Ora che sai tutto di me, dimenticami!

dimenticamiC’è una questione legata al nostro modo di vivere nell’era digitale: la questione si chiama privacy. Senza che ce ne accorgiamo (forse) stiamo mano a mano, con il passare del tempo, regalando pezzetti della nostra vita e importanti informazioni su di noi ad aziende più o meno grandi. La leva con la quale siamo così disponibili a concedere informazioni che ci riguardano sono servizi che noi possiamo utilizzare; solitamente sono servizi gratuiti che un tempo nemmeno ci saremmo immaginati che qualcuno potesse concederci. Nell’era digitale a spiarci o a cercare di fare soldi con le nostre informazioni sono anche le smart TV, o le automobili futuristiche; in futuro ogni dispositivo avrà infatti la capacità di ascoltare le nostre conversazioni e fare ricerca dati in tempo reale. La privacy, che un tempo era un diritto, ora non è più nemmeno una buona condotta.

Ma che cos’è la privacy e a che cosa ci serve? La definizione che riteniamo maggiormente descrittiva è quella che deriva un saggio molto studiato scritto da Warren e Brandeis per la Harvard Law Review nel 1890. Il saggio si concentrava sui difetti dei media di allora (pieni di gossip, pettegolezzi e “fotografie di persone comuni pubblicate senza autorizzazione”) e cercava di porre rimedio a quei problemi definendo la privacy “il diritto ad essere lasciati in pace”. Praticamente l’esatto contrario di una normale condotta odierna: grazie (o a causa) dei social media praticamente oggi (quasi) tutti noi abbiamo una foto che ci ritrae in un momento personale (non necessariamente intimo) e che può essere visibile a persone che nemmeno consociamo (anche se abbiamo settato in maniera restrittiva le nostre impostazioni sulla privacy, appunto). La differenza oggi è che invece di volere essere “lasciati in pace”, oggi vogliamo sentirci parte di una comunità. I nostri dati non vengono utilizzati soltanto e banalmente per conoscere delle cose su di noi e utilizzarle nel momento più opportuno. In maniera più pervasiva, contorta e decisamente complessa il set di informazioni di ciascun individuo che utilizza strumenti digitali è alla base di un intero business, di una grande fetta dell’economia.

Il fatto è che la privacy, come l’ingrediente segreto di una ricetta di successo, è una cosa che va dosata con una certa maestria e nel modo migliore per avere il giusto mix di benefici e rispetto personale. Così come essere molto flessibili e dimenticarsi della privacy può avere effetti eccessivamente invasivi sulla nostra vita, allo stesso modo c’è da considerare che dando eccessiva importanza alla privacy, la società finisce per tendere verso l’estremo della segretezza, cosa che non porta vantaggio a nessuno. E, soprattutto, è un fatto storico che una società poco aperta si sviluppa di meno e peggio. Facciamo un esempio: la raccolta dati relativa al tema della salute può servire a raggiungere grandi risultati in termini di ricerca e possibilità di guarigione e prevenzione. Ora la domanda è: stiamo andando verso un’epoca nella quale la privacy non avrà più alcuna importanza come è accaduto per alcune norme comportamentali del MedioEvo che oggi risultano impraticabili? In un futuro magari non troppo lontano ma nemmeno dietro l’angolo potrebbe essere così.

Ma c’è anche chi sostiene il contrario e si fa sentire. “Una recente decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che alcuni utenti possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere risultati relativi a query che includono il loro nome, qualora tali risultati siano inadeguati, irrilevanti o non più rilevanti, o eccessivi in relazione agli scopi per cui sono stati pubblicati.” Recita così un documento di Google (forse l’azienda che ha il possesso del più alto contenuto di informazioni al mondo) messo on line qualche tempo fa. E da lì le richieste sono partite: un flusso anomalo di istanze, quasi sette al minuto, che ha avuto inizio il giorno in cui Google ha messo in rete il modulo corrispondente. È possibile ipotizzare che molti utenti, per interesse reale o per semplice curiosità, abbiano cominciato a “googlare” il proprio nome alla ricerca di qualsiasi link o contenuto che li riguardasse e che, stando sempre ai numeri diffusi dalla società, qualcuno di loro abbia ritenuto necessario compilare il modulo. Più di qualcuno in effetti, perché soltanto il primo giorno il form è stato compilato da 12mila persone.

Anche se la cosa più facile da dire è che siamo dalla parte della privacy, in realtà poi se il tema non è portato sotto la nostra attenzione siamo più che disponibili a cedere pezzi importanti di informazioni che ci riguardano, senza nemmeno accorgerci (per esempio semplicemente utilizzando in maniera banale e quotidiana uno smartphone). Sarebbe però importante avere sempre la consapevolezza di quello che stiamo facendo e di quanto stiamo pagando (in termini di dati) quello che otteniamo.

Insegnamenti dal passato

insegnamenti dal passatoAvete mai avuto voglia di “perle di saggezza”‘ Qualche volta capita, no? Per esempio quando ci capita qualcosa che non capiamo oppure quando ci siamo sentiti stupidi davanti a qualche situazione. Ecco oggi, grazie anche all’articolo comparso sul blog di Luca Conti, proviamo distribuire qualche consiglio (insegnamento?) che proviene dal passato. Ad essere precisi, da un passato remoto. Si tratta di alcuni passaggi tratti da un libro che racchiude i pensieri di Marco Aurelio, imperatore, filosofo e scrittore romano vissuto attorno al 100 dopo Cristo.

Potrà sembrare paradossale ma leggendo alcuni passi ci sono cose che possono essere utili anche nella nostra quotidianità nonostante siano stati scritti circa 2000 anni fa. Facciamo qualche esempio. Vi capita mai di arrabbiarvi per il comportamento scorretto, seppur prevedibile, di qualcuno? Ebbene Marco Aurelio scriveva: “Pretendere che il malvagio non sbagli è come volere che l’albero del fico non produca lattice nei suoi frutti, che i bambini non piangano, che il cavallo non nitrisca, e così per tutto ciò che è inevitabile. Che altro dovrebbe fare chi è malvagio per sua natura? Se sei bravo, curagli tu questo difetto“.

Avete sempre successo nelle vostre imprese? Quando qualcosa non vi riesce vi arrabbiate e perdete l’autocontrollo? “Quando non riesci a portare a termine qualcosa di buono, invece di arrabbiarti, mettici un po’ più d’impegno. E se pensi che l’impedimento sia più forte di te, non angustiarti, allora, dato che il tuo fallimento non dipende da te. Quando sei turbato per una qualche causa esterna in realtà non è questa che ti affligge, è il giudizio che formuli al riguardo, e il giudizio puoi cancellarlo istantaneamente.” Ed ancora: “Se la cosa dipende da te, perché ti comporti così? E se dipende da altri, con chi pensi di prendertela? Con gli atomi? Con gli dèi? Sarebbe una follia. Non devi prendertela con nessuno. Se puoi, correggi chi ha commesso l’errore, se no, correggi l’errore, se non puoi fare nemmeno questo con chi te la pigli? Ogni nostro atto deve avere un motivo. 

Quanti di voi sono preoccupati per il proprio futuro? Quanti di voi (noi) pensano che avrebbero voluto qualcosa di più e di meglio, quanti hanno rimpianti? Bene, ricordatevi che “la felicità della vita umana dipende da pochissime cose, e se, per esempio, hai perso la speranza di diventare un filosofo o uno scienziato, hai sempre la possibilità di essere una persona libera, modesta, socievole e rispettosa“.

Quando si dice la saggezza antica 🙂

Nella rete dei contratti

contrattiDimmi che contratto hai e ti dirò chi sei! Questo è un modo di dire che possiamo utilizzare per raccontare in qualche maniera la complessità e la varietà di contratti di lavoro che ci sono nel nostro sistema di regole. Quanti contratti di lavoro ci sono e come sono utilizzati? Premesso che una risposta totalmente esaustiva è difficile da dare in un post di un blog, proviamo comunque a tratteggiare una panoramica che speriamo possa essere utile ad orientarsi meglio.

Rispondere alla domanda “quanti sono i contratti” è relativamente facile. A questa pagina web c’è un elenco di tutti i contratti: sono una decina anche se molte delle forme illustrate possono avere variabili diverse. Le variabili principali che distinguono i contratti sono due: il tempo e la dipendenza. Ci sono contratti che hanno una scadenza temporale e quelli che non ce l’hanno e poi ci sono i contratti che prevedono una subordinazione ad un datore lavoro ed altri invece che configurano forme di lavoro autonomo. Le forme contrattuali che già molti di voi conoscono sono: la somministrazione di lavoro nel quale un’agenzia mette a disposizione il suo personale in base alle esigenze dell’impresa; il lavoro a chiamata che permette al datore di lavoro di chiamare il prestatore di lavoro all’occorrenza (ma può essere stipulato solo con soggetti di età inferiore a 24 anni, oppure, di età superiore a 55 anni); le collaborazioni coordinate continuative (co.co.co., che non durano più di 30 giornate nel corso dell’anno solare e comunque retribuite sotto i 5.000 euro annui)  e le co.co.pro. possibili solo se subordinate all’esistenza di un progetto. Il contratto a progetto non prevede un orario rigido o un monte ore da raggiungere, ma solo il completamento del progetto entro i temi indicati. Dal 2016, in base alle novità introdotte dal Jobs Act, le collaborazioni saranno possibili solo in settori coperti da un accordo sindacale; il  lavoro accessorio che è quello retribuito dal committente con dei voucher (o buoni lavoro), che includono i versamenti minimi assicurativi e previdenziali. Le attività lavorative retribuite con i voucher non possono superare i 5.000 euro totale annui (il Jobs Act alzerà probabilmente questo limite a 7.000 euro), e i 2.000 euro per ogni committente.

E poi arriviamo al tanto contrastato contratto a tempo indeterminato. Con il “Jobs act” quando parliamo di contratto a tutele crescenti in realtà non stiamo parlando di un nuovo contratto di lavoro: è il nuovo modo con il quale funzionerà il contratto a tempo indeterminato. Per questo se vi capitasse di firmarlo trovereste sempre la stessa denominazione, non quella che si legge sui giornali.
La novità è che dall’entrata in vigore delle nuove regole chi verrà assunto con questo tipo di contratto non godrà più delle tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In poche parole se un lavoratore verrà licenziato ingiustamente per motivi discriminatori o disciplinari (nel caso in cui il fatto contestato non sussista) potrà essere reintegrato e riottenere il proprio posto di lavoro; negli altri casi di licenziamento illegittimo perderà il proprio posto ma avrà diritto a un risarcimento crescente a seconda dei mesi di lavoro effettuati presso quel datore di lavoro.

L’aspetto critico di queste novità è che si creerà un sistema duale in cui ci sono nello stesso posto di lavoro persone che hanno le tutele dell’articolo 18 e i nuovi assunti che non le hanno. L’altro aspetto importante legato al contratto a tempo indeterminato è che per quest’anno le aziende che lo utilizzeranno avranno una importante riduzione delle tasse (fino a 8.060 euro all’anno) e questo dovrebbe aumentare il suo utilizzo. C’è però la probabilità che le imprese utilizzeranno questo sgravio fiscale per assumere lavoratori con esperienza e già “pronti all’uso”, e questo non aiuterebbe soprattutto i giovani.

Fiocchetto Lilla

coverSe passate all’Informagiovani, così come in tanti negozi del centro, troverete da qualche parte appeso un fiocchetto lilla: è il simbolo di una iniziativa alla quale abbiamo accettato volentieri di partecipare. E qui di seguito vi spieghiamo la storia ed il perché di questo fiocchetto.

Alcuni anni fa i genitori di Giulia hanno creato l’associazione “Mi Nutro di Vita” per ricordarla e per sostenere tutte le persone che soffrono di disturbi alimentari e le loro famiglie ed hanno voluto che il 15 marzo, la giornata del FIOCCHETTO LILLA, diventasse un appuntamento nelle agende di tutti gli italiani, un modo per accendere i riflettori su una malattia di cui si parla poco perché fa un po’ paura.

È importante sensibilizzare le persone sul tema del disturbo alimentare, perché questa malattia si sta allargando a macchia d’olio e l’età di chi ne soffre si sta abbassando in modo preoccupante.
La prevenzione e l’informazione sono le uniche armi che abbiamo per combatterla. Ma non basta l’impegno delle Associazioni dei genitori oppure il lavoro di strutture come l’Ospedale SALESI o di Associazioni come il Centro HETA e la FANPIA di Ancona che offrono un importante sostegno (psicologico e nutrizionale) e strutturano progetti di intervento specifici per le diverse tipologie di problema.

È fondamentale il coinvolgimento di tutti a sostegno dei genitori dei ragazzi e delle ragazze che soffrono di questi disturbi. Questi genitori hanno potuto illustrare le loro difficoltà nell’affrontare questa malattia, difficoltà economiche perché bisogna andare in altre regioni per trovare dei centri altamente specializzati, difficoltà strutturali perché non esiste una rete di operatori che lavorano in sinergia, ma solo tanta volontà associativa. La giornata nazionale del FIOCCHETTO LILLA sarà caratterizzata da tanti eventi organizzati in tutta Italia per condividere questo problema, per dire che si può vincere contro questa malattia, che conoscere il disturbo alimentare vuol dire riconoscerne i sintomi ed essere quindi in grado di combattere e sconfiggere quella che alcuni malati definiscono “la bestia”.

Ecco perché anche Ancona si tingerà di Lilla il 13, il 14 ed il 15 marzo con delle iniziative promosse dal Centro HETA e dall’Associazione FANPIA in collaborazione con la Fondazione SALESI e Fondazione OSPEDALI RIUNITI che coinvolgeranno le vie ed i negozi del centro e di Viale della Vittoria. La giornata è patrocinata dal Comune di Ancona ed è realizzata con la collaborazione fattiva di molte associazioni, imprese, negozi, istituzioni e del nostro Informagiovani. In particolare verrà realizzata la campagna di sensibilizzazione “IO SONO GIULIA”, per dire NO ai disturbi alimentari, una cena solidale all’Osteria della Piazza in collaborazione con il Rotary Club Ancona 25-35. Noi vi aspettiamo per l’incontro dibattito sul tema dei disturbi del comportamento alimentare che ci sarà domani pomeriggio, sabato 14, a partire dalle 17. Ma alle 16 ci troviamo tutti in piazza Roma, sopra le nostre teste, per far vedere che ci siamo con un flash mob organizzato dalle associazioni promotrici.

Il 13, 14 e 15 marzo essere tutti uniti nel dire NO ai Disturbi Alimentari significa partecipare alla Giornata del Fiocchetto Lilla e scendere in piazza per condividere e per lottare insieme.

Personal branding: in English please

cover_BuildyourbrandVenerdì prossimo, dalle 17 in poi torneremo a parlare di personal branding. E lo faremo in un modo divertente e coinvolgente grazie all’aiuto di The Victoria Company, scuola di lingua con la quale stiamo collaborando per dare a tutti voi la possibilità di sperimentare e di esercitare non soltanto la lingua inglese ma anche una serie di altre competenze ed abilità.

Innanzitutto: che cosa è il personal branding? Dunque a dir la verità ne abbiamo già parlato diverso tempo fa, in questo post. Ma forse è opportuno svelarne, per chi non li conoscesse, qualche altro particolare. Dei due termini inglesi il primo non ha bisogna nemmeno di traduzione (personal) mentre il secondo, anche se ormai conosciuto, significa “marchio” (nel senso di marca, distintivo di un prodotto). Come tutti i marchi anche quello “personal” ha le sue caratteristiche specifiche e serve ad identificare in maniera quasi univoca il proprietario. Parlare di personal branding significa proprio questo: si tratta della capacità ed abilità di creare attorno alla propria figura personale una riconoscibilità valida. Così come quando vediamo una bottiglietta con la banda rossa e la scritta bianca immaginiamo che contenga la Coca Cola, così dovremmo essere in grado di creare qualcosa che ci riguarda che sia subito riconoscibile e riconducibile alla nostra persona e alla nostra professionalità. Magari senza che sia necessario appiccicarci addosso alcuna etichetta adesiva.

Fino a poco tempo fa questa cosa la chiamavano reputazione ed in parte il personal branding è anche questo. Però il concetto che sta dietro è più ampio: mentre la reputazione è qualcosa che gli altri raccontano di noi, quando parliamo di brand dovremmo essere in grado anche di governare e gestire il nostro marchio: scegliere noi le qualità da mettere in evidenza, decidere chi sono i destinatari della nostra proposta professionale, avere la possibilità di promuoverci anche in contesti in cui non c’è nessuno che ci conosce e che può parlare (si spera bene) di noi e di quello che facciamo.

Come si costruisce un brand che ci identifica professionalmente? Innanzitutto lavorando sulla qualità e validità delle nostre competenze. L’idraulico con il miglior personal brand è quello che chiamiamo e consigliamo agli amici senza dover far ricerche nell’elenco o su Google. Ma è anche quello che quando cerchiamo su Google esce tra i primi risultati con ottime recensioni. Sì, perché il nostro brand lo possiamo e dobbiamo costruire su due versanti: sulla qualità della nostra competenza cercando di far riconoscere qualità e affidabilità a tutti coloro con i quali collaboriamo. Sulla nostra capacità di comunicare quello che sappiamo fare meglio.

E se tutto questo lo vogliamo fare per andare a lavorare all’estero? Nessun problema! Venerdì 13 marzo, dalle 17 alle 19 c’è “Build your brand” un workshop utile e divertente per imparare  a costruire il proprio marchio per un pubblico internazionale. La partecipazione è gratuita ma è necessario iscriversi per prenotare il proprio posto a questo link. Il workshop sarà in lingua inglese ed è per questo necessario averne una conoscenza anche basilare (non preoccupatevi, chi lo terrà riuscirà a farvi capire tutto!). Se siete convinti che l’Italia vi va stretta e avete voglia di proporvi anche all’estero, questo appuntamento fa per voi, anzi: è imperdibile!

i 3 perchè di una lettera di accompagnamento

3 perche letteraBen ritrovati a tutti voi! Il nostro blog è stato fermo una settimana: stiamo facendo degli esprimenti per testare novità che speriamo di potervi presentare presto ;-). Ripartiamo di slancio e questa settimana cominciamo subito a parlare di lavoro e di come fare per trovarlo. Oggi proviamo a darvi qualche consiglio su come scrivere una lettera di accompagnamento. solitamente su questo documento ci si concentra poco (a torto) pensando che siano sufficienti “due righe” per accompagnare il cv scritte in maniera più o meno plausibile. Invece non è così: la lettera di accompagnamento, le “due righe” scritte nel testo della mail in cui allegate il cv sono il primo biglietto da visita che mostrate a chi non  vi conosce. E spesso sono fondamentali. Partiamo dal’inizio. Innanzitutto, mail o lettera che sia, va indirizzata se possibile a qualcuno, meglio se una persona fisica (quindi nome e cognome e non solo il ruolo); e meglio ancora se la persona è quella che si occupa di personale in quell’azienda. Nel rivolgervi al vostro destinatario evitate troppe formalità ma iniziate sempre con un saluto e cercate di essere abbastanza cordiali (un “Gentile…”  può andare bene). Evitate se possibile di iniziare con un generico “Spettabile azienda” o un “voi” generalizzato che non ottiene lo stesso grado di attenzione di un incipit maggiormente personalizzato. Se non avete idea della struttura che la lettera può avere, se non sapete da dove iniziare e come terminare la lettera un format molto semplice che ci sentiamo di consigliarvi è quello che abbiamo chiamato dei “3 perché”. Lo abbiamo chiamato così dal momento che una possibilità che avete di strutturare la lettera di accompagnamento è quella di rispondere idealmente a tre perché. Il primo “perché” riguarda voi stessi: perché siete voi? Quali sono le motivazioni che vi hanno portato ad affrontare un certo percorso formativo o una certa carriera professionale? Provate ad illustrare il vostro profilo professionale non tanto con l’elenco di titoli od esperienze (quelli si vedono sul cv!) ma dando qualche spunto sui motivi per i quali avete scelto una certa direzione professioanle. Il secondo perché riguarda invece la professione per la quale vi candidate: perché volete ricoprire quell’incarico? Cosa vi spinge a pensare che sapreste svolgere bene quel lavoro? Cosa potrebbe essere determinante, tra le vostre competenze, per il buon raggiungimento degli obiettivi che quella professione prevede? Cercate in poche righe di descrivere il valore aggiunto che esprimete e i bisognid ell’azienda che volete e potete soddisfare. Il terzo perché riguarda invece proprio l’azienda/organizzazione destinataria della vostra candidatura: perché avete scritto a quell’azienda? Cosa vi spinge a preferirla ad altri suoi competitor? Cosa ha in comune con voi rispetto a progetti, filosofia aziendale, vision? Dovreste riuscire a mettere in piedi in due righe almeno una buona motivazione in questo senso che possa ottenere due effetti: far capire che non state scrivendo la stessa lettera di presentazione all’ennesima azienda e testimoniare il vostro apprezzamento per il loro lavoro (i complimenti, a patto che siano sinceri, sono sempre apprezzati). Se riuscite a rispondere a ciascuna di  queste domande con un breve paragrafo che non contenga errori grammaticali né di battitura avrete tra le mani una lettera di presentazione che può essere utilizzata con profitto. Non sarà una formalità sbrigata ma una vera e propria presentazione di voi stessi. Rileggetela, integratela e modificatela in modo che possa piacervi. Come dicono bene nel blog Tramplinodilancio la lettera d’accompagnamento è un involucro che permette al vostro cv di arrivare nelle mani di chi vi deve giudicare:  può essere uno stupendo incarto piegato con cura giapponese o un foglio di carta da regalo evidentemente riciclato. A voi la scelta.

Next week

write-out-of-the-boxLa prossima settimana ci sono due eventi diversi, ma ugualmente interessanti, a cui vorremmo invitarvi. Il primo riguarda la conoscenza delle lingue e come e quanto le conoscete. In collaborazione con la scuola di lingue IIK parleremo di certificazione IELTS e soprattutto di come prepararsi per sostenere l’esame. IELTS (International English Language Testing System) è un test appositamente progettato per chi vuole studiare o lavorare in un Paese di lingua inglese. È ufficialmente riconosciuto in Regno Unito, Australia, Canada, Irlanda, Sudafrica, Nuova Zelanda e Stati Uniti come verifica linguistica per l’ammissione ai corsi universitari o per l’immigrazione. In Italia è gestito dal British Council.

Durante il laboratorio, pensato come una sorta di overture su diversi aspetti della certificazione (da chi non sa che cosa sia a chi ha già messo in cantiere la certificazione), avrete la possibilità di conoscere tutti i particolari dell’esame ed anche affrontare un laboratorio pratico per rendervi maggiormente conto di che cosa si tratta. Perché lo facciamo? Innanzitutto perché come abbiamo più volte scritto (e detto praticamente a tutti quelli che entrano qui) secondo noi la conoscenza dell’inglese non è più un requisito aggiuntivo, è essenziale. Anche se non volete lasciare l’Italia, lo sarà sempre di più e non basterà dichiarare una conoscenza sperando che la verifica della stessa sia una cosa affrontabile. Presto i datori di lavoro o chi selezionerà personale richiederà che la vostra conoscenza delle lingue sia certificata: meglio cominciare a prepararsi a questo passo e questa è un’occasione per farlo. Quindi, prenotate fin da adesso il vostro ticket gratuito per martedì 3 marzo alle 17.30 (i posti sono limitati!)

La seconda opportunità che vi offriamo è quella di dedicare un po’ del vostro tempo non ad una abilità tecnica specifica, ma di mettere alla prova e stimolare la vostra capacità di pensare in maniera creativa. Crazylab, il workshop con aperitivo che abbiamo organizzato per il prossimo giovedì 5 marzo dalle 17.30, ha lo scopo di mostrare a tutti, in modo semplice e immediato, alcune tecniche per sviluppare un sistema per pensare fuori dagli schemi. Pensare fuori dagli schemi vuol dire avere la capacità di affrontare ogni evento della vita con “leggerezza” ossia risolvere, magari in modo non convenzionale, ogni problema o situazione per noi nuova o inusuale da affrontare. Attivare un modo di pensare non convenzionale è facile: basta usare parti del cervello che normalmente non si usano per abitudine o per insegnamenti ricevuti da bambini. In un mondo “liquido”, dove le mutazioni sono continue, pensare in modo non convenzionale ci dà la giusta flessibilità per vivere una vita dinamica a ogni età. Il workshop con aperitivo è organizzato in collaborazione con Anna Masturzo e Alessandro Deiana, consulenti e trainer che lavorano da alcuni anni sulle risorse umane nel campo dell’innovazione aziendale
Il loro intento è condividere con tutti alcune semplici tecniche del pensiero creativo, sistemi che possono essere applicati in qualunque situazione, banale o difficile, del lavoro e della vita quotidiana. Anche qui per partecipare basta prenotare il posto a questo indirizzo (sarà richiesto un contributo di 7 euro per l’aperitivo).

Darsi delle occasioni per approfondire, acquisire competenze o semplicemente conoscere cose e persone nuove è forse uno dei regali più grandi che possiamo farci. Vi aspettiamo next week 😉

Il lavoro non è un posto in cui stare

man asleep deskGià ora ed ancora di più nei prossimi anni, ciò che maggiormente conterà non saranno qualifiche e titoli per “stare” in un certo posto di lavoro. Ma, più realisticamente, capacità e competenze espresse durante il lavoro. Le due cose non sono uguali e non ho nemmeno scontato che la seconda sia diretta conseguenza della prima. Vista da un altro punto di vista potremmo dire che l’epoca del posto che dura tutta la vita è finita, ma la nostra impiegabilità ha ancora qualche chance. Che cos’è l’impiegabilità? Non è un concetto nuovo e nemmeno troppo sconosciuto, solo che rappresenta un concetto che fa fatica ad entrare nella nostra cultura e nel nostro modo di vedere e valutare il lavoro.

L’impiegabilità (od occupabilità) la potremmo definire come quell’insieme di competenze e capacità di un lavoratore che che ne fanno un soggetto in grado di soddisfare bisogni ed esigenze di un potenziale datore di lavoro, che lo rendono appetibile, se non addirittura necessario. Questo vuol dire che quell’insieme di capacità e competenze hanno alcune caratteristiche: sono adeguate al mercato, sono utili per risolvere problemi reali delle imprese e delle organizzazioni del mercato, sono aggiornate. E, per finire, non è detto che questo insieme sia fatto sempre dagli stessi elementi (quindi capacità e competenze cambiano con il tempo ed il cambiare del mercato).

Ora capite che in un sistema come quello italiano in cui il lavoro è un posto che si conquista e poi si mantiene per tutta la vita a prescindere, questo concetto di mutevolezza e aggiornamento non sempre suona bene: cambiare ed aggiornarsi significa mettersi in discussione, imparare cose nuove, sviluppare un certo percorso ma anche fare più fatica, impegnarsi maggiormente, superare esami, risolvere problemi, superare difficoltà. Un abella sfida ma forse, per qualcuno, anche una bella scocciatura. Unito a questi aspetti ce ne è anche un altro: in futuro saranno apprezzati non soltanto coloro che avranno nozioni consistenti, ma anche chi saprà mettere a frutto in campo professionale doti come la perspicacia, la creatività, l’empatia. Carl Benedikt Frey che ad Oxford lavora come ricercatore sul tema dell’impatto della tecnologia sul lavoro, afferma che “i lavori che vedranno una crescita costante sono quelli che si basano  in gran parte sull’intelligenza sociale e creativa”. Questa è una buona notizia per due motivi.

Il primo motivo è che queste doti le possiamo acquisire tutti a prescindere dal tipo di studio, percorso formativo che abbiamo intrapreso o dalle esperienze che hanno segnato la nostra professionalità. Il secondo motivo è che il suddetto ricercatore oxfordiano ha anche individuato quelli che ha definito “colli di bottiglia”, ovvero aree e competenze nelle quali la tecnologia fa fatica a raggiungere e stare al passo con il lavoro umano. I colli di bottiglia sono tre: l’intelligenza personale, la creatività e la manipolazione di precisione che le macchine ancora non sanno fare bene. I lavori che richiedono un alto livello di competenze sociali e di creatività sono difficilmente automatizzabili. Per fare un esempio pratico ci spostiamo nel campo della medicina. L’elaborazione di algoritmi sempre più complessi col tempo riesce a diminuire drasticamente il lavoro di diagnosi di un dottore, ma intensifica sempre di più il suo ruolo di dispensatore empatico di cure. Per trovare lavoro, quindi, la strategia non deve essere più quella di cercare e conquistare un posto in cui “sedersi”, ma quella di sviluppare una serie di competenze da distribuire.

#dilloinitaliano

dilloinitalianoQuesta settimana vi lasciamo con un appello e l’invito a sostenere una causa. Non lo abbiamo mai fatto prima ma ci piace cominciare con questa iniziativa. Qualche giorno fa sul blog di Annamaria Testa (che è spesso una nostra fonte preziosa di suggerimenti ed idee) è comparso un appello per la salvaguardia della nostra lingua.

Il punto è che la stiamo trattando male e, come si sa (o dovrebbe sapere), la lingua è come una pianta: se la tratti male piano piano si indebolisce e rischia anche di morire. Il “veleno” per la lingua italiana potrebbe essere l’utilizzo smoderato, inconsulto e inappropriato (o, meglio, sovrabbondante ed esagerato) di termini stranieri, dell’inglese in particolare. Come dice Annamaria Testa “Molti (spesso oscuri) termini inglesi che oggi inutilmente ricorrono nei discorsi della politica e nei messaggi dell’amministrazione pubblica, negli articoli e nei servizi giornalistici, nella comunicazione delle imprese, hanno efficaci corrispondenti italiani. Perché non scegliere quelli? Perché, per esempio, dire “form” quando si può dire modulo, “jobs act” quando si può dire legge sul lavoro, “market share” quando si può dire quota di mercato? Perché dire “fashion” invece di moda, e “show” invece di spettacolo?“.

Il motivo per cui non lo si fa crediamo sia abbastanza banale e quasi stupido: spesso attribuiamo a queste parole straniere una efficacia e una bellezza (“fa figo”) che invece non hanno, o non hanno nella maniera e nella misura in cui noi crediamo. Lo facciamo per due motivi: il primo è che non conosciamo la lingua inglese ed il secondo che non consociamo la lingua italiana a sufficienza. “Molte parole straniere, da computer a tram, da moquette a festival, da kitsch a strudel, non hanno corrispondenti altrettanto semplici, efficaci e diffusi. Privarci di queste parole per un malinteso desiderio di “purezza della lingua” non avrebbe molto senso. 
Ha invece senso che ci sforziamo di non sprecare il patrimonio di cultura, di storia, di bellezza, di idee e di parole che, nella nostra lingua, c’è già. Ovviamente, ciascuno è libero di usare tutte le parole di qualsiasi lingua come meglio crede, con l’unico limite del rispetto e della decenza. Tuttavia, e non per obbligo ma per consapevolezza, parlando italiano potremmo tutti cominciare a interrogarci sulle parole che usiamo“.

Riprendiamo e facciamo nostro quindi l’appello ad un utilizzo più consapevole e corretto della lingua soprattutto da chi la utilizza pubblicamente (noi compresi). La petizione chiede all’Accademia della Crusca di farsi portavoce di questa istanza, che può aver peso e buon esito solo grazie all’appoggio di tutti noi.
Perché è importante che firmiate? Perché la lingua italiana è un bene comune: ci appartiene, ha un valore grande ed è nostro compito averne cura.
Se siete d’accordo potete firmare su Change.org: vi basta un minuto. E poi parlatene e fate girare il testo in rete. Fatelo subito! L’hashtag è #dilloinitaliano

Come e perché aggiornarsi

come aggiornarsiIn un mondo in continua evoluzione non possiamo stare fermi“. Chi lo ha detto? Tante persone e nessuna in particolare. Per il momento lo abbiamo scritto noi qui e vi vogliamo dire il motivo. La realtà che abbiamo attorno si modifica continuamente e, sopratutto negli ultimi anni, sono successe cose che 20 anni fa sarebbero state quantomeno poco credibili: acquistiamo da un pc anziché in un negozio, possiamo viaggiare nel mondo al costo di quello che era un viaggio in Italia, abbiamo in tasca uno strumento in grado di darci indicazioni su tutto quello che dobbiamo fare (girare, cucinare, vestirci, parlare con gli altri, prendere appuntamenti). Abbiamo più occasioni ed opportunità ed anche molto meno tempo; siamo connessi virtualmente con molti amici, ma riusciamo ad incontrarne fisicamente meno. Ci sono, in sostanza, cose buone ed altre meno buone. Ma tra le meno buone forse c’è anche la nostra incapacità di adattarci o, meglio, di vivere il cambiamento con lo spirito giusto.

La mente umana è per natura resistente al cambiamento e all’incertezza che ne deriva: stare all’interno delle nostre abitudini è un comportamento difensivo naturale, ereditato dalle necessità della preistoria. Ma in un mondo dinamico, stare fermi significa andare indietro. Cambiamento può significare diverse cose: smettere una cattiva abitudine, acquisirne una nuova e potenziante. A volte può significare anche cambiare uno dei nostri principi di base. Altre volte, più semplicemente significa acquisire nuove competenze (come epr esempio imparare ad utilizzare la tecnologia, anziché venirne sopraffatti). Cambiamento può e deve significare anche apprendimento, formazione, e quindi miglioramento.

Per questo motivo questo venerdì torneremo a parlare di formazione, ma in un modo diverso. Durante il workshop “E se la formazione fosse facile?” organizzato in collaborazione con Francesco Di Bitonto, proveremo a dare qualche indicazione sulle motivazioni ed i valori di una formazione efficace. Il corso sarà una sorta di vademecum, una traccia, una guida per chi ha voglia di fare qualsiasi corso di formazione, per aiutarlo a scegliere bene a chi dare i propri soldi e il proprio tempo. Parleremo dell’importanza di fare formazione per l’individuo: la crescita personale come fatture di sviluppo per avere vantaggi competitivi nel mondo del lavoro. Cercheremo di spiegare la necessità di investire tempo e denaro per se stessi: la manualità e le competenze tecniche sul campo non sono più sufficienti. Poi ci sarà modo anche di avere indicazioni su come scegliere il corso e il formatore giusti. Chiuderemo con suggerimenti e una discussione tra i partecipanti, in stile networking, per darsi consigli a vicenda.

Crediamo che la formazione sia indispensabile per il benessere lavorativo dell’individuo. Se ne siete convinti anche voi o semplicemente volete saperne qualcosa in più siete invitati al workshop di venerdì 20 febbraio alle 17.30: per partecipare è sufficiente prenotare il proprio posto. Naturalmente è tutto gratuito e voi sarete i benvenuti!

Qualche consiglio non fa mai male

arbre/mainsQuanti di voi dopo l’invio di un curriculum aspettano una risposta che non arriva mai? Nemmeno a dirlo questa è un’esperienza che è toccata a tutti e che, regolarmente, continua a capitare a molti. Per questa cosa essenzialmente ci sono due ordini di spiegazioni: potrebbe essere che la maggior parte delle aziende e dei loro responsabili siano maleducati ed in generale non rispondo a nessuno; oppure potrebbe essere che alcuni nostri curriculum non siano esattamente adeguati o forse non sono nemmeno troppo efficaci. Entrambe le spiegazioni hanno un riscontro nella realtà: in effetti ci sono aziende che ritengono una buona reputazione nei confronti di potenziali candidati un surplus di cui poter fare tranquillamente a meno. Ma ci sono anche casi in cui abbiamo spedito un curriculum senza rileggerlo, con errori grammaticali, importanti omissioni e quant’altro. Con l’aiuto di un simpatico post di scritto da Osvaldo Danzi su Wired proviamo a vedere insieme quali sono gli errori più comuni da evitare.

Innanzitutto i dati anagrafici: controlliamo sempre che siano completi (sì, anche l’età perché nasconderla è un trucco che usano quelli più “grandi” ed ormai tutti lo sanno)) ed evidenziamo quelli essenziali per farci trovare (avete messo i recapiti bene in vista o bisogna cercarli con la lente?). Poi: che lavoro vogliamo fare? Senza tanti giri di parole scriviamo esattamente e per parole chiave limitate e stringenti quello che vogliamo fare, la nostra mansione e il tipo di attività e compiti che siamo in grado di svolgere. In questo vale sempre e su tutto il principio della chiarezza. Con tutta l’esperienza che avete… rischiate di non trovare lavoro! Soprattutto se decidete di raccontarla tutta nel cv. Il curriculum deve essere un documento tendenzialmente breve (due pagine sono un limite insuperabile) anche se esaustivo: per questo è opportuno scegliere che cosa mettere e come metterlo. Scrivere che 15 anni fa avete fatto i gelatai per pagarvi l’università non è forse necessario se nel frattempo avete fatto ben altro. Il criterio che noi suggeriamo in questi casi è quello della scelta coerente: Scrivete e tenete per voi un curriculum “master” con tutte le esperienze fatte nella vostra vita lavorativa: quando si tratterà di fare un invio andate a togliere, soprattutto tra le esperienze più vecchie, quelle che non sono coerenti con il profilo per il quale vi state candidando. Attenzione che per coerenza intendiamo il fatto che l’esperienza svolta vi ha fatto sviluppare competenze utili per quella desiderata (ad esempio aver fatto il cameriere potrebbe essere coerente con un ruolo commerciale).

Infine inviate il curriculum e tracciate le vostre spedizioni (come se foste Amazon): calibratelo di volta in volta rispetto al destinatario, tenete traccia in un appunto o agenda di quando e a chi lo avete mandato. E non fatevi cogliere impreparati: se ricevete una telefonata da qualcuno che ha ricevuto il vostro curriculum evitate nella maniera più assoluta di mostrare che non vi ricordate a chi lo avete inviato. Quel contatto che stabilite è molto importante ed è necessario non fare una brutta impressione già dal primo contatto telefonico. Vi sembra un lavoro faticoso e per il quale serve un minimo di organizzazione? Esatto, è proprio così. E per evitarlo oggi non avete neppure più la scusa del tempo o delle risorse perchè gli strumenti tecnologici a disposizione sono tanti e spesso gratuiti: utilizzateli!

MI illumino di meno (e ragiono di più)

millumino-logo

Anche quest’anno festeggiamo la giornata del risparmio energetico, promossa dalla trasmissione Caterpillar di RadioDue. Perché lo facciamo? C’è ancora bisogno di parlare di risparmio energetico? Anche adesso che, tutto sommato, molti di noi riescono a risparmiare sulla bolletta? Secondo noi ci sono ancora validi motivi per farlo e non sono di economia personale o domestica. Ci sono motivi che riguardano il contesto in cui siamo, le città in cui viviamo, il mondo che ci immaginiamo. Avremmo potuto dire che riguarda il futuro ma c’è il rischio che questa formula ci fa spesso immaginare qualcosa che non ci appartiene, che riguarda ed interessa qualcun altro che non è qui ora. Ed invece il risparmio energetico riguarda noi, qui, adesso. Oltre che di risparmiare il nostro intento dovrebbe essere quello di provare a ragionare su come utilizziamo l’energia di cui disponiamo. Per esempio, seguendo il decalogo proposto per il risparmio energetico, una delle regole recita “utilizzare l’automobile il meno possibile e se necessario condividerla con chi fa lo stesso tragitto”: farlo non significa soltanto risparmiare il carburante ma anche contribuire a diminuire l’inquinamento atmosferico, avere modo di passare del tempo con altre persone, creare e quindi subire meno traffico per le strade. Un semplice gesto come questo non genera soltanto un beneficio economico. E così avviene per tante altre cose.

A noi sembra una cosa utile da far sapere e, soprattutto, da mantenere “viva”. Il nostro piccolo contributo per la giornata di oggi proviamo a darlo anche noi. Oggi saremo impegnati in un’apertura straordinaria dalle 16.30 alle 19.30 durante la quale divulgheremo materiale informativo sul risparmio energetico. A tutti gli studenti universitari che verranno a farci visita regaleremo una lampada a basso consumo (insieme alla University Card). Intanto ad Ancona, dalle 18 alle 19.30, verrà spenta  l’illuminazione del duomo e del palazzo comunale. Alle 18, ci collegheremo con Caterpillar in diretta su RadioDue e festeggeremo con chi vorrà essere con noi la giornata del risparmio energetico con un brindisi a luci soffuse.

Buona giornata del risparmio energetico a tutti voi!

Il lavoro che si trova

il lavoro che si trovaSu circa 950mila annunci di lavoro comparsi on line (ma ci sono ancora annunci che viaggiano solo off line?) più o meno la metà sono annunci che riguardano l’innovazione, l’alta tecnologia: appartengono a settori in cui queste componenti sono il motore dello sviluppo. Quanti candidati sono pronti a rispondere a simili offerte? La risposta a questa domanda è piuttosto deludente, perché il problema è che probabilmente spesso capita che non ci siano profili adeguati.

Fatta la tara degli annunci che riguardano posizioni altisonanti solo a parole, ci sono però una serie di profili che difficilmente si riescono a trovare. Eppure sarebbe semplice: basterebbe prevedere quali sono le professioni più richieste, formare i giovani a questi profili… et voilà, il gioco è fatto, domanda ed offerta si potrebbero incontrare facilmente. Le cose però non stanno così per una serie di motivi. Il primo è che in realtà, per una serie di motivi culturali, le previsioni che non ci piacciono tendiamo a far finta di non vederle. Come quelle annunciate nella ricerca di qualche tempo fa degli studiosi  Frey e Osborne (Il futuro del lavoro: quanto sono sensibili all’innovazione tecnologica le professioni) in cui di profila un futuro in cui alcune professioni saranno destinate a scomparire perché sostituite dall’automazione. Così potrebbe accadere (e, crediamo, accadrà davvero) che chi ha competenze di medio livello, per esempio legate alla catalogazione e alla organizzazione dell’informazione come un assistente di studio legale, o abilità manuali, rischia di trovarsi rapidamente disoccupato.L’anticipazione di questo processo la possiamo vedere anche negli annunci che sono pubblicati oggi: più di un terzo delle posizioni aperte sono rivolte a chi non ha solo una competenza ma riesce a portare un contributo intellettuale per fare innovazione (che è qualcosa in più di saper fare bene una cosa).

Messe così le cose potremmo fare un’amara scoperta: le posizioni che le aziende non riescono a coprire non sono quelle per lavori che gli italiani non vogliono fare (il/la badante) ma quelli che gli italiani non sanno fare (perché non si sono formati appositamente). Oggi quando un giovane è davanti alla scelta del percorso formativo che potrebbe lanciarlo nel mondo del lavoro ha davanti due “istituzioni” ad indicargli la strada. Una è la scuola/università che nella maggior parte dei casi è ancora dell’idea che quelle tecnologiche siano ancora competenze specifiche di un settore (mentre oggi sono assolutamente trasversali). L’altra sono i genitori che, oltre a non essere nativi digitali, spesso non frequentano la rete in maniera assidua, consapevole, competente. Diciamo che, forse, in questa epoca non sono i consiglieri migliori per il proprio futuro. In realtà ci sono percorsi formativi che possono portare a percorsi di carriera davvero interessanti, basta solo provare ad allargare l’orizzonte della ricerca e lo spettro dei consiglieri. Per esempio le cose scritte in questo post le abbiamo lette sull’ultimo numero della rivista Wired che ha messo on line anche un sito dedicato al mondo del lavoro innovativo: all’indirizzo jobs.wired.it ci sono annunci, articoli, informazioni per trovare lavoro ma anche per rendersi conto di quanto e come sta cambiando il mondo del lavoro. Buona navigazione!

A cosa serve studiare

un momento della nostra presentazione all'Università Politecnica delle Marche

un momento della nostra presentazione all’Università Politecnica delle Marche

In questi giorni siamo presenti alle Giornate di orientamento dell’Università Politecnica delle Marche per illustrare alcuni dei nostri servizi. Le giornate, dedicate alle scuole superiori (classi quinte) di tutta le Marche, hanno il titolo di “Progetta il tuo futuro”: si può ancora progettare il proprio futuro partendo dallo studio? In un contesto in cui le competenze stentato a farsi riconoscere ed essere valorizzate ha ancora senso investire nella propria istruzione, nel miglioramento delle proprie competenze e conoscenze, nello sviluppo di una professionalità basata su cultura, nozioni, apprendimento? A cosa serve studiare?

Probabilmente se rispondiamo guardando gli annunci di lavoro o il sentimento comune la risposta che ci viene da dare è: assolutamente no! So no molti i suggerimenti che ci farebbero scoraggiare un investimento nello studio: la cosiddetta fuga dei cervelli, l’esperienza di lavoratori neolaureati sottopagati, quella di giovani con un elevato livello di studio che si arrangiano in mansioni decisamente umili, la platea di giovani che hanno abbandonato percorsi di formazione nei quali non riuscivano a trovare un’utilità. Però esistono anche altri aspetti che vale la pena sottolineare per valutare in maniera ponderata (non necessariamente positiva). Di questi aspetti se ne è occupato anche l’OCSE, l’organismo internazionale per la cooperazione e lo sviluppo. In un suo rapporto sull’istruzione dice che “l’istruzione non solo aiuta gli individui ad avere migliori prestazioni nel mercato del lavoro, ma migliora anche la salute complessiva, promuove la cittadinanza attiva e contiene la violenza“.

Annamaria Testa, nel suo blog, illustra anche gli altri aspetti della validità e la convenienza di investire nello studio. Ne riportiamo alcuni per darvi magari modo di riflettere durante il week end. Il primo è che l’istruzione allunga la vita, e nemmeno di pochissimo: “un uomo istruito che lavora nel terziario ha un’aspettativa di vita di otto anni superiore a quella di un uomo che non ha completato l’educazione secondaria“. Il secondo è che l’istruzione ci rende più consapevoli: riuscire a comprendere fatti e questioni più complesse grazie ad un insieme di mozioni più approfondite ci aiuta anche a renderci meglio conto di quel che ci accade. “Le persone più istruite fanno più volontariato. Si interessano di più di politica. Sviluppano una maggiore fiducia interpersonale (quindi sono più portate ad avere comportamenti cooperativi, a mantenere gli impegni, a valorizzare l’integrità e il sostegno reciproco)“.Maggiore istruzione  vuol dire anche maggiore soddisfazione: vuoi mettere il gusto che si prova ad esprimersi in maniera corretta, a dimostrare di conoscere fatti scientifici o riuscire a citare passi di letteratura classica? Ma al di là di quest piccole soddisfazioni del tutto personali in realtà l’OCSE dichiara che “la differenza di soddisfazione per la propria vita tra persone molto e poco istruite consiste in 18 punti percentuali […] Oltre a garantire redditi mediamente più alti, l’istruzione migliora le capacità cognitive, sociali, relazionali, emozionali: per questo le persone più istruite risultano più soddisfatte anche a prescindere dalla loro condizione economica“.

A noi sembrano tutti buoni motivi per scegliere di studiare. Come abbiamo detto e diremo ai ragazzi che si accingono a scegliere il loro percorso universitario, se ci chiedessero “a cosa serve studiare?”  molto semplicemente potremmo rispondere “ad avere una vita migliore”.

Spazzatura digitale

spazzatura digitaleNel mondo ci sono più di 7 miliardi di persone che vivendo e consumando generano circa 4 miliardi di tonnellate di rifiuti: una massa enorme che crea un enorme problema ambientale. Nel mondo le persone connesse ad internet sono circa 3 miliardi: quanta spazzatura digitale crea questa popolazione virtuale? Dare una risposta precisa forse è impossibile. Ma farsi questa domanda, così come accade per la spazzatura “tradizionale”, forse ci aiuta a prendere coscienza di quanti sono i detriti digitali che ciascuno di noi produce e di come possano influenzare la nostra vita.

Chi di noi frequenta un social network, gestisce un sito web, aggiorna un blog produce testi, immagini e documenti in quantità più o meno costanti ma considerevoli. Quando diventano “spazzatura” web? Per rendercene conto potremmo fare una prova: scorriamo indietro la nostra timeline di Facebook oppure proviamo a guardare a post pubblicati indietro nel tempo sul nostro blog. Che effetto ci fanno? Ci rappresentano ancora? Raccontano qualcosa di noi? Questo esperimento, per così dire, lo ha fatto il noto blogger Luca Conti e ne racconta i risultati (parziali) in questo post che possiamo riassumere con questa sua frase: “ho accumulato nel tempo, in piattaforme diverse, un sacco di materiale che mi rendo conto oggi essere a) per lo più inutilizzabile, vecchio, superato, b) archiviato, taggato, ma non così facile da recuperare, c) depositato in archivi di servizi (quasi) abbandonati da chi li ha creati o d) non utili nel rapporto tempo dedicato / risultato ottenuto.” Chiaramente la produzione di materiale obsoleto è proporzionale all’intensità della nostra attività sul web. La domanda successiva è: come e quanto influisce questo trash nella nostra vita? Ce ne dobbiamo preoccupare?

“Preoccupazione” forse è una parola esagerata. Quella giusta potrebbe essere “attenzione”. Attenzione a quello che pubblichiamo e a come i contenuti si deteriorano nel tempo. Potrebbero esserci cose che abbiamo condiviso nelle quali non ci riconosciamo più oppure che pensiamo essere superate. O, peggio, contenuti che potrebbero risultare poco apprezzati dagli altri, come ad esempio da chi potrebbe darci un lavoro. Anche se molti ancora ne dubitano, è sempre più frequente, per chi si occupa di ricerca e selezione del personale, utilizzare i social media e il web in generale per “indagare” in cerca di conferme sulle competenze dichiarate dai candidati sul curriculum o sulla lettera di presentazione, ma anche in cerca di eventuali “scheletri nell’armadio”, che potrebbero non rendere il candidato in questione così adatto ad un determinato ruolo o ad una certa azienda. Si tratta di allarmismo? Pratiche illecite? Cattiveria di chi seleziona? Probabilmente, a seconda dei casi, le risposte a queste domande potrebbero essere tutte affermative. Ciò non toglie che ciascuno di noi, singolarmente, può decidere come regolarsi. Un’azienda di selezione ha pubblicato una presentazione con i consigli per eliminare la spazzatura digitale. Tra le varie cose che ci stanno scritte c’è una domanda che potrebbe essere utilizzata come un discrimine, un parametro per scegliere cosa pubblicare o non pubblicare per rendere i nostri profili “employer friendly” (piacevoli e accoglienti per chi potrebbe assumerci): (quello che hai pubblicato) lo diresti ad un colloquio?

CV senza vergogna

cv senza vergognaQual è la cosa più strana che avete scritto in un curriculum? Quella più intelligente? E quella più stupida? Probabilmente sono cose che riusciamo a scoprire solo dopo un po’ di tempo, magari rileggendo il nsotro cv dopo un po’ di tempo Oppure perché leggiamo un post come questo in cui ci sono indicazioni di cose strane, intelligenti e stupide da mettere in un cv.

A dircelo è un’analisi fatta dall’Università Ca’ Foscari di Venezia in collaborazione con alcune aziende multinazionali (c’era la Apple, c’erano Toyota, Cameo, H&M, L’Oréal, poi Calzedonia, Luxottica, il gruppo Coin). “I selezionatori sono cattivi, ma i neolaureati che aspirano a un lavoro sanno farsi male da soli. Uno su tre presenta un curriculum vitae, su carta o digitato in una piattaforma aziendale, cronologicamente sballato. Difficile comprendere il percorso scolastico del neolaureato, individuare il momento in cui ha fatto esperienze formative extra: master, stage. Difficile comprendere, pure, se un viaggio all’estero sia il qualificante Erasmus o una gita universitaria“.

Le aziende ed i selezionatori hanno anche indicato quali sono gli errori più comuni (ed anche quelli meno perdonabili). Molti dimenticano di inserire i dati di contatto: la mail, il numero di telefono oltre al luogo di nascita e la residenza. Il 18 per cento dei selezionatori di fronte a queste dimenticanze mette il curriculum nel tritacarte. Alcuni segnalano, ancora, che nel foglio che dovrebbe essere la prima presentazione nel mondo del lavoro, non c’è l’indicazione del diploma, né il voto di laurea. Se fosse una dimenticanza sarebbe già grave, ma spesso questo lascia intendere un’altra cosa: che si preferisce nasconderlo e per un datore di lavoro lo considera un segnale negativo.

Nello spazio “foto” quale mettete? Qui l’indcazione di chi sta dall’altra parte della barricata è chiara. Alcuni candidati, una minoranza però larga e rumorosa, mettono foto inappropriate, anche estive, scattate in spiaggia e al pub. Il selfie, per intenderci. è bandito dal cv. Poi c’è la questione di quanto e cosa scrivere: i candidati peggiori sono prolissi, ridondanti e caotici. Hanno sovrastima di sé e non si capisce se è arroganza o tensione all’automarketing. Se è vero che un utilizzo sensato dei social media spinge molto nella direzione dell’autopromozione, sarebbe anche il caso di utilizzare una certa consapevolezza dei propri mezzi. Quindi, tanto per intenderci, raccontare bene le proprie competenze non significa mentire. Come per le lingue: “fluente” significa essere in grado di parlare in maniera ordinata, corretta e comprensibile una certa lingua (vale anche per l’italiano 🙂 ). La brutta, ma realistica, notizia è che piccole bugie o trucchi di questo genere vengono poi sempre scoperti. E l’effetto dannoso e prolungato: lo verranno a sapere anche altre aziende che misureranno così la nostra credibilità con altri canoni.

La novità al tempo dei social è che metà dei selezionatori va a controllare Facebook, Twitter, soprattutto LinkedIn, ed è tra i post e i commenti che inizia a valutare il candidato. C’è un mito da sfatare, poi. Il modello cronologico, il racconto di sé, è preferito da un terzo rispetto al curriculum Europass, quello preordinato e da completare (“informazioni personali”, “posto per il quale si concorre”). Non è sepolto, insomma. Una buona esposizione indica una conoscenza dell’italiano e una predisposizione al ragionamento. Una veste grafica personalizzata, infine, non solo aiuta la presentazione, ma dimostra che chi si presenta sa utilizzare le tecnologie. Spedire un cv non è una mera operazione di copia&incolla: necessita di un’attenta opera di revisione, analisi, scelta, consapevolezza e arguzia nell’utilizzo di termini, parole, notizie da inserire. Senza esagerare nell’autopromozione ma cercando di essere affascinanti. In altre parole ed in senso buono, mandate un cv senza vergogna,

I giovani non esistono

giovani non esistonoPerchè i ragazzi non si fanno vedere
Sono sfuggenti come le pantere
E quando li cattura una definizione
Il mondo è pronto a una nuova generazione

Questo verso di “Non m’annoio”, canzone di Jovanotti del 1992 (Lorenzo 1992 il titolo dell’album) dovrebbero metterla a memoria tutti coloro che si interessano, in qualche maniera, di giovani. In queste quattro righe c’è tutto il senso, profondo, di un’età della vita che ciascuno di noi affronta con un carico emotivo che poche altre volte poi ricapita nel corso degli anni. I giovani sono da sempre, almeno a parole, al centro dell’attenzione: oggetto spesso di contraddizioni e critiche vengono spesso etichettati con definizioni prese a prestito da storia, letteratura, moda o altro. Quasi sempre poco precise, affatto descrittive, più utili per chi le pronuncia che non per definire una generazione.

Che poi i giovani, forse, nemmeno esistono. Sicuramente non sempre sono esistiti. Per certi versi sono una invenzione: non è stata la mente di uno scienziato o il colpo di qualche genio ad inventare i giovani. A creare questa categoria (la possiamo chiamare davvero così?) è stata l’evoluzione della società e della cultura. Lo racconta bene un libro da cui è stato tratto un film che prende il titolo dalla definizione inglese di giovani o, meglio, da come il mondo anglosassone definisce i giovani: teenage (per chi fosse completamente digiuno di inglese, la parola è composta da teen, il suffisso delle età dai 13 ai 19 anni e da age, che significa età; per cui il termine include tutti coloro che hanno dai 13 ai 19 anni). Il film racconta, come spiega bene questo articolo, la cronistoria della gioventù: “dalla sua comparsa fino agli anni Cinquanta, alla sua accettazione definitiva come categoria sociale. Si inizia dunque spiegando come a inizio Novecento il concetto di “adolescenza” non esistesse, di  come si passasse dall’infanzia direttamente all’età adulta”[…] i teenagers sono diventati una categoria vera e propria a causa delle trasformazioni della società. Non solo: i “giovani” hanno cominciato ad essere presi in considerazione per le loro proteste causate dal loro ingresso nel mondo del lavoro o dal fatto che sono stati mandati a morire al fronte”.

Ce la potremmo immaginare oggi una società senza giovani? Probabilmente no. Per due motivi. Il primo è che poi abbiamo scoperto che gran parte del nostro spirito di innovazione e della nostra possibilità di evolvere in senso innovativo fanno parte della giovinezza (Einstein era giovane quando rivoluzionò la fisica ed i Beatles erano giovani quando rivoluzionarono la musica, tanto per fare degli esempi in settori all’estremo uno dall’altro). Il secondo è che la giovinezza ci è piaciuta così tanto che abbiamo deciso, ultimamente, di allungarla fino ad età che fanno parte, tendenzialmente, della seconda parte della vita. Siamo spesso “diversamente giovani”, cioè ci sentiamo o vogliamo sentire giovani mano a mano sempre più in là con gli anni.

Già 10 anni fa molti indicatori segnalavano i 29 anni come termine dell’età giovanile; oggi i 35 anni (+ 6 anni) sembrano in molti casi essere stretti; ed a 40 anni si può senza troppe incertezze definirsi ancora giovani. In realtà sono età che non possiamo con sincerità, forse, definire “giovani” ma nemmeno “vecchie”: il passaggio da “giovane” a “vecchio” non avviene in maniera repentina da un giorno all’altro, da un compleanno al successivo. Esiste un periodo della vita, che sembra essere scomparso, chiamato dell’età adulta: rappresenta a dirla tutta gran parte della nostra esistenza. La moda, la cultura, forse anche la tecnologia ci hanno spinto a definire cose e persone giovani o vecchie, senza una alternativa e sana via di mezzo: ma l’idea di una sconfinata giovinezza forse è un po’ illusoria, perché quei giovani non esistono.

Spegni quel telefono!

spegni telefonoRiunioni, convention, workshop ma anche una cena tra amici, un incontro tra conoscenti, la riunione di condominio, la festa di compleanno: qualunque sia il motivo dell’incontro quello che sempre più spesso accade è che ci sia qualcuno in questa posizione: testa chinata, sguardo basso, aria distratta, in mano un cellulare sul quale solitamente il pollice scorre velocemente. Siamo in mezzo ad altre persone ma quello che stiamo facendo è “avere a che fare” con qualcun altro o con qualcos’altro. Questo tipo di atteggiamento che spesso condanniamo salvo poi perpetrarlo noi stessi quando ne sentiamo l’esigenza è sicuramente annoverabile tra i comportamenti frutto di maleducazione. In realtà la nostra tolleranza e comprensione verso questo modo di fare aumenta di giorno in giorno: un po’ perché aumentano frequenza e numero degli accadimenti e un po’ perché siamo disposti ad accettare compromessi. Ad esempio accettiamo che un partecipante ad una riunione sia distratto dal telefono se dall’altra parte c’è un cliente importante oppure tolleriamo lo stesso comportamento da un amico che sta mettendo su Facebook la foto della fantastica serata che stiamo trascorrendo insieme. In tutto questo, a parte la questione di una diversa educazione a cui ci stiamo abituando, c’è anche una questione di abuso tecnologico.

Come tutti gli abusi anche questo prevede le sue dipendenze. Non è solo una questione di essere abituati ad utilizzare un dispositivo, ma anche di che cosa ci fa fare e di che mondo sta dietro uno schermo touch, piccolo o grande che sia. La nostra attrazione è per quel mondo e dobbiamo cercare di capire quanta parte del nostro tempo dedichiamo a quel mondo. Ed infine, quanto quel mondo ci restituisce in termini di benessere. Quello che facciamo è leggere post, guardare video, soffermarci su recensioni, commenti, analisi: insomma una marea di informazioni. Come le gestiamo? Quante ne assumiamo? Per questo motivo si comincia a parlare di dieta informativa: della quantità e qualità di nozioni ed informazioni che entrano a far parte delle nostre conoscenze. Su questo molti di noi abusano, alcuni di noi forse sono dipendenti: non riescono cioè a smettere anche se volessero farlo. Negli Stati Uniti è uscito un libro dal titolo “L’inverno della nostra disconnessione” la cui autrice, Susan Maushart, dice: “se non ve la sentite di staccare per una settimana o imporre bruscamente ai vostri figli di farlo, provate prima con una manciata di minuti, poi aumentate progressivamente“. La dieta informativa è dettata soprattutto dalla permanenza con la quale siamo connessi (always on, come si dice in gergo) e forse c’è qualcosa da imparare per regolare meglio questa attività.

Come tutte le diete anche per quella informativa non esiste forse una soluzione unica: dipende da dove partiamo e dove vogliamo arrivare e, soprattutto, come vogliamo arrivarci. Ad ascoltare gli esperti (i pareri di alcuni li trovate in questo articolo di Repubblica di qualche giorno fa) le soluzioni possono essere diverse e legate anche ala tipologia di persone. Per esempio la dieta informativa di un adolescente sarà diversa da quella di un adulto: il primo potrà fare a meno di un po’ di connessione un po’ alla volta, il secondo potrebbe sottoporsi anche a qualche “shock” e decidere di smettere di essere connesso drasticamente per un giorno o una settimana interi. Il nostro amico Luca Conti sostiene che “occorre rendersi conto che è sbagliato essere “always on”. Condivido quanto scrive Douglas Rushkoff nel suo recente “Program or be programmed”. L’uomo non è fatto per il real time, che fa calare l’attenzione e la produttività e danneggia le relazioni personali“. La proposta di Luca è basica e molto italiana: niente computer né telefono a tavola, al cinema e a letto. Ora, non sappiamo se chi sta leggendo questo post lo fa da un pc, uno smartphone o un tablet nè da quanto tempo è connesso ad internet per navigare passando per siti, piattaforme, applicazioni. Quello che sappiamo è che però arrivato a questo punto dovrebbe acquisire una consapevolezza: il tempo dedicato a queste cose dobbiamo gestirlo noi ed evitare che avvenga il contrario.