrequiete” (per usare un eufemismo). Però il bello (secondo il racconto dell’intervistata) è nell’incontrare persone e storie diverse e sentirsi di poter essere loro di aiuto.

La seconda professione odiata è quella dell’ufficiale giudiziario: chi di voi vorrebbe essere nei panni di chi è visto, nella migliore delle ipotesi, come un boia o un uccello del malaugurio? Chi fa questo lavoro però si sente anche gratificato per essere la persona che fa rispettare la legge e, in alcuni casi, riporta la pace tra i contendenti. Più delusa la figura che si occupa di recupero crediti: in questo caso la frustrazione di dover raccontare bugie o ricorrere a velate minacce diventa più pesante di qualsiasi soddisfazione.

A seguire, tra i lavori più brutti, ci sono quelli di chi si occupa dei soldi. Degli altri. Come ad esempio chi si occupa di raccolta fondi, costretto a chiedere soldi in mezzo alla gente scoprendone ipocrisie e falsità anche se con un nobile scopo (spesso la raccolta fondi è quella realizzata a favore di enti e organizzazioni benefici). Oppure il lavoro del trader (l’operatore che tratta prodotti finanziari per conto terzi): qui il compromesso con la propria coscienza èancora più grande perché di solito si trattano somme alte e con esse a volte anche il destino di persone e società. Non è facile poi districarsi in una professione a cui, per stessa ammissione di chi ne fa parte, viene attribuito un giudizio di valore negativo. Da ultimo, nelle professioni più odiate, c’è quella del giornalista. Le cose che scrive sono spesso oggetto di critiche che non riguardano il solo contenuto dell’articolo o del dossier ma diventano personali e dirette. Chi fa questo lavoro poi è in un continuo divario tra quello che vorrebbe scrivere e quello che invece è, in quache maniera, costretto a scrivere per rispettare la linea editoriale del proprio giornale.

Non so se tutti voi siete concordi nel definire questi lavori come “odiati” (attenzione: non significa che siano i peggiori lavori da fare in senso assoluto). Certo è che, anche facendo un lavoro di questi o un altro poco invidiabile, sono esperienze in cui ciascuno di noi mette in campo le proprie competenze e quelle si evidenziano anche se il lavoro che facciamo è brutto. C’è un’altra considerazione da fare: lo sviluppo del lavoro, qualunque esso sia, può portare a risultati e traguardi diversi da quelli che ci si immagina inizialmente e farci raggiungere quindi mete insperate. Infine le esperienze di lavoro rappresentano comunque un banco di prova: prima di tutto per noi stessi e, in seconda battuta, anche per dimostrare agli altri quello di cui siamo capaci. Però, è sempre meglio scegliere un lavoro che ci piace 🙂 

Il lavoro a tempo indeterminato non è un successo

Da quanto tempo ormai sentiamo dire che la parola d’ordine è flessibilità? Che i tempi del lavoro sicuro sono finiti? Che probabilmente nel corso della vita dovremo cambiare più lavori e forse anche più professioni? Anche se questi “mantra” sono ripetuti da almeno dieci anni, sono sicuro che in realtà sono ancora in molti a sperare nella soluzione definitiva nel momento in cui firmano un contratto di lavoro, mandano un cv, rispondono ad un annuncio.

La realtà è che con il passare del tempo i segnali che qualcosa di strutturale nel mondo del lavoro sta cambiando ed è già cambiata ci sono: il calo senza freni del numero degli assunti con contratti a tempo indeterminato, le nuove regole che prevedono contratti molto più flessibili anche per le assunzioni di lungo periodo, l’aumento esponenziale delle partite IVA e dei lavori occasionali, la generazione a volte eccessiva di nuove attività imprenditoriali in sostituzione di servizi e mansioni che prima erano in capo a dipendenti. Sono segni evidenti di precarizzazione la cui causa non è sempre e soltanto da ricercare nelle politiche di una singola nazione, ma risiedono in una economia globalepiuttosto complessa (e che non affronteremo qui).

Però non tutti i mali vengono per nuocere e, soprattutto, l’uomo è animale di grande adattabilità. In un articolo comparso sulla testata on line BloomberBusiness sonoa rrivati a titolare che “L’anniversario di dieci anni di lavoro in uno stesso posto è un fallimento“.  Una ricerca fatta tra i giovani americani nati tra il 1982 e il 2004 (questi ultimi ancora un po’ piccoli a dir la verità) rivela (e rileva) che il mantenimento di uno stesso posto di lavoro per lungo tempo non è una conquista ma addirittura potrebbe essere una sconfitta. Uno di loro afferma che è più facile parlare di crescita della propria carriera se si è in grado di attraversare aziende diverse piuttosto che rimanere in uno stesso posto nel medesimo lasso di tempo (e lo dice uno che a 27 anni ha cambiato già tre volte posto di lavoro).

Mac Schwerin, questo è il suo nome, afferma anche un’altra cosa interessante e un po’ provocatoria: è più facile raccontare e rappresentare i propri successi se si riesce a dimostrare di portare risultati ovunque si vada. Questa opinione è condivisa da molti millenials (i nati di cui sopra) interpellati nel sondaggio svolto dalla società di consulenza Deloitte. Il motivo è anche legato al fatto che stiamo parlando di giovani che hanno concluso gli studi in un periodo di recessione economica e di mercato di lavoro molto competitivo: in qualche misura sono abituati a vedere e vivere la propria carriera professionale in maniera radicalmente diversa: vogliono le stesse cose delle generazioni precedenti (casa, famiglia, ecc) ma sono convinti di ottenerle con un percorso diverso.

Ci sono però due considerazioni a margine da fare. La prima è che, per loro stessa ammissione, il loro punto di vista cambierebbe se fossero assunti in azienda di “prima classe” (Tesla, Facebook, Google).  La seconda è che stiamo parlando del mercato americano dove la percentuale di giovani rappresenta la parte più ampia del mercato del lavoro. Credo che, anche alla luce di questi due assunti finali, potremmo trarne anche noi considerazioni utili e interessanti su come affrontare le nostre sfide “casalinghe” con il mondo del lavoro.

Lavorare con piacere (o almeno provarci)

Quando ci capita di andare nelle scuole a parlare di lavoro una domanda e un giochino che facciamo spesso è quello di chiedere: “per cosa lavorereste?”. Le risposte sono le più svariate ed anche le più tremende. Su tutte la maggioranza è senz’altro quella di chi pensa che il denaro è una leva più che sufficiente per alzarsi la mattina, recarsi al proprio posto di lavoro e rimanerci per minimo 8 ore (chiaramente più la quota di denaro si alza e più la disponibilità aumenta). Ingenui. Primo perché ad oggi il denaro disponibile, in senso assoluto, è sempre meno; secondo perché in realtà anche le ambizioni di guadagno più sfrenate trovano un limite nelle 24 ore al giorno (ed è un limite a cui nessuno arrivare, quello di 24 ore al giorno di lavoro); terzo perché chi pensa solo al denaro non ha fatto i conti con molte altre variabili e, soprattutto, non ha tenuto conto del fatto lavorare significa mettere in gioco non solo abilità e competenze tecniche ma anche un certo grado di emozioni e passioni personali.

D’altra parte un’attività che ci impegna così tanto tempo (40 ore alla settimana, 160 ore al mese, 1920 all’anno, 76800 in una vita di lavoro contrattualmente regolare) non può essere soltanto una questione di impegno tecnico. Quando lavoriamo in realtà mettiamo in gioco noi stessi e lo facciamo sempre, anche quando il lavoro non ci piace. Il problema è che quando facciamo qualcosa che ci piace, oltre alla sensazione del tempo che trascorre più velocemente, c’è anche quella di generale appagamento per avere realizzato qualcosa, raggiunto un obiettivo, trovato la soddisfazione nostra e degli altri. Come fare allora per individuare il giusto percorso che ci conduce a trovare una professione soddisfacente.

C’è un libro che si intitola “L’alleanza” che prova a dare un suggerimento con una tecnica che vi invitiamo ad utilizzare. Il suggerimento è quello di scrivere i nomi di 3 persone che ammiriamo: non è necessario che siano strettamente legate al nostro settore (anzi!); possiamo spaziare da personaggi storici a quelli di fantasia. Trovati i nostri “fari” elenchiamo accanto ad ogni nome le tre qualità che ammiriamo di più in ciascuno doi loro. Infine classificate le qualità in ordine di importanza: dalla più importante, alla meno significativa. Così facendo avremo una lista di valori personali da poter confrontare con quelli del nostro proprio piano di crescita (non ne avete uno? male! Dovreste pensare e immaginarvi chi e che cosa vorrete diventare da grandi). È un esercizio utile tanto per chi è appena uscito o sta uscendo da un percorso formativo, quanto per i professionisti già affermati (che potrebbero confrontare la loro scala di qualità con quella dell’azienda). Potrebbe essere un piccolo esercizio per la pausa delle feste natalizie.

PS: il 22 (martedì pomeriggio) ci facciamo gli auguri e facciamo una piccola festa: vieni? Ne saremmo contenti!

Comunicare bene per vivere meglio

Chi ben comunica è a metà dell’opera. Se qualcuno voi, leggendo velocemente, ha letto “comincia” anziché “comunica” (tornate a vedere) ha fatto un errore ma ci ha anche dato l’opportunità di parlare di quanto e come comunichiamo. Questo incidente è soltanto una delle caratteristiche della comunicazione: chi legge tende, involontariamente, ad economizzare il più possibile. Il nostro cervello associa immediatamente le prime lettere ad eventuali parole già memorizzate in modo da restituire più velocemente il risultato. Come viene dimostrato da quel giochino nel quale riusciamo a leggere un testo anche se tutte le parole sono scritte male (provate qui). Ed una cosa analoga avviene con i concetti: avete presente la frase “non si ha mai una seconda occasione per fare la prima buona impressione“? Il concetto è lo stesso.

Questo tipo di “incomprensione” se stupisce e diverte chi legge, dovrebbe invece in qualche modo porre delle domande a chi scrive o, più in generale, comunica: quindi tutti noi ogni qualvolta scriviamo o comunichiamo qualcosa, per esempio quando scriviamo un cv, una lettera di presentazione, quando ci presentiamo ad un colloquio o robe simili. Siamo proprio sicuri che i contenuti che vogliamo trasmettere arriveranno integri e ben compresi? Completamente tranquilli che questo accada forse non lo possiamo mai essere. Ma una cosa la possiamo fare: mettere a punto una strategia comunicativa efficace che, come un meccanismo ben rodato, lasci pochissimo o nessun spazio alle incomprensioni, ai malintesi, agli errori di valutazione. Vi ricordate la storiella di Ulisse che incontra Polifemo? Il ciclope accecato gridava che “Nessuno” lo aveva colpito e così l’astuto Ulisse se la poté scampare agevolmente: astuto ma anche grande stratega Ulisse, considerato che tutta la scena se l’era immaginata ben prima per poter avere la meglio. Chiaramente il senso della storia non è che è meglio dare un nome falso (ma dai?). Quello che ci pare interessante è che quando comunichiamo, in particolare in ambito professionale, dovremmo armarci di un po’ dell’astuzia di Ulisse.

Quale astuzia potremmo adottare da parte nostra? Quali scelte possono essere lungimiranti? Quale può essere una strategia efficace? Un libro molto interessante che si intitola “Ruba come un artista” propone un invito più che esplicito a fare quello che già altri suggeriscono da tempo: copiare! In realtà il percorso è un po’ diverso: copiare, RIELABORARE, incollare. La parte centrale, la rielaborazione, è quella più importante perché è il momento in cui riusciamo a caratterizzarci, ad essere originali, a mettere noi stessi in quello che stiamo facendo. Questo, anche nel mondo della comunicazione, è essenziale. Quali sono gli elementi di un buon “furto” o, come piace chiamarla a noi, di una buona rielaborazione? Il libro di ne cita diversi, alcuni che ci sembrano fondamentali: lo studio (per copiare bene dobbiamo prima osservare ed analizzare profondamente), la capacità di trasformare (non è una mera traslazione ma una ispirazione profonda), la capacità di mescolare (più sono i modelli che seguiamo più saremo in grado di creare qualcosa di originale ed unico).

Possiamo scegliere un modello che è un mito (come Ulisse) oppure qualcuno che realizza ciò che ci piace meglio di noi: l’importante è che ci ricordiamo che niente è originale così come tutto può esserlo. Dipende da quanta parte di noi stessi decidiamo di mettere in quello che comunichiamo, in quello che creiamo.

Quello che i social media non dicono

I social network servono a trovare lavoro? Se sì, quali piattaforme? E con quali risultati? Immaginiamo che le risposte a queste tre domande possano essere diverse in base alle esperienze avute nei primi contatti con il mondo del lavoro o con quello dei social network. Proviamo a rispondere anche noi. Si può trovare lavoro con un social media? La risposta è senz’altro affermativa. Ma, chiaramente, non è uno strumento diretto di assunzione. Avere un profilo su un social network significa esporsi, presentarsi, rendere pubblica una parte della nostra vita. Questo vale anche se settiamo in maniera restrittiva e vincolata i parametri della privacy. Il motivo è semplice: supponiamo che abbiate deciso di utilizzare Facebook solo per i vostri amici e al contempo siete in una fase della vostra vita in cui state cercando lavoro; come fate ad essere sicuri che nessuno dei vostri contatti intimi e stretti non possa essere il punto di collegamento con una opportunità di lavoro? Non potete esserlo ed è per questo che il solo fatto di iscriversi ad un social network è già un primo, piccolo, passo della vostra presentazione professionale.

Quali piattaforme di social networking sono adatte per la ricerca? Al momento, in Italia, c’è una piattaforma che più di altre è dedicata ai contatti professionali, Linkedin. Ma questo non vuol dire che possiamo e dobbiamo utilizzare solo quella quando siamo alla ricerca di opportunità professionali. Come detto poco sopra anche un social network generalista come Facebook può essere una importante vetrina per le nostre competenze. Quello che dobbiamo fare è imparare a considerare la nostra presenza on line anche in termini di visibilità, promozione di noi stessi, reputazione, affidabilità e considerazione da parte di un pubblico selezionato. Per questo motivo i social non possono, a nostro modo di vedere, soltanto essere un posto per il “cazzeggio”. Perlomeno abbiamo visto che utilizzarli anche per comunicare temi professionali può essere importante così come trascurare questo aspetto può essere dannoso e controproducente.

Questo significa (terza domanda) che i risultati possono essere buoni ma anche irrimediabilmente cattivi? In un articolo di Wired comparso qualche tempo fa veniva riportata l’ultima ricerca di Adecco insieme all’università Cattolica di Milano battezzata Work trends study. La sostanza? Il 35% dei recruiter (selezioantori) intervistati per il mercato italiano, circa 143, ha ammesso “di aver escluso potenziali candidati dalla selezione in seguito alla pubblicazione di contenuti o foto improprie sui profili social”. Capito? Nell’articolo, per essere chiari, si ribadisce anche che  “la web reputationnon è un giochino per fissati del web né un campo riservato ai brand o a una manciata di personaggi popolari: è l’altro lato della nostra presenza pubblica. Che potrebbe anche riservarci sgraditissime sorprese. Anzi, neanche quelle visto che non sapremo mai perché quella e-mail o quella telefonata non sono  arrivate“.

Per concludere, il nostro consiglio è abbastanza semplice. Attivate un profilo su di un social network, studiatene funzionalità e impostazioni nella maniera più precisa possibile, datevi una strategia per il suo utilizzo e, ogni volta che pubblicate qualcosa pensate: chi potrebbe leggere quello che sto scrivendo e come potrebbe interpretarlo?

Mi laureo: sì e poi?

Questo articolo potrebbe avere come sottotitolo: l’incubo de “ l’esperienza”. È un problema comune a una bella fetta di giovani appena uscita dagli atenei: la disoccupazione post-laurea, con il conseguente infrangersi delle speranze nutrite da anni di sacrifici trascorsi nella convinzione che uno “studio matto e disperatissimo “ e degli ottimi risultati possano aprire con facilità le porte sul mondo del lavoro. Però è ormai evidente che ciò è vero solo in parte, e che la delusione in cui incappano tanti giovani ha una motivazione molto semplice, cioè la mancata duttilità, diretta conseguenza di un termine ormai temuto e detestato: esperienza. In parole povere, sembra che un datore di lavoro spesso non sappia cosa farsene di un giovane super qualificato grazie agli studi ma privo di quella conoscenza pratica che gli permetta di saper spaziare e di far fronte a tutte le situazioni, ben diverse da quelle dello studente, in cui capita di incappare durante la carriera lavorativa.

I dati raccolti durante l’indagine dell’Eurobarometro sono chiari: quando un’impresa si trova di fronte alla decisione di assumere, guarda soprattutto a quelli che hanno già un po’ di esperienza, piuttosto che a quelli in arrivo da atenei “doc” ma che si sono dedicati esclusivamente allo studio.

Vi riportiamo, come è già stato fatto dall’editoriale sul lavoro del sito “Repubblica” (miojob.repubblica.it), le risposte dei manager di 7 mila imprese europee alla domanda: “Quanto è d’accordo con la seguente affermazione: l’esperienza lavorativa pregressa è un requisito cruciale per le nuove assunzioni

tabella torta

E se credete che questo sia un problema tutto nostro, sappiate che l’Italia non è nemmeno tra i primi Paesi per i quali il famigerato fattore “esperienza” è fondamentale: prima arrivano Germania, Regno Unito e Francia (sempre secondo i dati dell’Eurobarometro).

Cosa possiamo consigliarvi noi? Di non accantonare il desiderio di conoscere il mondo anche quando sembra che la vita universitaria sia l’unica possibile (e sappiamo quanto possa riempire i pensieri e le giornate!), di non pensare che studiare basti e di mantenere sempre viva la curiosità e la sete di nuove esperienze, sia che si tratti di stage, che  di soggiorni all’estero che di lavori occasionali o volontariato. Tutto contribuirà a costruire la vostra identità non solo professionale ma anche di persone in possesso delle skill necessarie a “farsi scegliere” dai datori di lavoro (la sicurezza di sé, la capacità di comunicare, l’adattabilità, la creatività, lo spirito d’iniziativa e l’intraprendenza sono doti che possono fare la differenza in sede di selezione) e non solo! Come disse Oscar Wilde: “Nulla di ciò che vale la pena conoscere può essere insegnato”, quindi perché non iniziare venendo a trovarci per scoprire tutte le opportunità di lavoro, formazione ed esperienza che il mondo offre?

Non finire nel cestino!

Diamo spesso consigli su come redigere il proprio curriculum vitae e qualche volta assistiamo le persone nella sua stesura. Per quante volte lo possiamo aver detto, ci accorgiamo però che c’è sempre qualcuno che ha ancora bisogno di qualche suggerimento. Così come ci sono delle domande sulla sua compilazione che sono intramontabili (degli evergreen): la foto ci va? Metto anche le esperienze di lavoro nero? Devo mettere il voto? Anche se è basso? In altre parole c’è sempre chi è alla prima volta davanti al foglio bianco su cui scrivere le proprie competenze (cercando di scriverle nel modo più attraente possibile).

Le parole d’ordine per quello che riguarda il cv sono due: attenzione ai dettagli e scrivere cose interessanti. L’attenzione ai dettagli è fondamentale perché basta poco per finire nel cestino: chi legge il vostro cv, che voi avete avuto in gestazione per tanto tempo con tanti tormenti, gli dedica al massimo un minuto, 30 secondi in una buona maggioranza dei casi. Significa che anche un piccolo errore di ortografia rischia di essere preponderante su tutto il resto se in quel breve lasso di tempo dedicato alla lettura è la cosa che salta agli occhi. Un apostrofo di troppo, un congiuntivo scambiato per un condizionale e la vostra candidatura fa una brutta fine. Direte voi: ma non sono errori sostanziali (soprattutto se non mi candido come prof di italiano). Beh, però ascoltate bene: non siete voi a decidere e, soprattutto, una valutazione del candidato non è mai fatta solo sulle sue competenze tecniche.

A proposito: i migliori cv sono quelli da cui è possibile avere un’idea della personalità della persona che lo ha scritto. Per questo motivo è necessario raccontare anche le proprie esperienze diverse dalle singole mansioni lavorative; parlare di un hobby o di una passione a cui si dedicano tempo ed energie aiuta a far capire di che pasta siete fatti. Non basta dichiarare di essere “buoni comunicatori” o “affidabili organizzatori” se poi queste affermazioni non sono supportate da contesti e momenti in cui le avete messe alla prova. Documentare un cv significa raccontare ciò che abbiamo fatto e realizzato più che quello che siamo.

Da ultimo in questo post una nota sul modello di CV da utilizzare. Scordatevi, per favore, il curriculum vitae europeo: lo possiamo vedere come un indice delle cose da inserire in un cv, ma non di più. Il cv europeo è più che altro il parto di un apparato burocratico e amministrativo fatto nel tentativo di unificare e uniformare i lavoratori di tutta Europa. Peccato che nel mercato del lavoro il principio sarebbe quello di differenziarsi per farsi riconoscere. E se non credete a noi sentite qua: “ho sempre ritenuto che il CV europeo sia l’antitesi di quello efficace perché non è chiaro, è troppo lungo e ripetitivo. È una gabbia poco flessibile che costringe tutti i candidati a parlare di sé allo stesso modo. E tutti alla fine sembrano usciti dallo stesso stampo. Il curriculum europeo ha il ruolo opposto a quello che dovrebbe svolgere un CV, cioè facilitare la comprensione a prima vista delle competenze di un candidato da parte di una persona che va di fretta e che ha altri centinaia di curricula da leggere.” Parola di Michèle Favorite, esperta alla John Cabot University.

A proposito: la John Cabot University sarà nostra ospite il prossimo 4 dicembre, prendete nota (e prossimamente nella nostra pagina eventi tutti i dettagli)

Il tuo lavoro è sicuro?

Già in altre occasioni abbiamo parlato di come e quanto le tecnologie possono aver modificato la nostra vita lavorativa. Non si tratta solo di avere oggi la possibilità di utilizzare il computer per scrivere e trattare documenti che ci riguardano in maniera più snella e veloce.  L’avvento dell’ICT (information and communication technology) nella nostra vita quotidiana ha cambiato radicalmente e per sempre non solo le nostre abitudini ma anche il nostro modo di pensare. Molto probabilmente, per esempio, molti di noi farebbero fatica a immaginare di vivere senza internet (alcuni, forse, farebbero fatica anche a rimanere senza per un giorno). Non si tratta di un vizio o di una pessima abitudine ma semplicemente di un mondo che è cambiato anche epr cose molto operative e utili: comprare un viaggio, fare un’operazione bancaria, trasmettere un documento di lavoro, informarsi per fare qualche esempio generico.

In alcuni casi, come nel settore del lavoro, internet e l’automazione offerta dai computer ha creato qualche paura. La domanda o, meglio, l’istanza più frequente in tal senso è: l’informatica di ruba o ci toglie il lavoro? Vengono alla mente le catene di montaggio (l’industria automobilistica Tesla non ha operai in catena) oppure le spedizioni delle lettere (mail e posta certificata stanno “mangiando” terreno ai portalettere). E il vostro lavoro, attuale o prossimo,  è sicuro? Oppure siete tra le figure che verranno messe a repentaglio dalle tecnologie?

La domanda corretta però è un’altra: quanto utilizziamo le tecnologie e quanto ne siamo utilizzati? Perché la paura, come sempre accade, è spesso figlia dell’ignoranza e della disinformazione. Così, anche su questo versante, conoscere aiuta a prevenire. Si può partire anche da piccole cose che sono già un segnale di quanto e come siamo nel giusto mood con la tecnologia. Per esempio, tra di voi chi sta cercando lavoro e utilizza i social network per promuovere le proprie competenze? Chi ha un profilo Linkedin aggiornato’ Chi invece non sa nemmeno che cosa sia Linkedin? Quanto conoscete le opportunità offerte dalle nuove tecnologie? Se impariamo ad utilizzare questi semplici strumenti significa che stiamo già facendo un passo nella direzione della scoperta anziché in quella chiusura al cambiamento.

Se volete una risposta alla domanda del titolo “il tuo lavoro è sicuro?” potete anche fare la prova utilizzando questo simpatico strumento messo a disposizione dalla BBC (riferito al mercato inglese). Chiaramente è solo un test anche se corredato da dati e statistiche. Se invece volete curarvi della prevenzione della vostra carriera professionale proviamo a darvi un consiglio: a essere messi in discussione saranno i lavori ripetitivi per i quali il contributo umano è scarso o nullo. Basta quindi dedicarsi a una professione per la quale non è richiesta solo routine e automatismi ma anche un po’ di creatività, intelligenza, spirito di iniziativa. Tutte cose che si possono imparare, studiando 🙂