Più vacanze per tutti!

Untitled3-e1377294231119.pngConsiderato il tempo e la data oggi parliamo di vacanze. Ora qualcuno si immaginerà, giustamente, che tratteremo di mete in paesi esotici, di arrampicate sui monti o di bagni in mezzo a piscine naturali piene di pesci. Ma su questi temi non siamo molto ferrati e, al massimo, potremmo riportare soltanto qualche piccola esperienza personale di poco conto. Invece scriviamo di vacanze perché la notizia è che le vacanze ci rendono più produttivi e ci aiutano anche a essere più efficaci nelle nostre mansioni professionali.

La cosa nasce da un’indagine fatta da due studiosi americani che hanno analizzato un campione di manager super impegnati ai quali è stato chiesto come preferissero lavorare: se con più tempo e calma o con meno tempo e più fretta. I risultati presentavano una variazione rispetto alla provenienza geografica dovuta al fatto che lo stile di lavoro risulta influenzato anche dalle abitudini e dalle consuetudini locali. Per esempio, i più vacanzieri sono gli svedesi e i brasiliani, con 41 giorni di ferie pagate, mentre negli Stati Uniti non c’è alcuna legge che regola il pagamento di giorni di vacanze e secondo le stime la media delle aziende americane è di 10 giorni di ferie pagate—e solo il 25% degli americani se li prende tutti. A ogni modo, il dato rilevante emerso è stato che i manager con più vacanze tendevano a essere più inclini a lavorare di fretta, a essere più concentrati e più impazienti. I dati raccolti hanno permesso di concludere che avere più vacanze aiuti i lavoratori a capire meglio l’importanza di essere efficienti e a dare il massimo quando se ne ha la possibilità.

Sembrerebbe quindi che prendersi un po’ di vacanze aiuti davvero a essere più produttivi: ma da cosa dipende questo aumento di produttività? Secondo lo studio che abbiamo brevemente illustrato sopra (e che potete leggere qui) si tratterebbe semplicemente di un fattore legato alla gestione del tempo: siccome so che ho meno tempo per fare lo stesso numero di cose, mi adopero per fare in maniera più efficiente. Prendersi una pausa non rinfrescherà il cervello permettendoci di lavorare di più, ma spendere meno tempo alla scrivania ci obbligherà a sprecare meno tempo.. Secondo la nostra modesta opinione ci sono anche altre ragioni per le quali il nostro lavoro può migliorare grazie alle vacanze.

In primo luogo c’è un fattore legato allo stress, il più evidente: il nostro cervello e il nostro corpo hanno bisogno anche di sperimentare contesti diversi da quello lavorativo, anche quando lavoriamo in un posto idilliaco. Chi di voi non si è trovato almeno una volta a tirare un sospiro di sollievo una volta varcata la soglia di uscita dal luogo di lavoro? Un altro fattore è rappresentato dalle opportunità di crescita che possiamo sfruttare all’esterno del nostro luogo di lavoro: per esempio non è detto che la vacanza si possa intendere solo come “svacco” e nullafacenza: per la maggior parte di noi fare vacanza significa anche dedicarsi in maniera più assidua a interessi e passioni, coltivare e sviluppare una competenza magari in maniera allegra e spensierata (molti sport per esempio aiutano a sviluppare doti che poi possono essere adoperate nel lavoro, come il coraggio e al determinazione). Infine un ultimo aspetto riguarda la possibilità che abbiamo di contaminarci con altre idee, culture, valori. Accade se adoperiamo le vacanze per viaggiare e visitare posti in cui non siamo mai stati soprattutto se lo facciamo all’estero, dove abbiamo possibilità di incontrare e conoscere situazioni e condizioni diverse dalle nostre. Questo tipo di vacanza sarebbe bello se potesse diventare in qualche modo un’abitudine di lavoro. Sembra quasi un controsenso ma in realtà esistono già realtà aziendali che includono, nei viaggi di lavoro, un tempo libero per i propri dipendenti: non si tratta (solo) di un premio legato alla disponibilità alla trasferta, ma di un’opportunità di crescita che si offre ai propri collaboratori e che si può poi sfruttare nel contesto lavorativo (funziona in maniera quasi diretta per chi svolge mansioni creative).

Noi ci crediamo talmente tanto in questa cosa delle vacanze che abbiamo già cominciato 🙂 Come forse i più attenti lettori avranno notato gli articoli di questo blog hanno subito una variazione nella frequenza: non più 3 appuntamenti (uscite) alla settimana ma una soltanto. Il tempo guadagnato lo utilizziamo per fare vacanze il più possibile produttive. Se volete provate anche voi e diteci come va: buona produttività!

Farsi venire un'idea

ideeCome si fa a farsi venire un’idea? Così, in maniera astratta e non contestualizzata, forse è davvero difficile non solo spiegarlo ma anche riuscirci. In realtà le idee nascono anche un po’ per caso, per un sogno o un desiderio, perché leggiamo una frase che ci appassiona o vediamo qualcosa che ci colpisce.  La famosa lampadina che si accende, insomma, non è sempre pronta a rispondere ai nostri comandi e talvolta, anche se lo vogliamo, le idee non vengono. Per questo motivo negli anni ’40 del secolo scorso, un pubblicitario americano di nome Alex Osborn, aveva inventato un metodo per far nascere le idee: l’ormai conosciuto, diffuso e strausato brainstorming.

Per chi non lo sapesse, il brainstorming (dall’inglese brain/cervello e storm/tempesta) è una tecnica di gruppo che consiste nel dire ciascuno tutto ciò che gli viene in mente rispetto a un argomento o un tema, senza alcun limite e senza la possibilità di essere censurati dagli altri. Quello che si dovrebbe ottenere è il più vasto e differenziato catalogo di idee sul tema dal quale prendere poi le migliori. Questa tecnica però ultimamente è messa in discussione da molti punti di vista. I motivi per cui il brainstorming non funziona sono dettagliati in questo articolo dell’Observer (in inglese; in italiano li trovate sul numero 1105 di Internazionale). Annamaria Testa nel suo blog prova ad approfondire il tema, citando alcuni motivi per cui i presupposti del brainstorming in realtà siano falsi. Il primo presupposto è quello che in gruppo le idee vengono meglio: in realtà “le persone sono più produttive se lavorano da sole. Facendo lavorare contemporaneamente gruppi e singoli individui sul medesimo tema, è facile verificare che i singoli producono più idee, e idee migliori“. Il secondo presupposto dice che la critica è paralizzante ed è per questo che nel brainstorming anulla è vietato. Però “le critiche altrui servono, eccome: aiutano a buttar via rapidamente le idee inefficaci.” Nonostante queste critiche siano delle mine alle fondamenta del brainstorming, questa tecnica continua a essere ampiamente utilizzata.

Ma se ce ne dovessimo liberare come potremmo fare a diventare tutti un po’ più creativi? La ricetta finale, quella sicuramente giusta, non l’abbiamo trovata. Ma leggendo un libretto piuttosto interessante, “Ruba come un artista” di Austin Kleon, abbiamo trovato qualche suggerimento davvero innovativo. Prendendo spunto dal titolo, la tecnica più efficace per essere creativi è davvero quella di “rubare”. Il furto di cui parliamo certamente non è una truffa e non porta danno a nessuno. L’indicazione possiamo spiegarla meglio in altra maniera, facendo un esempio. Pensate a come sono nati e cresciuti gli artisti che oggi conosciamo e riconosciamo come geni (Giotto, Raffaello, Leonardo, ecc.): la maggior parte di loro (la totalità potremmo dire) ha imparato la propria arte seguendo un maestro. Che cosa vuol dire “seguire” un maestro: spesso significava guardare quello che faceva e poi tentare di rifarlo. Questo procedimento, raccontato così, può sembrare molto simile al “Ctrl+C / Ctrl+V” che utilizziamo al computer (copia & incolla per chi è meno pratico della tastiera). In realtà tra il “copia” e l'”incolla” ci stava di mezzo una parola (e un’azione) che faceva la differenza: “rielabora”. Se non fosse così, se non ci fosse stato un processo di rielaborazione sarebbe diventato grande artista chiunque. Il processo di rielaborazione che mettiamo in atto quando prendiamo le mosse da qualcuno che cerchiamo di imitare è qualcosa che assomiglia molto alla creazione di idee.

Copiare quindi non è un peccato o una colpa, a patto di farlo bene. A patto, cioè, che il risultato finale non sia un accozzaglia di elementi posticci rubati qua e là, ma sia una rielaborazione di ciò che abbiamo visto e ci è piaciuto. Austin Kleon nel suo piccolo trattato sulla creatività mette anche un altro suggerimento interessante: circondarsi di talenti. Partecipare a un gruppo in cui non siamo i più bravi, confrontarsi con persone che ne sanno più di noi, ritrovarsi nella stessa stanza con persone che sono più brillanti di noi, frequentare una classe di studenti che hanno migliori risultati dei nostri, avere amici più abili di noi in qualche disciplina non dovrebbe farci sentire sfortunati, depressi o perdenti. In realtà è uno dei modi migliori per imparare facendo, per avere qualcuno da cui prendere le mosse, per trovare il nostro “maestro di bottega”. Perché altrimenti da chi copiamo?

Tre settimane all'IG

alternanza-scuola-lavoroQuesta avventura è nata nel giorno in cui la mia professoressa mi ha comunicato che avrei fatto le mie tre settimane di alternanza scuola-lavoro all’Informagiovani: non conoscevo molto questo servizio, anzi le mie informazioni erano veramente scarse.

Le emozioni prima di iniziare erano numerose e contraddittorie: passavano dal timore per la nuova esperienza alla curiosità di scoprire un mondo a me sconosciuto che mi avrebbe avvicinato al lavoro e messo a contatto con persone nuove con le quali avrei dovuto relazionarmi e collaborare per tre settimane. Il primo di giorno di “lavoro” mi sono presentato all’ingresso e sono stato gentilmente accolto da tutto lo staff che mi ha mostrato il locale dove avrei passato i giorni successivi e illustrato i servizi che l’Informagiovani svolge, liberandomi immediatamente della tensione e innescando ancora di più curiosità e stimoli.

Per cominciare, mi hanno assegnato una scrivania tutta per me dove avrei iniziato il mio primo lavoro. Consisteva nel revisionare e sistemare un raccoglitore che riguardava i finanziamenti per la creazione di nuove imprese; raccogliendo nuove leggi, nuove disposizioni e nuovi bandi. Col passare dei giorni ho iniziato a socializzare con le persone che collaboravano con me e ho trovato un gruppo che mi ha sempre dato la possibilità di lavorare con il tempo e lo spazio dovuto.

Essendo la prima esperienza lavorativa avevo un’idea e delle prospettive che in parte sono state confermate e in parte invece smentite. L’ambiente lavorativo dove mi sono trovato era energico, stimolante e allo stesso tempo accogliente e rassicurante. Questo mi ha permesso di lavorare in tutta tranquillità con gli stimoli giusti. I lavori che ho affrontato non erano basati solo sul consolidamento delle competenze scolastiche ma anche sull’acquisizione di nuove, come il rapporto e l’accoglienza del pubblico. Le prime volte è stato complicato perché avevo bisogno di un sostegno per via delle mie scarse informazioni. Ma con il passare dei giorni però aumentava la mia esperienza e le mie conoscenze che mi permettevano di consigliare gli utenti nel migliore dei modi. Sicuramente la parte del lavoro più gratificante e interessante è stata la creazione di un video su una mostra ospitata all’interno dell’Informagiovani. Questo perché mi ha permesso di imparare l’uso di un editor di foto e video e mi ha regalato la soddisfazione di ricevere i complimenti sia da parte dello staff che dagli organizzatori della mostra.

Pian piano scoprendo e vivendo l’ambiente dell’Informagiovani ho compreso le numerose difficoltà da affrontare ogni giorno per rispettare tutti i servizi disponibili al pubblico nei quali anche io ero coinvolto: spesso cercavo di trovare la soluzione affinché gli utenti potessero avere a disposizione la risposta migliore..

Arrivando alla fine di queste tre settimane posso affermare di essermi integrato perfettamente all’interno del gruppo e consiglio vivamente a qualsiasi ragazzo di provare questa esperienza. Ringrazio tutte le persone che hanno collaborato a rendere questo stage un bagaglio di esperienza che non dimenticherò.

 

(questo articolo è stato scritto da Federico Capobelli, stagista dell’Istituto Savoia-Benincasa)

 

Internet nella nostra vita

internetChi si segue più da vicino il mondo di internet e si appassiona ai dati, forse ha scoperto che sono usciti qualche giorno fa i dati sul mondo nel web per il 2015. Si tratta di una sorta di report che fa vedere come e quanto internet riguarda le nostre vite e di come le nostre vite, forse, sono cambiate con il web. Questo report è redatto dal 1995, per cui è anche abbastanza facile e immediato fare confronti. Che cosa è successo negli ultimi 20 anni? Se qualcuno è stato un utilizzatore “pioniere” del web si ricorda alcune cose che accadevano nella seconda metà degli anni ’90, quando internet è arrivato anche in Italia e ha cominciato a diffondersi. L’accessorio che abbinato al pc permetteva di proiettarci in tutto il mondo era il modem, una scatola rumorosa che collegava il pc alla rete telefonica. Dopo qualche istante di strani suoni, un misto tra un cigolio e un cinguettio, sul video apparivano “cose dell’altro mondo”. Che cosa vedevamo e cercavamo allora e che cosa vediamo e cerchiamo oggi? Vediamo qualche dato che riguarda il 2015 e proviamo a capire come sono cambiate le cose.

Il primo dato interessante è semplice e immediato: la popolazione di utilizzatori del web è passata da circa 35 milioni a quasi 3 miliardi (passando dallo 0,6% al 39%). Un terzo degli utenti di internet risiede in Asia e questo dovrebbe già dare un’idea di dove, probabilmente, sarà il futuro sviluppo della tecnologia in futuro. Nel tempo è cambiato anche il modo con cui utilizziamo il web: se nel 1995 praticamente il pc era l’unico modo con cui potevamo navigare, negli ultimi 20 anni la diffusione di un telefono portatile ha fatto passi da giganti, con una crescita a doppio zero. Nel mondo a oggi ci sono più di cinque miliardi di telefono, di cui il 40% è uno smartphone adatto a navigare su web. Un altro dato interessante su ciò che è avvenuto negli ultimi 20 anni è quello relativo al modo e alle opportunità che ci sono di poter usufruire dei contenuti: negli ultimi 20 anni sono nati il blue-ray e due generazioni di console per videogame, gli smartphone e Youtube, il tablet e lo streaming on demand solo per citare alcuni esempi. In altre parole, in pochi anni, una concentrazione massiccia, un’esplosione di offerta di contenuti che negli anni precedenti mai si era vista. Tutto questo su cosa ha avuto impatto nella nostra vita? Le modifiche maggiori le abbiamo avute come consumatori (chi non guarda almeno il prezzo di un bene su internet?), poi nel mondo business (basta pensare a come e quanto è cambiato il lavoro di chi opera nel turismo); un po’ meno nel settore della saluta e della pubblica amministrazione.

Proviamo a vedere qualcosa che riguarda invece i nostri comportamenti. In questo senso l’accelerazione maggiore l’abbiamo avuta negli ultimi 5/10 anni, con lo sviluppo della tecnologia che ha reso accessibile l’acquisito (a volte anche il solo utilizzo) di un device per navigare (dal pc al telefono). Se nel 2008 un utente “tipico” del web passava in media poco meno di 3 ore su web (di cui l’80% grazie ad un pc), nel 2015 le ore sono diventate quasi 6 (5,6 per la precisione) e oltre la metà avvengono attraverso un dispositivo mobile. C’è anche un’altra cosa interessante, che ha perlopiù delle implicazioni per quello che riguarda la pubblicità ma che può essere interessante anche per il nostro modo di comportarci. Negli ultimi anni (parliamo della forbice che va dal 2010 al 2015) è successo che stiamo cambiando il modo di fruire di immagini e video. Se 5 anni fa la quasi totalità dei video la guardavamo attraverso uno schermo grande e a sviluppo orizzontale (un TV o il monitor di un PC), nel tempo è salita la percentuale di ore spese a guardare video in senso verticale (cioè attraverso lo schermo di un telefono): nel 2010 accadeva al 5% per cento dei naviganti, nel 2015 al 30%.

Molte altre cose sono cambiate negli ultimi anni. Per esempio il modo con cui paghiamo o trasferiamo denaro in genere attraverso strumenti che ci permettono transazioni sicure e immediate, ha modificato il nostro comportamento di acquisto. Oggi, se vediamo una cosa che ci piace dopo una ricerca fatta su Google (o che ci viene segnalata da un amico) possiamo decidere di acquistarla con pochi click immediatamente. Possiamo certificare con la nostra firma i documenti, digitalizzando immediatamente una ricevuta (se avete ricevuto un pacco da un corriere questa esperienza l’avete già fatta). Possiamo inviare messaggi complessi, composti di video, foto e audio ai nostri amici, trasferendo in maniera più completa ed esaustiva quello che vogliamo dire ai nostri amici. Come pensate che tutto questo possa aver cambiato la nostra vita? Siamo cambiati come consumatori, cittadini, amici? Probabilmente sì, ma quello che il report suggerisce è anche che il cambiamento ancora non è completo e che molte novità devono ancora arrivare anche se noi al momento lo crediamo poco possibile o probabile. Come 20 anni fa.

I dati citati in questo articolo fanno parte di un report apparso negli USA, paese a cui si riferiscono. Il report potete trovarlo qui.

 

 

 

Quante ne sai?

quante ne saiTorniamo spesso a parlare di competenze e conoscenze, fondamento di una solida vita professionale (e se volete anche personale). Quante cose conosciamo? E quante ne conosciamo abbastanza bene da poter essere considerati dei “maestri” in quella materia? L’importanza di questo aspetto è fondamentale: soprattutto in ambito lavorativo (e non solo se faremo i maestri o i professori in futuro). Per definire meglio quello di cui vogliamo parlare vi raccontiamo una storiella.

Narra una leggenda molto popolare tra i fisici che Max Planck, dopo aver ricevuto il premio Nobel nel 1918 per la scoperta della quantizzazione dell’energia, si imbarcò in un tour attraverso tutta la Germania per tenere delle conferenze sulla meccanica quantistica, la nuova e rivoluzionaria disciplina che era nata dalle sue scoperte. Parlare di «conferenze» è improprio: il professor Planck teneva infatti sempre la stessa, sempre uguale, persino nei colpi di tosse. Giorno dopo giorno, l’autista che lo accompagnava arrivò a impararla a memoria, finendo anche per notare che il professor Planck cominciava ad annoiarsi un pochetto. In occasione di un viaggio verso Monaco di Baviera, perciò, chiese al suo assistito: “Certo, professore, deve essere veramente noioso ripetere sempre le stesse cose. Tanto per cambiare, a Monaco, non potrei parlare al suo posto?”. Planck, che era un buontempone, accettò volentieri e i due decisero di scambiarsi i ruoli; l’autista avrebbe tenuto la conferenza, mentre il Nobel si sarebbe accomodato in platea con il berretto da chauffeur e l’aria austera. Purtroppo, dopo la conferenza, accadde una cosa mai successa prima. Un tizio del pubblico, nella fattispecie un professore di fisica, si alzò in piedi e fece una domanda. Senza perdere un grammo del suo aplomb, l’autista replicò: “Mi sorprende davvero che l’abitante di una città così avanzata possa fare una domanda così semplice. Guardi, le può rispondere direttamente il mio autista”.

Questa storiella simpatica, di cui dobbiamo la conoscenza a Marco Malvaldi e al suo ultimo libro (Le regole del gioco), oltre a raccontare della prontezza di riflessi e dell’arguzia che ogni tanto possono salvarci da situazioni imbarazzanti e imprevisti, ci fa capire come e quanto sia importante conoscere abbastanza approfonditamente un argomento per poterlo gestire e non solo raccontare. La capacità di parlare, anche in pubblico, di un tema non è necessariamente sintomo di consocenza: gli psicologi chiamano questo tipo di sapere “conoscenza dello chauffeur” (potremmo dire “conoscenza da bar”). Se c’è qualcuno che ha una buona capacità di ascolto e di intuire quali sono i passi fondamentali di un discorso unite a buone doti comunicative, ecco che potremmo credere che quel qualcuno sia un esperto della materia. Fino ad un certo punto: il punto è quando qualcuno gli farà una domanda di cui conosce già la risposta. Potete chiamarla verifica o scherzo bastardo, fatto sta che quella domanda farà cadere tutte le competenze presunte come un castello di carta.

Chi adotta questo metodo per fingersi esperto di qualcosa in realtà è al massimo un bravo attore, capace di interpretare un parte. A pensarci bene in effetti, la similitudine è azzeccata: un attore studia una parte, ne assorbe per quel che può (e per il tempo che serve) le caratteristiche e poi la interpreta al meglio. Ma se un attore che interpreta la parte di un uomo di affari dovesse poi mettersi alla guida, veramente, di un’impresa sarebbero guai per molti, dai clienti, ai dipendenti, ai creditori. Questo ragionamento dovremmo essere bravi a farlo anche con noi stessi, evitando di raccontarci e raccontare storie e bugie sulle nostre competenze. Non sempre è facile perché il confine tra quello che conosciamo e quello che non conosciamo può essere labile e confuso. Le nostre conoscenze non dipendono soltanto da quello che abbiamo studiato sui libri, ma anche dalle esperienze e dalle percezioni che abbiamo assimilato nel corso degli anni. Per fare un esempio pensate alle ricette: sicuramente tra tutti quelli che sanno preparare un tiramisù ci saranno almeno 3 o 4 ricette diverse. Ma se fate un sondaggio ciascuno dirà che la propria ricetta è quella giusta, corretta, originale. Qualcuno però sarà in errore (supposto che la ricetta del tiramisù sia unica), anche se in buona fede. Nel mondo del lavoro, diversamente da quello della cucina (solo quando non è quella professionale), le conoscenze che dobbiamo avere devono essere precise, dettagliate, spesso profonde. Un esercizio che possiamo fare è quello di imparare a determinare  limitare l’ambito delle nostre competenze: che cosa sappiamo veramente? Su che cosa potremmo tenere una lezione senza paura di dover rispondere a una domanda?

Mettici la faccia e fatti i selfie tuoi

selfie tuoiLa scorsa settimana abbiamo parlato in questo blog di come e quanto sia importante sapersi presentare, sia di persona che con una forma scritta che oggi si traduce in molti modi, dalla semplice mail con cv allegato alla stesura di un blog o un sito personale. Le modalità con cui ci “rappresentiamo” sono molteplici e per come funzionano oggi la comunicazione e il sistema di relazioni tra le persone c’è un fattore cruciale. la foto!

Oggi, probabilmente, nessuno di noi si è salvato dalla selfiemania: la moda di fare un autoscatto con il proprio telefono, tenendolo in mano alla massima distanza consentita dalle nostre braccia. Il risultato finale non sempre è eclatante: a volte si vede un pezzo di un braccio, la foto è sfocata, le smorfie son quelle di un cartone animato. Anche quando il selfie è azzeccato la domanda che vi e ci facciamo è: sarebbe quella una foto professionale? La potremmo utilizzare per presentarci in un contesto lavorativo?

La risposta a questa domanda hanno provato a darla anche gli esperti di Linkedin, il social network business, dedicato al mondo del lavoro. Con la realizzazione di una apposita guida per i selfie hanno voluto trasformare, con i giusti accorgimenti, una pratica che si vuole legata solo a svago e divertimento in un modo rapido per aggiornare il proprio avatar lavorativo. Certamente il risultato finale non può essere il medesimo di una foto professionale, ma certamente con qualche consiglio che riportiamo qui di seguito il risultato finale sarà sicuramente migliore di un selfie qualsiasi.

Primo passo: scegliete uno sfondo. Probabilmente non ci facciamo caso ma in una fotografia quello che colpisce la nostra attenzione non è solo la faccia che eventualmente sta in primo piano; per dare un “senso” a tutta la foto i nostri occhi e il nostro cervello catturano particolari importanti. Sono particolari che aiutano poi ad elaborare sia il ricordo che l’associazione di idee connessi alla foto. Per questo è importante per esempio scegliere uno sfondo neutro (bianco per esempio) oppure un qualcosa che sia significativo (lo sfondo in questo senso potrebbe riprendere il luogo in cui lavoriamo oppure strumenti che fanno parte della nostra professione). Secondo passo: la giusta luce. Tutti sappiamo (forse) che una foto controsole è quasi vietata per un risultato buono (il viso sarebbe completamente scuro, quasi invisbile): bisogna fare attenzione anche ad altre fonti di luce e cercare di avere il viso sempre in una buona condizione di illuminazione (per esempio mai spalle ad una finestra, semmai il contrario); attenzione anche al flash, distorce la luminosità del vostro viso per cui la cosa migliore è… aspettare che sia giorno 😉

Terzo passo: il “makeup”. Pensate prima di scattare a come vorresti che risultasse la tua immagine finale, scegli la postura, l’abito e l’espressione che vorresti ottenere. Potete fare alcune prove e tentare di vedere come l’espressione che pensate di aver tenuto, il tipo di risultato e di effetto finale restituisce. Potrebbe accadere che un’espressione che vi sembrava affascinante sia ridicola e quella che reputavate poco professionale sia invece quella più adatta. La nostra fotogenia dipende anche da questi particolari. A ogni modo comunque volto rilassato ed espressione naturale, tendenzialmente sorridente. Pensate a quando ti sei sentito fiero di te o alla voce del capo che ti offre la promozione che hai sempre sognato: vedrete che otterrete lo scatto giusto. Quarto passo: il setting. Posizionate la macchina fotografica (o, meglio, il vostro smartphone) ad una distanza adeguata (le inquadrature dall’alto verso il basso tendono a dare risalto agli occhi e assottigliano ovale del viso e collo; viceversa lo scatto opposto può veicolare l’idea di imponenza ma rischia derive caricaturali per chi ha un naso o un mento pronunciati). Per evitare che oltre al viso la vostra foto comprenda anche una aprte del braccio che regge il telefono studiate un modo di appoggiarlo da qualche parte, non troppo distante per evitare di utilizzare troppo zoom (quelli digitali non offrono nulla di più di una inquadratura normale; l’immagine potete tagliarla successivamente): per esempio se fate la foto seduti ad un tavolo il telefono potete appoggiarlo ad una pila di libri messa a 80/100 centimetri da voi.

Il bello del selfie è che potete scattare e riscattare tutte le volte che volete: se non riuscite a trovare la foto migliore condividete gli scatti con un gruppo ristretto di amici (se volete potete farlo anche con noi, garantiamo massima riservatezza) e fatevi dare qualche consiglio.

Gli errori (di grammatica) da non fare in una presentazione

grammaticaRimaniamo sul tema del post precedente: presentarsi agli altri nel modo migliore. La scorsa volta abbiamo visto quali comportamenti adottare e quali evitare nel momento in cui incontriamo per la prima volta qualcuno. Abbiamo visto che ci sono modi di fare e scelte più o meno consone rispetto al contesto in cui siamo, soprattutto se il contesto è quello professionale e davanti a noi abbiamo una persona avrà una qualche influenza sul nostro futuro. I latini dicevano “verba volant, scripta manent” volendo intendere che la parola scritta ha una forza e una permanenza maggiore rispetto a quelle soltanto dette. Se è vero infatti che le parole dette hanno una potenza immediata nel momento in cui le esprimiamo (forti anche del fatto che sono collegate alla nostra immagine nel suo complesso), quelle scritte spesso rimangono fisse lì, sotto gli occhi del destinatario, per un tempo molto più lungo (a volte per sempre). Questo è ancor più vero oggi che scriviamo su un supporto che non è deteriorabile come la carta: quel che mettiamo in una mail, in un post di Facebook o in un blog posso rimanere per sempre.

Ecco perché diventa fondamentale saper, oltre che parlare, anche scrivere bene. Non tutti siamo scrittori, questo è naturale. Ma è anche vero che una scrittura quantomeno corretta, chiara e incisiva non solo aiuta a far capire meglio quello che vogliamo intendere ma serve anche a persuadere della bontà dei nostri contenuti. Sappiamo tutti scrivere? Teoricamente sì, essendo questa un’abilità che acquisiamo nei primi anni della scuola dell’obbligo. Sappiamo tutti scrivere bene e in maniera convincente? Qui la percentuale si abbassa notevolmente considerato che ci sono ancora errori grammaticali frequenti nella scrittura della maggior parte degli italiani. Vediamo quali sono in modo che, si spera, faremo più attenzione quando toccherà noi.

Gli errori grammaticali più frequenti li segnala in questo post il blog Libreriamo. Al primo posto c’è l’uso (s)corretto dell’apostrofo: “Quando si mette? Semplice, con tutte le parole femminili, quindi: un’amica sì, un amico no. E quindi apostrofo? Si tratta di elisione: non si può dire lo apostrofo, diventa quindi l’apostrofo. Infine c’è anche il troncamento: un po’ vuole l’apostrofo, perché si tratta del troncamento della parola ‘poco’“.  “Qual’è” l’altro errore commesso dagli italiani? Sta proprio all’inizio della frase precedente, perché “qual è” si scrive senza apostrofo. Non può mancare il congiuntivo che sembra non rientrare più tra le abitudini linguistiche degli italiani. Il congiuntivo ha valore esortativo (al posto dell’imperativo, vada via di qua!), concessivo (segnalando un’adesione, anche forzata, a qualcosa; venga pure a spiegarmi le sue ragioni), dubitativo (es. che abbia deciso di non venire?), ottativo (per esprimere un augurio, una speranza, ma anche un timore, es. fosse vero!), esclamativo (es. sapessi quanto mi costa ammetterlo!). Purtroppo nella mente di molte persone è rimasto più chiaro il “venghi Fantozzi, venghi” del personaggio di Paolo Villaggio (che lo utilizzava come ulteriore accento per raccontare la grottesca realtà di certi ambienti). Animati da entusiasmo possono essere solo le persone di sesso femminile? No, ma forse è quello che credono coloro i quali scrivono “entusiasto” anziché entusiasta: questo aggettivo rimane con la “a” finale anche al maschile. Un errore meno grave ma che racconta sicuramente di una cifra stilistica meno precisa è quello che ci fa mettere una “d” nelle congiunzioni che precedono una parola che inizia con una vocale (come, per esempio, “ad entrare” che invece andrebbe scritto “a entrare”). Quella “d” la dobbiamo mettere solo quando la vocale è la stessa (e quindi sarebbe giusto “ed entrare”). Quest’ultimo, ahinoi, potreste trovarlo anche in questo blog.

Ora che avete scoperto, forse, qualche incidente linguistico nel quale siete incappati potete andare a vedere se per caso lo avete riportato in qualche vostra lettera di presentazione o nella mail che stavate per spedire con il vostro cv. Correggerli non sarà forse determinante per il successo del vostro curriculum ma concorrerà sicuramente a farvi fare una figura migliore.

Quando non hai una seconda opportunità

seconda opportunitàDi solito si dice che abbiamo sempre una seconda occasione: giusto, non sembra nemmeno a noi utile affermare il contrario. Di fatto è anche il momento in cui impariamo qualcosa, perché la “seconda volta” è l’occasione in cui abbiamo avuto già un’esperienza e siamo in grado di poterla mettere a frutto, migliorando quello che abbiamo fatto bene ed evitando gli errori già commessi. Nonostante questo nella vita ci sono casi in cui questa seconda possibilità non ce l’abbiamo:

Una di queste occasioni è quando incontriamo una persona nuova e facciamo la cosiddetta “prima impressione”: proprio perché è la prima, non abbiamo una seconda volta in cui lasceremo il ricordo della prima volta. Sembra un gioco di parole ma se provate a rifletterci un attimo è proprio così. Pensateci un attimo: quando conoscete una ragazza o un ragazzo che vi piace che tensione avete il momento in cui vi salutate per la prima volta? Mani sudate, battito cardiaco accelerato, difficoltà a trovare le parole giuste per presentarsi: in generale un senso di spaesamento e di mancanza di equilibrio che ci spiazza. Tutto questo accade anche perché sappiamo che se “toppiamo” quel ragazzo o quella ragazza non saranno poi così tanto disposti e disponibili a costruire una relazione con noi. Stiamo gettando il seme per costruire una nuova relazione e questa cosa va fatta con cura già dalle prime mosse. In questo blog non trattiamo però di questioni di cuore e quello fatto era solo un esempio per far capire la situazione. C’è una situazione simile nel mondo del lavoro: si tratta del momento in cui facciamo un colloquio di lavoro.

Chiaramente con la persona che abbiamo davanti ad un colloquio di lavoro non stiamo costruendo lo stesso tipo di relazione che vorremmo avere con la ragazzo o il ragazzo che ci piace. Ci sono elementi in comune però. Per esempio la fiducia e l’affidabilità in un rapporto di lavoro sono caratteristiche simili a quelli di una relazione sentimentale. Ma quello che più li accomuna è il fatto che in entrambi i casi siamo in una situazione in cui dobbiamo fare una buona prima impressione. Noi abbiamo qualche consiglio per il caso che riguarda il vostro possibile futuro lavoro: qui di seguito vi elenchiamo alcuni consigli di cui tener conto durante il vostro primo colloquio.

Attenti alle parole. È molto importante essere padroni del proprio linguaggio, parlare fluentemente e senza intoppi, e rigorosamente in italiano. Spesso dipende anche da chi avete di fronte, magari è lo stesso intervistatore (imprenditore o selezionatore) che esordisce con espressioni e frasi dialettali, per cui sta a voi adattare il vostro linguaggio a seconda dell’occasione (senza esagerare: considerate che parlare in maniera corretta l’italiano non è mai un peccato o un difetto). Quello che però deve passare è la vostra abilità nel dialogo e la personalità che avete; è un concetto che passa tramite una conversazione nella quale sono importanti le parole, le frasi, le espressioni ma anche il tempismo con cui le utilizzate. Insomma, cercate di far passare al potenziale datore di lavoro che di fronte a se ha una persona con carattere e personalità, non un semplice burattino da manipolare a piacimento. La bella notizia è che si può imparare a farlo, la brutta è che se non siete ancora capaci dovete iniziare a studiare.

Non pensare sempre a quello. Spesso l’unico obiettivo in testa della persona che si accinge ad affrontare un colloquio di lavoro, è il focus completamente sul suo obiettivo, ottenere il posto di lavoro. Ovviamente è un ottimo modo per orientare la mente e azioni per raggiungere quell’obiettivo. Accade però troppo frequentemente che l’attaccamento all’obiettivo è più dannoso che vincente. L’atteggiamento orientato al volere a tutti i costi quel lavoro, fa passare una sorta di attaccamento all’opportunità e, soprattutto, induce a commettere errori di valutazione. Dovete entrare nella logica che anche un rifiuto alla fine del colloquio sarà per voi acquisizione di esperienze e conoscenze, per poter essere più competitivi e preparati alla prossima occasione. Inoltre un giudizio più ponderato vi aiuterà a capire con maggior facilità se quella che vi stanno proponendo è un’occasione o una sòla 🙂

Come un agente segreto. UN passo fondamentale è consocere il “nemico” prima di affrontarlo. Scoprite quanto grande è l’azienda, da quanto esiste, di che cosa si occupa nel dettaglio, insomma; cercate di raccogliere il più grande numero di informazioni possibili per essere pronti ad ogni evenienza.Spesso spulciando il sito web dell’azienda avete già fatto la metà del lavoro, poi continuate su Google e cercate attentamente tutto quello che vi può servire per conoscere l’azienda, il capo e i collaboratori. L’obiettivo è entrare in sintonia con il potenziale datore di lavoro e fargli capire che già conoscete l’azienda: questo sarà un ottimo punto a vostro favore e passerete per quelli in gamba che si son presi la briga di ricercare qualche informazione su di loro (lo apprezzeranno).

Muoversi bene. Adottate una camminata decisa e ordinata, petto in fuori, testa dritta e un briciolo di coraggio. Dvete trasmettere di essere una persona determinata, qualsiasi sia l’esito del colloquio di lavoro. Non fate l’errore madornale di pensare nella tua testa di inciampare, di commettere errori o di fare qualcosa che non vorreste fare, potreste attirare proprio quel comportamento e manifestarlo di fronte al vostro esaminatore. Siate voi stessi, con qualche trucco per abbellirvi. A proposito: cravatte e tacchi a spillo solo se li avete già indossati almeno due tre volte prima (insomma, che non sembriate impacciati)

Vestirsi meglio. Lasciate perdere prese di posizione, nella nostra società l’immagine conta eccome, non ci sono scuse, e voi dovete essere all’altezza del colloquio. Se andate a un colloquio di lavoro in una importante società è utile andarci vestiti secondo un certo criterio, ovvero dovete essere socialmente accettati. Dovete essere vestiti come se andaste a conoscere i genitori del/lla vostro/a ragazzo/a, dovete essere presentabili nella forma e nella misura più neutra possibile. Niente cose stravaganti, attenetevi al classico e alle regole non scritte della decenza e di buona norma.

E adesso: in bocca al lupo!

Imparare ad imparare

Boy reading book

Boy reading book

Che siate ancora studenti oppure già immersi nel mondo del lavoro, ci sembra evidente che il detto “nella vita non si finisce mai di imparare” sia quantomai attuale. Oggi non si può smettere di imparare cose nuove, nella vita e nella professione. Per due motivi fondamentali. Il primo è che l’evoluzione che stiamo vivendo in questa epoca ci presenta ogni giorno una novità: nel tempo abbiamo imparato a organizzare viaggi da soli con internet, a comunicare senza telefonare con un telefono (paradossale), a monitorare digitalmente quello che facciamo durante la giornata. Il secondo motivo per non smettere mai di imparare è che il mondo in cui viviamo, che lo vogliamo o meno, è davvero molto competitivo. Significa che se non siamo aggiornati, sempre, rischiamo di rimanere esclusi dalle opportunità che si presentano.

La notizia buona è che esiste un metodo per riuscire ad imparare: alcuni scienziati americani hanno scoperto 10 segreti per imparare. Alcuni faranno particolarmente piacere agli studenti, altri un po’ meno. Vediamo quali sono. Il primo è esistono i tempi giusti per imparare: non tutti i momenti della giornata sono uguali per il nostro sistema cognitivo. Per esempio le persone più adulte (se non addirittura anziane) riescono ad apprendere meglio la mattina; così come gli studi hanno evidenziato che è meglio studiare le lingue il pomeriggio e che andare a dormire subito dopo aver studiato qualcosa aiuta a consolidare l’apprendimento. Studiate e interrogatevi: il nostro cervello quando viene messo alla prova restituisce il meglio di sè (ragazzi, è per questo che a scuola ci sono le interrogazioni!). La cosa funziona anche se ci interroghiamo da soli: per cui una buona tecnica è quella di leggere qualcosa e poi chiedersi che cosa abbiamo letto, sforzandoci di ricordare temi, collegamenti, idee appena apprese. Distrarsi non è un peccato, a patto che la distrazione non coinvolga le stese funzioni cognitive che state utilizzando per imparare. Per esempio gli odori associati ad una lettura renderanno quella lettura indimenticabile ogni qualvolta percepirete lo stesso odore. Chiaramente la cosa non funziona altrettanto bene, anzi è deleteria, se a distrarvi sono WhatsApp, sms o post su Facebook. Esiste anche l’apprendimento passivo: possiamo imparare qualcosa anche mentre stiamo facendo dell’altro; se guardiamo un film in lingua riusciamo a seguire la trama e i suoi protagonisti ma al contempo a immagazzinare vocaboli che non conosciamo (e che ci rimarranno in mente!). Il team facilita l’apprendimento, soprattutto in una fase successiva allo studio da soli. Il gruppo di studio, per essere efficace, deve svolgere due attività: discussione e risoluzione dei problemi.

Bella notizia per i più giovani: i videogiochi sono un toccasana per l’apprendimento! Pare infatti che l’abilità che si sviluppa nella pratica di un videogioco, soprattutto se di azione, accelera la capacità del cervello di formare precisi modelli di coordinazione occhio-mano che aiutano l’efficienza generale della nostra mente nell’apprendere. Spesso ne sentiamo il bisogno, ma a questo punto possiamo dire che un periodo di relax è un dovere se vogliamo che le cose che impariamo possano sedimentarsi nella nostra memoria. Una pausa dedicata al rilassamento può consistere in un pisolino oppure in una partita dello sport che preferiamo: l’importante è che il corpo, oltre la mente, abbia la possibilità di rigenerarsi in qualche modo. Vi siete mai chiesti perché state imparando qualcosa? Bene, da oggi la risposta, vera o falsa che sia, può essere questa: “devo insegnare”. Fingere di essere degli insegnanti che devono riproporre i concetti che hanno studiato è un utile esercizio che migliora le nostre capacità cognitive (badate bene che se andate ancora a scuola la finzione deve necessariamente finire all’ingresso 😉 ). Scegliete bene i tempi: se oggi studio qualcosa non è detto che ripeterlo o ripassarlo immediatamente. Il nostro cervello è programmato per ricordare le cose in tempi che non sono casuali: c’è un nesso temporale preciso tra il momento in cui impariamo qualcosa e quello in cui dovremo utilizzarlo. Se per esempio volete ricordare qualcosa tra un anno, dovete ripassarlo un mese dopo averlo imparato e poi una volta al mese fino alla fine dell’anno. La nostra memoria e la nostra capacità di apprendere si comportano essenzialmente come dei muscoli: più li esercitiamo e più saranno reattivi nella risposta. Per questo è importante non abbandonare lo studio anche quando scarseggiano i risultati: in questo senso sapersi perdonare un fallimento (un corso non andato bene, un brutto voto ad una interrogazione, un esame saltato)a patto che non sia un’abitudine, ci libera da pensieri negativi e rafforza la nostre prestazioni future.

Ora che sapete come fare non vi rimane che imparare! 😉

 

 

Your Future Festival 2015

logo-yff2015Anche quest’anno è ai blocchi di partenza Your Future Festival, il festival dell’Uuniversità Politecnica delle Marche giunto alla sue seconda edizione. L’idea del Festival è quella di valorizzare le città nelle quali l’Università Politecnica delle Marche opera e favorire le connessioni tra Facoltà, studenti, ricercatori, territorio e sistemi sociali e economici.

Inseguendo questo intento quest’anno il tema centrale sono le  persone e le loro capacità: sono le persone che fanno la città, l’università. Il concept del festival recita “Il valore potenziale si esprime quando ancora il valore effettivo non si è concretizzato. Nella Persona il valore potenziale rimane manifesto quasi tutto l’arco della vita dato che i margini di crescita ed evoluzione si sviluppano continuamente. La chiave dell’evoluzione non sta nella trasformazione dal potenziale all’effettivo ma nella continua creazione di altro potenziale. Compito dell’Università è trasformare il valore potenziale della Persona, nel suo momento di massima scala, in valore di trasformazione, di conoscenza, di sviluppo e innovazione attraverso la ricerca e l’interazione tra studenti, ricercatori e sistemi sociali, economici e produttivi.” Come a dire che l’università, in una città, dovrebbe essere una sorta di motore della conoscenza per tutti e non solo per gli studenti.

Ecco perché questa settimana sarà ricca di workshop, discussioni, relazioni e momenti di intrattenimento. Si parte ufficialmente oggi pomeriggio alle 16, in Aula Magna di Ateneo “Guido Bossi” presso il  Polo Monte Dago: Il Rettore Sauro Longhi, alla presenza del Sindaco della città di Ancona Valeria Mancinelli, presenterà i vari eventi che animeranno YFF2015. Dall’incontro di studenti, ricercatori, imprese e attori del sistema economico il Festival offrirà una riflessione sulle potenzialità del Capitale Umano per il progresso della società. A seguire, in serata, con inizio alle 21.15 “Danilo Rea meets FORM“, un’accattivante rivisitazione in chiave jazz di musiche di autori classici come Čajkovskij, Ravel, Puccini, Mozart. Ad accompagnarlo in questa eccitante avventura musicale l’Orchestra Filarmonica Marchigiana diretta da Stefano Fonzi, arrangiatore e orchestratore dei brani in programma. La settimana prosegue con una serie di appuntamenti che toccano la vita universitaria e quella della città. Noi ve ne segnaliamo alcuni.

Per esempio, domani (martedì 19 maggio) alle 11, sarà la volta di “L’ultimo villaggio”: il format proposto, tra immagini, musiche, testi e riflessioni, oscillando tra teatro e giornalismo, con la conduzione del giornalista Luca Pagliari, ripercorre la vita di Agnese Sartori, antropologa e docente di Arte Scenica presso il Conservatorio “Giovan Battista Marini” di Bologna. Agnese Sartori entrò in contatto con uno degli ultimi villaggi Maya totalmente preservati, dove cultura, spiritualità e stile di vita erano rimasti immutati nei secoli. Negli anni seguenti Agnese ha visto scomparire il villaggio di Nahà ed assieme ad esso la giungla incontaminata, i giaguari, la purezza delle acque e della laguna e soprattutto quella magica spiritualità che  consentiva a questo popolo di affrontare la vita con il sorriso ed una serenità che noi abbiamo da tempo dimenticato. Nel pomeriggio dello stesso giorno, alle 17, “Green Jobs: quando l’ecologia diventa mestiere” un incontro in collaborazione con la business community FiordiRisorse per presentare l’ambiente come occasione di scelta professionale. Giovedì sarà la volta del Career Day e dello spettacolo di Dario Vergassola la sera che presenterà lo spettacolo “La ballata delle acciughe”.

Venerdì entriamo in scena anche noi: all’interno di questo festival c’è anche una nostra proposta (come forse già saprete). Venerdì mattino, alle 10.30, qui all’Informagiovani parleremo di “Professionisti dell’editoria digitale“: Quante competenze e quali professionalità ruotano attorno ad un e-book? Lo scopriremo in una tavola rotonda moderata da Antonio Tombolini (Simplicissimus Book Farm) e con protagonisti Luca Conti (autore, blogger, giornalista; presenza da confermare), Giovanni Lucarelli (docente universitario, autore, esperto di creatività), Massimo Pigliapoco (titolare Tonidigrigio, agenzia di comunicazione),Giovanna Russo (Content Manager e Copywriter), Michele Pinto (autore ed editore digitale). La sera dsarà invece la volta di Ascanio Celestini con il suo spettacolo “RAcconti d’estate” con il quale rivede i meccanismi classici delle storielle comiche facendo sì che qualcosa si inceppi e che i ruoli vengano invertiti.  Celestini si cimenta a fronte alta con le verità scomode del mondo, e lo fa con la forza gentile di chi ha, ancora, molto da dire.

Come vedete ce n’è per tutti i gusti. Il programma completo lo potete trovare qui per vederlo in digitale oppure qui se volete stamparlo. Vi aspettiamo!

Per cosa vorreste essere ricordati?

per cosa vorreste essere ricordatiLa signora Rita era un’insegnante di pianoforte. E anche una riconosciuta musicista che teneva concerti. Era anche una professoressa premiata per la sua attività didattica. Nella vita privata era una attivista per i diritti civili, soprattutto nella zona in cui viveva. Era anche una scrittrice, con tre libri dedicati ad un pianista famoso. Era anche la direttrice di una scuola di musica ed un membro di una giuria di un concorso musicale per una decina di anni. Quando la signora Rita morì se aveste chiesto ad uno dei suoi studenti chi fosse la signora Rita, questi vi avrebbe risposo semplicemente “la mia insegnante di piano”; se lo aveste chiesto ad uno dei lettori dei suoi libri vi avrebbe risposto “l’autrice del libro…”. E infine alla stessa domanda i suoi amici avrebbero risposto “una simpatica amica che suonava il piano”.

Questo aneddoto, tratto da una storia vera riadattata un po’ a questo contesto, in realtà ci sere solo a definire meglio una risposta alla domanda del titolo: per cosa vorreste essere ricordati? Oggigiorno probabilmente noi tutti non facciamo una sola attività e non siamo impegnati soltanto in un settore. Ad esempio qualcuno di voi avrà due biglietti da visita oppure, anche senza, sarà nella situazione di dover scegliere tra due opzioni alla domanda: “che lavoro fai?”. Notate una cosa: quando rispondete con il lavoro A e con il lavoro B, raramente la persona che avete davanti vi chiederà maggiori informazioni (per saperne di più) su entrambe le opzioni. Chi sarà rimasto “colpito” dal lavoro A vi chiederà maggiori informazioni su quello, chi avrà trovato più interessante (per qualunque motivo) il lavoro B chiederà altre cose sul lavoro B. Potremmo scommettere che dopo qualche tempo (a volte una questione di minuti) i due soggetti, dei lavori che fate, si ricorderanno solo quello sul quale vi hanno fatto alte domande, quello a cui erano interessati maggiormente. Dimenticando che avete anche un altro lavoro.

Questo meccanismo funziona anche per quello che siete oltre che per le cose che fate. Per cui facilmente potreste essere ricordati per quelli che protestano sempre, per quelli che non salutano mai, per quelli che sono poco socievoli, per quelli che non sorridono mai. Nessuno di noi vorrebbe essere ricordato per questi aspetti chiaramente. E forse nessuno esaurisce la propria personalità soltanto con uno di questi momenti. Ma la memoria (nostra e altrui) non sempre fa il nostro gioco. Per cui per evitare di lasciare un brutto ricordo sarebbe bene,in generale, evitare di condurre i comportamenti sopra descritti con frequenza.

Allora la domanda “per cosa vorremmo essere ricordati?” dovremmo porcela prima di scegliere di fare una cosa o di non farla. Vale anche per i lavori o le disponibilità che diamo: ad esempio se accettiamo troppo spesso si lavorare con un compenso bassissimo o uguale a zero rischiamo di essere definiti come quelli a cui non c’è bisogno di dare molto denaro. Chiaramente ciascuno vorrebbe essere ricordato per cose che ritiene positive o che fanno piacere. Ecco perché un buon esercizio da fare è quello di analizzare le cose che facciamo chiedendoci: vorrei essere ricordato per questo lavoro? Per questa attività? Per questo comportamento? Ogni volta che la risposta è “no”, significa che quel lavoro, attività, comportamento dovrebbe rientrare tra quelli che non fate più Ogni volta che al risposta è “sì” invece si tratta di lavori, comportamenti e attività che dovreste attivare più spesso. Otterrete due risultati: fare cose piacevoli e essere ricordati con un’immagine che vi appartiene.

Disciplinati e contenti

disciplinati e contentiUna delle cose che fa l’Informagiovani, oramai si è detto un sacco di volte, è orientare le persone. Che cosa vuol dire nello specifico? Tradotto nella pratica vuol dire molte cose. Per esempio significa in un servizio come il nostro se fai una domanda la risposta che ricevi potrebbe non essere solo quella che cercavi, perché cerchiamo di capir se stai cercando davvero quello che fa per te (e per scoprirlo spesso ad una domanda tocca rispondere con un’altra domanda).

Le informazioni che trovi non sono quasi mai a caso e nemmeno le prime scoperte: ogni cosa che viene proposta proviene da un processo di analisi, selezione e verifica delle notizie che riporta (ecco perché difficilmente si trovano titoli a tutta pagina come nelle locandine dei giornali locali). Infine significa che un Informagiovani propone anche informazioni e notizie che non son fatte per avere “successo” (cioè lette, viste e considerate da migliaia di persone); ma stanno lì perché possono essere utili anche se non sono abbastanza affascinanti (e come potrebbe essere affascinante la spiegazione di come si compone una lettera di presentazione?).

Ad ogni modo, per utilizzare un termine che va sempre meno di moda in questi tempi, l’Informagiovani è un servizio che cerca anche di educare. Parola da utilizzare con cautela perché nella migliore delle ipotesi chi la sente potrebbe non gradire non fosse altro per il fatto si sentirsi ricondotto e considerato come un infantile. In realtà la parola educazione ha un’origine tutt’altro che infantile: viene dal latino ed è composta dalla particella “e” che significa “da, di, fuori” e da “ducere” che significa “condurre”. Volendo quindi approssimare una traduzione educare significa condurre fuori, estrapolare qualcosa da qualcuno. Molto diverso da “insegnare” e da “formare” che prevedono la presenza di un soggetto che in qualche modo modifica le nostre conoscenze o le costruisce da zero. Il significato di educazione è più ampio e mirante ad estrapolare e potenziare anche qualità e competenze inespresse che non hanno però bisogno di essere instillate nel soggetto perché quest’ultimo le ha già, solo che non lo sa (come diceva Quelo, il personaggio interpretato da Corrado Guzzanti, “la risposta è dentro di te, e però è sbagliata” 🙂 ).

Un esempio di educazione lo vogliamo riportare anche in questo post (potete utilizzare i post per dirci se lo condividete o meno). Riguarda il nostro comportamento, sono le regole che secondo Tolstoj servono a condurre una vita perfetta (e che abbiamo ritrovato in questo post de Linkiesta). non sappiamo se possono essere davvero utili per tutti gli aspetti della nostra vita, ma magari alcuni possono essere utili per quella professionale (ed è per questo che possiamo considerarle in qualche modo un suggerimento orientativo). Una piccola premessa: nessuno ha mai raggiunto il successo (professionale o meno) passeggiando e fischiettando e quindi un po’ di disciplina può tornareutile (anche se il termine suona militaresco). In questo senso dello scrittore russo Lev Tolstoj pochi conoscono la sua disciplina d’acciaio. La possiamo riassumenre in una serie di regolette (lui le chiamava “regole di vita”) che descrivono il suo inesorabile percorso verso l’ascetismo. Vi potete farne l’uso che volete (compreso quello di far finta di non averle mai lette, se ci riuscirete). ecco quindi in estrema sintesi quello che dovremmo fare:

  1. Svegliati alle cinque
  2. Vai a dormire non più tardi delle dieci
  3. Durante il giorno si può dormire al massimo due ore
  4. Mangia con moderazione
  5. Evita i dolci
  6. Cammina almeno un’ora
  7. Fai una cosa alla volta
  8. Al bordello ci puoi andare al massimo due volte al mese
  9. Smetti di pensare a cosa pensano di te gli altri
  10. Ama le persone cui puoi essere utile
  11. Disprezza ogni opinione diffusa che non sia fondata sulla ragione
  12. Smetti di pensare a cosa pensano di te gli altri
  13. Evita i voli dell’immaginazione, tranne quando non sia necessario
  14. Aiuta chi è meno fortunato

Che ne pensate? A parte la numero 8, che quantomeno andrebbe attualizzata, vi sembra che le altre possano fare al vostro caso? Al di là delle abitudini di sonno e veglia crediamo che possano essere consigli utili e da tenere in mente anche nella vita che ci troviamo a fare anche 100 anni dopo Tolstoj. Noi ne aggiungeremmo soltanto una, la numero 15: seguite le regole precedenti solo se vi rendono felici.

L'arte di (far) scegliere

l'arte di far scegliereAl supermercato ci avviciniamo alla corsia dove dobbiamo prendere i biscotti per la colazione e troviamo subito i nostri preferiti: la busta gialla lì davanti a noi contiene i nostri preferiti, quelli che avevamo proprio voglia di addentare la mattina appena svegli. Li abbiamo scelti perché sono croccanti al punto giusto, ci saziano senza appesantirci, rispettano la nostra dieta ma anche al nostra fame. Insomma, sono quasi perfetti e siamo felici della nostra scelta. L’abbiamo fatta davvero noi? Quei biscotti stanno in quel posto nel supermercato non per puro caso o perché l’abbinamento dei colori delle confezioni suggeriva quella posizione. Il motivo per cui stanno lì è dovuto ad un processo in cui si mischiano marketing, pubblicità, gestione del magazzino e delle vendite, promozioni, accordi commerciali e qualche trucco. Insomma forse quella scelta non l’abbiamo fatta proprio noi: sfruttando il nostro inconscio qualcuno è riuscito a “darci le giuste indicazioni” per arrivare a quella scelta. Un esempio ulteriore, sempre da supermercato: caramelle, gomme da masticare e mentine si trovano in grande abbondanza vicino alle casse. Non solo perché si dice siano “acquisti di impulso” ma anche perché se andaste a vedere il loro costo effettivo prendendovi qualche istante in più (che solitamente alle casse non avete) scoprireste che le mentine potrebbero costare anche fino a 200 euro al chilo (e probabilmente non le scegliereste).

L’arte di far scegliere alle persone si può chiamare persuasione o, nei casi più complessi ed organizzati, marketing. Ne sanno qualcosa anche i ristoratori ed in generale coloro che compilano i menù, come ci spiega questo articolo de Linkiesta. “L’arte di compilare il menù sta nel creare un elenco sensato delle pietanze, disporlo in modo gradevole, con scrittura chiara e font accattivanti e – soprattutto – comporlo con furbizia, adescando il cliente e facendogli ordinare cose costose.”  I trucchi principali che i ristoratori, o chi per loro, seguono sono fondamentalmente tre. Il primo è relativo alle opzioni di scelta: un’ampia scelta crea confusione e mette in uno stato di confusione/agitazione il cliente. Per cui meglio limitare la scelta a 4/5 opzioni per ogni categoria del menù (primi, secondi, contorni, ecc.). La seconda riguarda i numeri ed i prezzi: se sono presentati senza lo zero e scritti in lettere anzichè in cifra fanno molta meno impressione anche quando sono un po’ più alti. Infine, come nei supermercati, la posizione che le varie pietanze hanno la loro importanza. “Ci sono posizioni, sulla carta del menù, che valgono di più rispetto ad altre. Sono quelle che saranno visti di sicuro, su cui gli occhi del cliente saranno costretti a posarsi. E lì finiscono i piatti più cari. Gli antipasti e le insalate sono a sinistra, spesso anche in basso. Sono le leggi del menù“.

Questo è quello che accade quando siamo noi dalla parte di chi crede di scegliere. Ma ci sono occasioni in cui siamo noi a dover compilare un menù? Anche se non siamo ristoratori forse c’è un’occasione in cui dobbiamo servire dei piatti e li dobbiamo presentare bene fin dalla loro descrizione. Si chiama curriculum vitae (e tutte le sue evoluzioni, compreso un profilo Linkedin o una identità digitale) ed è il menù delle nostre competenze. Anche per il cv valgono alcuni trucchi che possiamo serenamente riprendere dai ristoratori. Opzioni di scelta: nessun datore di lavoro ci sceglierà perché abbiamo elencato 14 lavori diversi nel nostro cv, ma sarà portato a prenderci maggiormente in considerazione se le limitiamo a 4/5, possibilmente coerenti tra loro. Cifre: scriviamole e scriviamole bene; il voto del diploma, il voto di laurea, il numero di anni in una certa posizione, la data di inizio di un certo lavoro (ma anche il numero di telefono). I numeri sono importanti come le parole e spesso sintetizzano un concetto meglio di tante parole (non nascondiamo il voto che non ci piace, ahinoi sarà una delle cose più facili da scoprire anche se non ci sta scritto). Posizioni: che cosa va all’inizio e che cosa va alla fine? L’organizzazione classica prevede che prima ci sia il blocco con le informazioni anagrafiche e di contatto, poi la formazione, poi le esperienze ed infine tutto il resto. Ma ci sono disposizioni diverse che potrebbero essere più adatte in certe circostanze. Per esempio, la conoscenza delle lingue in una candidatura in cui è un requisito fondamentale possiamo farla salire di qualche posizione in classifica; il corso di formazione specifico per quella posizione può stare benissimo prima del diploma.

Compilare un cv è un po’ come compilare un menù: dovete conoscere i vostri clienti, sapere quello che preferiscono “mangiare”, dare loro la possibilità di scegliervi anche se c’è qualcuno che, forse, è migliore di voi. Ma non sa compilare un menù.

Non c'è più niente da inventare

non ce niente da invenatreLa creatività, come abbiamo scritto più volte anche in questo blog, può essere una grande alleata in tempi di crisi occupazionale: inventarsi un lavoro, come si usa dire, a volte è l’unica strada veramente percorribile per chi cerca un’occupazione. Ma possiamo davvero inventarci un lavoro dal nulla? Veramente il nostro ingegno può essere ancora capace di trovare qualcosa che non esiste? Esiste ancora la possibilità di far nascere dal nulla qualcosa che prima non esisteva? Rispondere affermativamente a queste domande può essere al tempo stesso un bene o un male. Per rispondere potrebbe forse essere utile capire che cosa accade nel mondo delle invenzioni, quelle vere.

In un articolo apparso su The Economist e ripreso dalla rivista Internazionale di questa settimana, c’è una analisi sommaria ma abbastanza precisa di quel che accade nel mondo dei brevetti. La rivista ha preso in considerazione l’evoluzione quantitativa e qualitativa dei brevetti, le invenzioni registrate per dirla con altre parole. Quello che si può notare è che le vere invenzioni si fermano in realtà a quai due secoli fa. Anche se i brevetti registrati nel tempo hanno mantenuto una crescita costante o sono aumentati, quelli basati su scoperte del tutto nuove sono in realtà diminuiti o quasi scomparsi. facciamo un paio di esempi (un po’ vecchi). La lampadina: chiaramente si tratta di una invenzione ma in realtà non di una novità in assoluto; la lampadina non fu altro che la combinazione di alcune scoperte precedenti che nessuno, prima di Edison, ebbe l’intuito di mettere insieme (tanto di cappello, comunque!). Il transistor invece, nato a metà del ‘900, ha origine da una serie di scoperte contestuali alla sua invenzione (chi lo ideò non fece una mera opera combinatoria). Per quanto straordinari, questi due oggetti che hanno rivoluzionato la nostra vita sono nati da processi generativi diversi: il primo per una sorta di mescolamento di scoperte, il secondo per pure invenzione. Intendiamoci, magari averla oggi l’intuizione di entrambi. Ma il fatto è che oggi le invenzioni, per una serie di motivi, sono sempre più simili a quella della lampadina. La verifica di questo fatto si può fare controllando i codici con cui vengono catalogati i brevetti: per farla breve, se il codice è composto da due serie di numeri si tratta di una invenzione/combinazione, se invece il codice è fatto di una sola serie siamo davanti ad una invenzione pura (ed indovinate un po’ quante serie di numeri hanno la maggior parte delle invenzioni degli ultimi decenni?).

Ecco quindi che se parliamo di invenzioni pure il genere umano pare sia in un punto si stand-by (e a detta di qualcuno forse le biotecnologie daranno nuova spinta su questo versante). Ma per tornare alla domanda iniziale: si può inventare un lavoro? Stando a quello che ci racconta il mondo dei brevetti sul genio umano, diremmo proprio di no. Però sicuramente si può scoprire qualche nuova nicchia di mercato “mescolando” scoperte 8e bisogni) che esistono già. Se è vero che Edison per inventare la lampadina ha messo insieme scoperte non sue in una maniera nuova ed originale, forse noi potremmo fare la stessa cosa mescolando e rivisitando lavori, mansioni e servizi che esistono già (senza la pretesa, chiaramente, di diventare i nuovi Edison). D’altra parte ci sono imprese di successo che hanno fatto proprio questo. Uber, la famosa compagnia di servizi di noleggio con conducente, non ha mica inventato un servizio (i taxi, ed ancor prima gli autisti, esistono da tempo immemore): ha solo trovato un modo diverso di proporlo, mescolando il mondo delle quattro ruote con quello del digitale. Di esempi del genere se ne potrebbero fare a bizzeffe. Quindi quando qualcuno ci dirà di inventarci un lavoro se lo vogliamo trovare, potremo correggerlo dicendo che non c’è più niente da inventare. Semmai, si tratta di trovare la giusta combinazione.

Internet delle cose

internet delle coseInternet delle cose“: questa espressione, un neologismo che nasce in realtà quasi 10 anni fa racconta un po’ il mondo attuale ed un po’ anche il futuro. Innanzitutto che cosa significa? Se qualcuno ancora non se fosse accorto internet non è soltanto un qualcosa che riguarda i computer e il loro modo di scambiare informazioni e portarci a conoscenza di un sacco di cose (come ad esempio dell’ultima offerta per le nostre sneaker preferite). Internet può interagire anche con altri oggetti, dare comandi a distanza, attivare apparecchiature e molto altro. Oggi è davvero possibile accendere il termosifone di casa dall’ufficio anche senza averlo programmato in precedenza; oppure farlo accendere automaticamente quando la temperatura esterna scende sotto ad un certo livello. In maniera più evoluta il frigorifero può ordinare lo yogurt quando si verificano le due condizioni della scorta in esaurimento e del prezzo in offerta al supermercato.

Questi esempi sono legati ad un settore come la domotica, ma l’utilizzo della rete può essere applicato a molti settori. Se solo pensate a quante cose potete fare oggi con uno smartphone, capirete che quella che abbiamo davanti è un’era completamente nuova e diversa rispetto a quelle che abbiamo vissuto. Facciamo questo paragone: se nell’epoca di Gutemberg l’occhio ha superato l’orecchio come organo sensoriale dominante nell’uomo, quale sorpasso dobbiamo aspettarci oggi? Se le nostre scarpe sono collegate a una applicazione in grado di dirci quanti passi facciamo, quante calorie consumiamo e a che ritmo va il nostro cuore, significa che il grado di coinvolgimento e di interazione che abbiamo con le scarpe non è solo legato alla comodità con cui ci camminiamo o corriamo. La trasformazione del nostro rapporto con le cose è la vera rivoluzione prossima ventura. Se volete provare alcune di queste meraviglie applicate anche a piccole cose potete provare Atooma, un’applicazione che connette internet acose ed azioni della vita quotidiana (con qualche sorpresa).

C’è poi un altro aspetto da considerare e riguarda la quantità e qualità di dati che in questo modo vengono acculati su di noi. Chi gestisce l’applicazione collegata a quella scarpa saprà di noi molte più cose di un tempo. la domanda è: come utilizzerà queste informazioni? Nella migliore delle ipotesi cercherà di darci consigli e suggerimenti per migliorare la nostra forma fisica oppure la nostra dieta; in una ipotesi un po’ meno raffinata potrà suggerirci di cambiare le scarpe un po’ prima della loro usura finale. Ma qui non ci sono ipotesi più o meno ottimistiche, ci sono in ballo altri fattori, come la privacy e la riservatezza della nostra vita quotidiana, della nostra intimità Chi entra così tanto nelle nostre vite private? E quali effetti può generare sulla nostra percezione dei confini tra pubblico e privato L’importante, almeno per ora, è esserne consapevoli.


Comunicazione: in occasione del prossimo ponte del primo maggio anche il nostro blog si ferma un po’: i post riprenderanno le loro regolari uscite tra una settimana, il prossimo 6 maggio. A voi tutti i migliori auguri di un buon 1° maggio e, agli anconetani buona festa del patrono e buona Fiera di San Ciriaco!

Fiera San Ciriaco

Trovare il lavoro che (non) ti piace

trovare lavoro che non ti piaceChi di noi sta facendo un lavoro (trattasi di attività professionale remunerata, meglio ricordarlo di questi tempi) si sente spesso già fortunato da non mettersi anche a sindacare o discutere sul fatto che il lavoro gli piaccia o meno. Questo almeno per i primi mesi. Poi iniziano ad aumentare le grane, le cose che non vanno, i soldi che non bastano, le opportunità di crescita e carriera che scarseggiano e via discorrendo. Come dice a volte il comico Bertolino, il lavoro è quella cosa che lottiamo allo sfinimento per avere e che poi quando abbiamo non vediamo l’ora di lasciare. Insomma, i sentimenti che ci legano la lavoro che facciamo sono mutevoli e contradditori.

Dal nostro canto abbiamo sempre sostenuto che fare un lavoro che ci piace è essenziale: 8 ore al giorno, 5 giorni alla settimana, 50 settimane all’anno (se ci va bene), per circa 35/40 anni (se ci va benissimo) sono un mucchio di tempo, ben oltre la metà della nostra vita adulta. Passare tutto questo tempo a fare un lavoro o svolgere una mansione che non ci piace può avere conseguenze pesanti anche sugli aspetti non professionali della nostra vita. La soluzione migliore sarebbe quella di scegliere un lavoro che ci piace, ma non sempre è possibile (anche se attuare una corretta strategia nella ricerca del lavoro può essere determinante in questo senso). Cosa fare allora se rimaniamo “incastrati” in un lavoro che non ci piace?

In nostro soccorso viene l’autrice di un libro che si propone di offrire consigli e suggerimenti per una carriera ed una vita professionale (il titolo in inglese è “Love your job: the new rules for career happiness” e lo ha scritto Kerry Hannon, giornalista statunitense. La giornalista oltre alle soluzioni più immediate che vanno dalla ricerca di un nuovo lavoro alla richiesta di aumento della retribuzione (che non è in realtà la vera causa del nostro malessere), propone anche delle ricette pratiche per fare “pace con il proprio lavoro”. In primo luogo eliminare il superfluo: il disordine, il caos, le situazioni in stand-by, le liste di cose da fare, le urgenze e tutto ciò che “inquina” il normale scorrimento di una giornata lavorativa può essere considerato disordine (così come quello della scrivania). Per ritrovare l’armonia come prima cosa bisogna fare ordine. Aiutare gli altri ci aiuta a fare pace con noi stessi, a toglierci di dosso i pensieri negativi e a diventare consapevoli dei bisogni delle altre persone: per questo potrebbe essere utile fare del volontariato, dedicarsi ad attività extralavorative che rappresentino un contributo alla collettività. Crescere solitamente è un buon modo per tornare ad apprezzare le cose che si stanno facendo: per questo può essere utile investire (anche tempo proprio) nella formazione e nello sviluppo delle proprie competenze, anche senza un preciso sviluppo professionale già come obiettivo. Mantenere un clima lavorativo sereno e delle buone relazioni con i colleghi è un buon modo per ritrovare il giusto equilibrio all’interno della propria sfera lavorativa.

Se il lavoro che stiamo facendo (o l’ambiente che stiamo frequentando) non ci piace ma non possiamo lasciarlo, dobbiamo essere abbastanza intelligenti e creativi per ritrovare il nostro giusto comfort.

Nuove professioni crescono

professione-ebookA volte le nuove professioni nascono senza che ce ne accorgiamo. O, meglio, non nascono esattamente come nuove professioni, nascono come “altre cose”, idee e sviluppi che pi portano anche alla nascita di nuove professioni. Parlando di tecnologie non è che il social media manager sia nato una mattina per invenzione di qualcuno o perché un’università ha deciso ad un certo punto di creare una laurea per definire questa professione. Più semplicemente e più coerentemente sono nati i social media, sono cambiate le modalità di comunicazione, si sono intensificate relazioni e modalità di gestirle e a un certo punto c’è stato bisogno di qualcuno che lo facesse di professione. Per guardare alla professione che potremo fare in futuro oggi non possiamo più aspettare annunci di lavoro, richieste più o meno strabilianti delle aziende, attivazione di fantasiosi corsi di formazione. No, niente di tutto questo. quello che dovremmo imparare a fare è guardare alla società e al contesto in cui viviamo e chiederci: cosa potrebbe essere utile? Quali sono i bisogni espressi? Quale competenze possono risolverli? Non si tratta di predire il futuro, ma di saper analizzare il presente.

Probabilmente è quello che hanno fatto i nostri amici di Pepelab quando hanno pensato di creare un percorso formativo intitolatoProfessione e-book: come vedete non hanno inventato nessuna professione, sono andati diretti alla sostanza. Innanzitutto una premessa che forse non è necessaria ma tant’è. Gli e-book tutti sanno cosa sono, ma forse non tutti sono consapevoli del fatto che non si tratta di un mercato che riguarda solo “quelli che vogliono farsi il libro da soli”. Attorno all’editoria digitale ruota un mondo complesso frequentato da editori, grafici, addetti marketing, informatici, software, distribuzione, logistica ed anche di scrittori (ci mancherebbe!).

Come forse qualcuno avrà letto il mercato degli e-book è in crescita: secondo il rapporto dell’Associazione Italiana Editori del 2014 il mercato del libro digitale ha registrato lo scorso anno un incremento del 40%. Un dato ancor più rilevante se si pensa che la stessa analisi riporta invece un calo dei lettori in Italia. Insomma, si tratta diun mondo da esplorare ed è per questo, forse, che il percorso ideato da Pepelab potrebbe attirare l’attenzione di quanti lo vogliono scoprire e approfondirne segreti e caratteristiche.

Professione e-book è un percorso che si sviluppa in 3 week end che sono al contempo 3 moduli e 3 workshop. Su 3 tematiche differenti. Il primo modulo è introduttivo e servirà a conoscere il mondo dell’ebook: “non daremo nulla per scontato e ti accompagneremo per mano alla scoperta degli aspetti più importanti: le tecnologie, i formati, gli standard, le opportunità del mercato. Valuteremo quali canali utilizzare per pubblicare il tuo ebook, come metterlo in vendita negli store digitali e inizieremo a conoscere le strategie per renderlo più visibile e promuoverlo al meglio”. Il secondo modulo entrerà nel vivo della questione affrontando la realizzazione pratica di un testo digitale: “come è fatto un ebook “sotto il cofano”, qual è la sua struttura e quali sono gli aspetti e le specifiche tecniche da tenere presenti nella sua progettazione. Prenderemo inoltre familiarità con alcuni tra i software più conosciuti e utilizzati per la produzione di ebook. Insomma, ci sporcheremo le mani lavorando nella nostra “officina dell’ebook”!“. Il terzo ed ultimo modulo è rappresentato da 3 differenti workshop dedicati al self publishing, all’ebook e fumetto, all’ebook e fotografia. A fine corso ci ritroveremo insieme per un focus dedicato a promozione e visibilità.

Questo percorso è dedicato a chi ha deciso di non stare ad aspettare che nasca una nuova professione ma vuole nascere insieme a lei. Per conoscere modalità di iscrizione, promozioni in corso (eh già, ci sono sconti e offerte), tempi ed avere altre informazioni vi consigliamo di contattare Pepelab: dite che vi mandiamo noi 😉

Ottimismo, con prudenza

Businessman helps statisticAd inizio 2015 è arrivata finalmente la notizia positiva: i contratti a tempo indeterminato sono in aumento! Merito chiaramente della nuova contrattualistica del lavoro che permette maggiore flessibilità ai datori di lavoro nell’eventuale recessione anche da un contratto senza scadenza. Nonostante questo i dati sulla disoccupazione continuano a non essere positivi: il tasso è salito di nuovo al 12,7% “bruciando” di fatto anche i deboli miglioramenti precedenti. Ora la domanda sorge spontanea: sul versante lavoro dobbiamo cominciare ad essere ottimisti o sono tutte chiacchiere?

Per rispondere in una maniera che non sia banale o ideologica, ci siamo affidati a questo articolo apparso su Lavoce.info sito di informazione economica e non solo. Andando con ordine: i dati Istat, quelli che informano sulla disoccupazione, raccontano di una sorta di andamento sussultorio durante gli ultimi mesi (a settembre 102mila occupati in più, a ottobre 35mila in meno, a novembre altri 61mila in meno, poi a dicembre di nuovo 42mila in più, a gennaio aumento di altri 7mila, infine a febbraio calo di 44mila). La questione è che i dati ISTAT vanno letti sul lungo periodo e queste variazioni di mese in mese non hanno molto senso anche perché sono in parte collegate a quello che può essere considerato un errore di carattere statistico (la rilevazione, seppur fatta in maniera rigorosa, è sempre l’analisi di un campione). L’aumento dei contratti a tempo determinato non è invece una rilevazione statistica, ma un computo numerico che attesta un aumento dei contratti a tempo indeterminato rispetto all’anno precedente nello stesso periodo.

Ora si tratta di capire se l’aumento dei contratti rappresenta anche un aumento delle posizioni e dei posti di lavoro: perché alcuni di questi contratti potrebbero essere trasformazioni di contratti precedenti con scadenza (in quei casi il posto di lavoro è sempre lo stesso, non c’è creazione di nuovi posti di lavoro). Inoltre bisogna considerare se alla crescita dei contratti a tempo indeterminato non corrisponda anche una crescita delle cessazioni: in altre parole se e quanti licenziamenti o fine contratto ci sono in corrispondenza dell’aumento degli indeterminati, in quel caso il saldo dei posti di lavoro potrebbe essere nullo od anche negativo (se aumentano di 100 i contratti di lavoro a tempo indeterminato e al contempo si verificano 120 cessazioni i posti di lavoro sono 20 in meno). Su questo punto Lavoce scrive “I dati disponibili per il Veneto attestano chiaramente che nel primo trimestre 2015 gli ingressi nella condizione di occupato a tempo indeterminato hanno sopravanzato le uscite; i dati nazionali, pur limitati al primo bimestre, convalidano un bilancio analogo. Non solo: il saldo 2015 risulta nettamente più positivo del corrispondente 2014 e perciò comporta il netto miglioramento della dinamica dell’occupazione dipendente a tempo indeterminato anche su base annua. Certo, non è ancora sufficiente a riportare il saldo annuale su valori positivi: per conseguire questo risultato occorre che il trend innescato nel primo trimestre 2015 continui per almeno altri cinque-sei mesi“.

Dunque, per tornare alla domanda iniziale, c’è da stare allegri o no? In sostanza l’incremento dei contratti a tempo indeterminato rappresenta un primo segnale di miglioramento dell’intero mercato del lavoro anche se da solo non è sufficiente per dire che siamo sulla buona strada e, soprattutto, allo stato attuale dei fatti, ha prodotto risultati che su base annua sono ancora troppo deboli. L’altra notizia positiva è che in generale un numero maggiore di assunti non ha comportato la perdita di posti di lavoro anche se i dati rispetto a contratti diversi da quello indeterminato non sono positivi.  Due sono le cose che sicuramente possiamo affermare senza tema di smentita: “sicura crescita, nel 2015, delle posizioni di lavoro a tempo indeterminato e la sostanziale stabilità nell’ultimo semestre, al netto di oscillazioni mensili che non meritano attenzione, degli occupati totali. In altre parole: ottimismo, con prudenza.