Cosa sono le competenze?

Sono in molti a pensare che i lavori di domani si fonderanno sulle competenze piuttosto che sui titoli. Spieghiamo la differenza, almeno a nostro modo di vedere. I titoli sono “etichette” che possiamo metterci ed esibire quando qualcuno ce le consegna. Così diventiamo ingegneri, per esempio, solo quando, dopo un percorso universitario, otteniamo il titolo di studio della laurea in ingegneria; oppure siamo giornalisti solo quando un ordine, previo apposito iter ed esame, dichiara che possiamo firmare articoli di giornali e riviste. Niente di male, per carità. Solo che questo meccanismo oltre ad avere indubbi vantaggi (pensate ad esempio alla professione del medico, per la quale il titolo garantisce uno standard di qualità e sicurezza per tutti) ha anche qualche pecca. Per esempio non contempla professioni emergenti che, non rientrando dentro nessuna categoria già preordinata, sfuggono anche a titoli di qualsiasi genere (quando potete dire di essere social media manager?).

Ma il difetto, se così lo vogliamo chiamare, più grande è la logica che sottende a questo tipo di impostazione. Avere un titolo ci fa pensare (a volte pretendere) che sia nostro diritto avere anche un lavoro, una mansione retribuita per quel tipo di titolo. Non che la pretesa sia assurda, ma cosa succede se dato un tot di laureati in giurisprudenza non ci sono posizioni sufficienti per tutti? La risposta nella realtà la conoscete tutti. Questo meccanismo non è sbagliato in senso assoluto, solo che non corrisponde più e non è più adattabile all’attuale mercato del lavoro.  Proviamo avedere se, diversamente, può accadere qualcosa di diverso partendo dalle competenze.

Innanzitutto: cosa sono le competenze? Etimologicamente competenza deriva dal tardo latino competentia, sostantivo di competere (cum, insieme, più petere, dirigersi verso, cercare di avere, aspirare). Competere significa dunque: –Incontrarsi, convergere al medesimo punto –Concordare –Spettare, essere applicabile –Essere padrone di se stesso, cercare insieme (allo stesso tempo) di ottenere qualcosa –Essere adatto, capace di (in senso figurato). Riprendendo una definizione più vicina ai temi del lavoro, proposta da ISFOL, la competenza professionale è un insieme di elementi/dimensioni che concorrono all’efficacia di un comportamento professionale; è finalizzata all’azione ed è intrecciata alla capacità di fare e alla conoscenza delle situazioni e dei contesti. insomma dentro la competenza c’è tutta la nostra professionalità; e l’insieme delle nostre competenze fa di noi professionisti di un determinato campo. Avere delle competenze, quando cerchiamo lavoro, dovrebbe farci fare questa domanda: a chi possono essere utili? L’ottica, rispetto a quella del “posto di lavoro” per titoli, è nettamente diversa anche se il risultato atteso è identico.

Se cominciamo a porci nel mercato del lavoro come professionisti in grado di offrire delle competenze la strategia che dovremmo seguire non è tanto quella di trovare un posto, quanto quella di capire quale bisogno o quale utilità possiamo offrire a chi ci potrebbe pagare per avere i nostri servizi. Il meccanismo che regola questa strategia è lo stesso che seguono aziende ed imprenditori quando decidono di posizionarsi in un mercato. C’è un libro che racconta meglio e in maniera più esaustiva tutto questo: è “Business model you” di Tim Clark, tradotto anche in italiano dalla casa editrice Hoepli. Ah, se volete potete consultarlo gratuitamente anche all’Informagiovani!

Concentrazione minima

“Attenzione!” è questo l’incitamento che con maggiore frequenza e facilità troviamo in contesti diversi della nostra vita: per strada, a scuola, in casa. “Attenzione” è un ammonimento, ma anche un avvertimento, che richiama all’ordine prima il nostro sguardo e poi la nostra mente. La nostra mente ha, infatti, una forte inclinazione a disimpegnarsi, a divagare (e la frequenza con cui questo richiamo viene fatto ne è la dimostrazione). A chi non è capitato di distrarsi? O, meglio, chi non è mai distratto? La disattenzione, a parte i film di spie e 007, è un fattore intrinseco dell’essere umano: tutti noi ci distraiamo (e peggio sarebbe se non fosse così).

La mente umana, spesso e volentieri, vaga senza una meta apparente: non significa che sia inattiva, semplicemente non è focalizzata su di un obiettivo (e quel “attenzione!” magari gridato serve proprio a ricondurci all’obiettivo). Quando ci capita di distrarci, però, non è che il nostro cervello se ne stia lì ad oziare: nel concedersi spazi di svago, nel distaccarsi dalla contingenza la mente esercita anche altre facoltà, con esisti vantaggiosi per noi stessi e gli altri. E allora: a che cosa pensiamo quando non pensiamo a nulla? In un libro intitolato “The wandering mind” (sottotitolo tradotto: che cosa fa la mente quando non guardi”) si cerca danno più risposte a questa domanda. Quello che il nostro cervello fa durante lo “svago” è una ricombinazione di stimoli che durante la fase di attenzione ha ricevuto. La nostra memoria è composta infatti da tre sostanziali livelli. Il primo è quello delle competenze (skills) come per esempio parlare, camminare, scrivere, ecc. Il secondo livello è quello delle conoscenze (knowledge): si tratta dell’insieme delle nozioni che abbiamo ricevuto, in tutti i contesti in cui le abbiamo assimilate (non solo, quindi, la didattica formale). E infine quella che viene definita più comunemente come memoria, cioè la capacità di ricordare, riattivare esperienze del passato. Su questo ultimo livello la nostra mente, stranamente, propende più a guardare la futuro che non al passato, tanto è vero che le zone cerebrali che si attivano ricordando eventi del passato, sono le stesse che si attivano quando pensiamo al futuro.

Se paragoniamo il nostro cervello ad una città, nelle fasi di ozio non è che le strade siano deserte, ma gli abitanti attendono a casa propria salvo confluire in un medesimo posto quando accade un evento importante. Quindi quando divaghiamo, in realtà viaggiamo: oltre che tornare al passato, facciamo anche dei viaggi futuristici immaginandoci possibili scenari futuri. E poi facciamo anche un’altra cosa incredibile: secondo la “teoria della mente” abbiamo l’attitudine a rappresentarci gli stati mentali altrui. In altre parole ci facciamo delle domande e cerchiamo delle risposte su quello che potrebbero pensare gli altri. A volte facciamo anche il salto del cosiddetto “mettersi nei panni degli altri”: sviluppare la disposizione a mettersi nei panni altrui aumenta ala possibilità di comprensione reciproca, di empatia e interesse sociale, con evidenti vantaggi per la sopravvivenza del gruppo.

Questo vagabondare della nostra mente è anche alla base della creatività: si passa dalla fantasticheria privata a un esercizio sociale dell’immaginazione; è il piacere di girovagare nella mente altrui che ci induce a creare personaggi d’invenzione, apposta per questo scopo; ed è il piacere di spostarsi nel tempo che ci porta a inventare trame e storie. Anche l’attività di narrare è una forma di adattamento: i nostri remoti progenitori sono letteralmente diventati umani narrando, usando cioè il linguaggio per riferire, condividere, tesaurizzare esperienze ritenute rilevanti.

D’ora in poi quando qualcuno ci coglierà nel pieno della nostra distrazione potremo rispondere a quel monito (attenzione!) dicendo tranquillamente che stavamo viaggiando per raccontare storie e che quello che riusciremo a produrre grazie a questo metodo sarò molto più proficuo di quanto verrebbe fuori se rimanessimo instancabilmente focalizzati su di un solo obiettivo. Con buoan pace di chi ci vorrebbe soltanto come task manager, siamo in realtà dei poeti sognatori. 🙂

 

 

 

Come (rischiare di) perdere il lavoro

Solitamente consigliamo le cose che si DEVONO fare per trovare un lavoro. Ma forse possono essere utili anche quelle che si devono EVITARE per non rischiare di perdere quella che potrebbe essere un’opportunità lavorativa. Perché se è vero che un buon curriculum può aiutare a fare una bella impressione, è altrettanto dimostrato che mostrarsi trasandati fa ottenere l’effetto contrario. Leggendo un articolo tratto dalla rivista Business Insider abbiamo trovato alcuni comportamenti, atteggiamenti e stili che potrebbero essere a rischio “perdita di lavoro”: eccoli qua.

Poca attenzione: ci sono candidati che durante il colloquio prendono nota delle cose che vengono dette oppure fanno domande sull’azienda e sul ruolo; poi ci sono quelli che invece, con sguardo fisso, ascoltano senza alcun feedback quello che viene detto loro. Ecco, questi secondi stanno perdendo punti preziosi.

Esibizionismo: c’è chi cerca di attirare attenzione su di sè o sul proprio cv con effetti speciali, colori sgargianti, decorazioni floreali, un linguaggio esageratamente pittoresco. Cercano in tutti i modi di attirare l’attenzione: probabilmente ottengono il risultato sperato, ma l’attenzione è di un altro tipo (quella che abbiamo per un pagliaccio, non per un professionista).

Bere e fumare: non è affatto una buona idea bere qualcosa di alcolico prima di un colloquio perché se è vero che questo potrebbe calmare i nervi, si rischia invece di sembrare un po’ annebbiati oppure non troppo intelligenti; il fumo invece ci lascia addosso un odore inequivocabile ed anche se questo di per sé potrebbe non essere un problema, accade però che i selezionatori danno molta importanza alle nostre abitudini di vita che possono incidere sul luogo di lavoro.

Poca cura personale: quella della igiene personale non è una questione da sottovalutare; non sono per fortuna molti quelli a trascurarla, ma bisogna fare attenzione anche alla cura dei particolari, cercando di provvedere alla pulizia delle mani per esempio, oppure a qualche rimedio per una eventuale eccessiva sudorazione.

Mandare messaggi: speriamo che nessuno di voi abbia in mente di mettersi a scrivere un messaggio durante un colloquio; lo sconsigliamo anche nel caso lo facciate in quei momenti in cui siete in attesa (magari perché, giustamente, siete arrivati un po’ prima dell’orario prefissato). Questo perché, al posto del messaggio, nelle sale di attesa delle aziende potreste raccogliere utili spunti da utilizzare nel colloquio (che dite, leggendo una brochure aziendale per esempio?).

Portarsi dietro un sacco di roba: presentarsi ad un colloquio con troppe cose in mano o al seguito (agenda, telefono, bottiglietta d’acqua, scartoffie varie) non è un buon contributo per generare una buona impressione; il vostro curriculum, una penna con un foglio per gli appunti sono più che sufficienti (sì, il telefono lo potete lasciare da parte).

Esagerare: chiaramente l’obiettivo di ogni buon candidato è quello di stupire, impressionare il selezionatore che ha davanti (costi quel che costi). E quindi via a raccontare tutto ciò che si è fatto e che ci è accaduto senza accorgersi, a volte, di straripare in uno sproloquio che rischia di fare davvero una cattiva impressione. Per evitarlo alcuni piccoli accorgimenti: dire le cose rilevanti, tenere fuori dalla discussione la vita privata, ascoltare (e fare delle domande). La declinazione peggiore del candidato strabordante è quello che interrompe mentre parlano gli altri: dimostra mancanza di rispetto e anche poca attenzione (da evitare assolutamente).

Non far parlare il corpo: le parole sono importanti, ma lo è anche il linguaggio del nostro corpo; per esempio se scegliamo di non sorridere, di non guardare l’interlocutore in faccia e di avere una cattiva postura (quasi sdraiati sulla sedia, la testa appoggiata alle mani o ancor peggio sul tavolo per fare un paio di esempi) stiamo contribuendo a gran parte del nostro insuccesso con comportamenti a volte involontari.

Ci potrebbero essere anche altre cose da dire (e ce ne sono se avete voglia di leggere per intero l’articolo su Business Insider, in inglese). Noi ci auguriamo che anche solo questi descritti possano aiutarvi a fare la migliore prima impressione che potete. E in bocca al lupo per il vostro futuro lavoro!

 

front office

Professione front office

In fondo che ci vuole? L’addetto al front office viene considerato un tipo di lavoro semplice, che tutti possono fare e che non richiede particolari qualifiche, una lunga preparazione o capacità specifiche.
E invece occuparsi efficacemente del front office di un ufficio, una azienda, una struttura ricettiva, è molto più che piazzarsi in divisa dietro a un bancone, e farlo bene implica non solo curare l’aspetto, ma anche e soprattutto la relazione, senza confondere un approccio gentile, amichevole e a volte informale (a seconda dell’esigenza del soggetto per cui si lavora) con una chiacchierata tra amici al bar.
Bisogna avere capacità di ascolto e di osservazione, per cogliere i segnali non verbali inviati delle persone che ci stanno di fronte, e capire la domanda reale che sta dietro alla richiesta; se è necessario porre delle domande per capire meglio cosa rispondere, bisogna saperlo fare con discrezione e cortesia.
E’ necessario saper rispondere in maniera educata, cordiale e rassicurante, anche quando non si ha immediatamente la risposta giusta a disposizione (e quindi poi bisogna avere la prontezza e l’intraprendenza per cercare quella più corretta possibile, possibilmente in tempi utili).

E che fare quando diverse richieste arrivano contemporaneamente? Se una persona si avvicina e stiamo già rispondendo al telefono o a qualcun’altro? E come cavarsela con chi arriva con una lamentela bella pronta, che magari non ha niente a che fare con il nostro operato?
Definire le priorità, rispettare le precedenze, gestire le emergenze e le criticità, dedicare ad ognuno il tempo e l’attenzione necessarie sono capacità che si acquisiscono con il tempo, l’esperienza e l’osservazione di chi già svolge questa mansione.
A volte stabilire un contatto visivo con la persona che abbiamo davanti mentre siamo al telefono, accennare un sorriso e, in qualche modo, fargli capire che ci siamo accorti che sta aspettando noi, la predispone ad attendere con maggior pazienza il proprio turno, o a porre la propria questione in maniera gentile.

Fondamentale oggi è ricordare che anche le attività sui canali social sono una forma di front office, di relazione con utenti e clienti: aspetto tanto più delicato quanto la comunicazione è a distanza, passa attraverso quello che si scrive e non è corredata dal nostro tono di voce, dall’espressione del viso, e può facilmente essere fraintesa, o non accolta come avremmo pensato. Le parole e le risposte vanno cautamente e attentamente scelte, e le risposte non devono farsi attendere troppo.

Insomma, la gestione del front office fatta bene comporta un nutrito mix di capacità relazionali, comunicative e organizzative, oltre alla conoscenza di informazioni relative al posto in cui ci si trova e al soggetto per cui si lavora (Con che orari vi trovo aperti? Dove trovo il signor… ? Il bancomat più vicino? Il vostro numero di telefono?).
Il tutto senza mai dimenticare un sorriso, che è sempre la miglior accoglienza e un buon modo per dirsi arrivederci!

Il 17 aprile si vota, anche dall’estero!

Tutti i cittadini italiani che hanno compiuto 18 anni saranno chiamati a partecipare al voto per l’abrogazione o il mantenimento della norma che riguarda la durata dei permessi e concessioni a esplorazioni e trivellazioni dei giacimenti di idrocarburi entro dodici miglia dalla costa.
Anche chi quel giorno si troverà all’estero per motivi di studio, lavoro o salute, potrà esprimere il proprio voto (la permanenza all’estero dovrà avere la durata di almeno 3 mesi).
Per sfruttare questa possibilità, è sufficiente informare l’ufficio elettorale del proprio comune di residenza e comunicare il proprio temporaneo indirizzo all’estero, al quale si potrà ricevere la scheda elettorale.
La comunicazione, da fare utilizzando i moduli predisposti, potrà essere inviata di fatto fino a un mese dalla data della votazione.
Per il Comune di Ancona, trovate qui i recapiti, i dettagli e i moduli da utilizzare per poter esprimere il vostro voto anche dall’estero.
Dovunque siate, il 17 aprile dite la vostra!

Parla come mangi

Il meeting sarà poco dopo il briefing e finirà con un brunch a base di finger food. Questa frase, costruita qui ad hoc, è inventata ma non fatichiamo a credere che potrebbe essere benissimo stata pronunciata, anche più di una volta. Una frase del genere è un mix di parole italiane e inglesi ma quello che notiamo è che le italiane sono solo quelle funzionali e non quelle che danno il significato e il senso alla frase: chi parla o scrive così più che farsi capire sembra proprio che abbia l’intento contrario. L’ingresso di parole straniere nella nostra lingua non è una moda del momento. Per esempio la parola chewingum, ampiamente utilizzata da tempo, è stata introdotto alla fine della seconda guerra mondiale con l’arrivo degli americani. Allora l’inglese era poco conosciuto così come, ahimè, l’italiano (ma temiamo che su questo i miglioramenti non siano stati per tutti omogenei).

La domanda che ci facciamo in questo momento è: sono utili i termini inglesi nella nostra produzione orale o scritta? Possono essere sostituiti con termini italiani di eguale significato e, diremmo, di uguale estetica linguistica? Detto in altre parole e con un esempio: possiamo facilmente sostituire la parola meeting con “incontro” senza timori di non essere capiti, mentre per identificare il brunch forse diventa un po’ più ostico utilizzare una perifrasi come “pasto consumato in tarda mattinata a metà tra la colazione e il pranzo”. Come ci regoliamo? La questione non è solo accademica e di stile linguistico. Riguarda tutti noi per esempio quando ci presentiamo ( proposito, ieri abbiamo detto a scuola quali sono le regole principali, le trovate qui) attraverso una lettera di presentazione professionale, un cv o un post sul nostro profilo social che utilizziamo anche per farci conoscere come professionisti. Secondo noi potrebbe essere utile capire quando possiamo (e dobbiamo) utilizzare un termine inglese perché così è più comprensibile ed invece quando il nostro inglese serve solo a farci sembrare un po’ più “fighetti” senza nulla aggiungere ai contenuti che proponiamo.

La questione non è da poco considerato che anche l’Accademia della Crusca ha creato un gruppo di lavoro dedicato ai neologismi e alle nuove parole che entrano nel vocabolario della lingua italiana. Non da meno ci dovrebbe far riflettere il fatto che su alcune questioni di interesse comune come il lavoro e la famiglia si utilizzino termini in inglese quando si cerca di cambiare qualcosa (rispettivamente jobs act e stepchild adoption): dovremmo capire meglio o di meno? Qualche volta, purtroppo, è la seconda ipotesi che vince. Ma se nelle questioni di politica segue il dibattito nel quale è possibile confrontarsi e approfondire, in un testo scritto che ciascuno di noi invia agli altri non ci sono tante possibilità di discussione e argomentazione. La necessità in questi casi è quella di presentarsi in maniera chiara, efficace e, possibilmente, con successo.

Per risolvere la questione e capire se per esempio nel vostro cv dovete scrivere che vi siete occupati di brand e di budget anziché di “marca” e “bilancio” oppure se avete già lavorato per un competitor anziché un “concorrente” potete fare riferimento a questa lista: contiene 300 parole che utilizziamo in inglese ma che hanno un equivalente più che opportuno anche in italiano. Fatelo, anche se se state rispondendo a qualcuno in cerca di un key account junior: forse è anche un modo che la vostra conoscenza dlela lingua (e delle lingue) supera il loro know-how.

Le competenze informatiche sono essenziali

Solitamente ormai si danno per scontate, ma le abilità nell’utilizzo del pc non sono un patrimonio comune. E, soprattutto, bisogna intendersi su che cosa significhi oggi sapere e potere utilizzare in maniera adeguata un computer. Se leggete questo post, quantomeno avete la padronanza minima della navigazione in internet e siete arrivati in qualche maniera a visualizzare queste righe. In Italia questa capacità non ce l’hanno tutti ed il problema non è tanto e solo di spendibilità nel mercato del lavoro ma anche di accesso alle opportunità. Significa che chi non sa utilizzare un computer non solo ha meno possibilità di trovare un lavoro dignitoso ma già oggi non è nella condizione di poter fare alcun lavoro.

Per dare un’idea un po’ più precisa di quello che accade oggi in Italia, riprendiamo da un articolo del giornale on line Linkiesta alcuni dati relativi alla diffusione di internet nel nostro Paese. Il dibattito italiano, solitamente, si ferma alla poca diffusione della banda larga nelle case degli italiani. Questa mancanza si porta dietro anche una serie di correlazioni e conseguenze, non ultima quella delle poche opportunità che ci sono di progredire in tema di diffusione della cultura informatica nella popolazione. In sostanza il pensiero è che siccome le infrastrutture esistenti sono poco sviluppate, ne consegue che sono poche anche le persone che le sanno utilizzare. Sicuramente questo è un dato veritiero, sostenuto anche da ricerche ed analisi di carattere scientifico. Per farci meglio capire, è come se dicessimo che in un dato luogo non ci va nessuno perché non c’è nessuna strada o collegamento che lo raggiunge.

Per l’informatica vale la pena però prendere in considerazione anche un altro fattore, se non altro per rifuggire da un atteggiamento attendista che è un po’ tipico italiano (della serie: non utilizzo il pc/web fintanto che non c’è una struttura adatta). In questo senso un dato che noi definiamo allarmante è quello che indica che a fronte di un aumento delle connessioni in banda larga di circa quaranta punti percentuali in meno di dieci anni, le abilità informatiche della popolazione italiana sono rimaste sostanzialmente al palo. Se è vero che il web veloce facilita l’accesso e l’utilizzo questo non dovrebbe accadere. Forse potrebbe essere utile un po’ di istruzione? Magari l’utilizzo e l’acquisizione di competenze informatiche cresce anche grazie a processi in cui si cerca di alfabetizzare le persone che dovranno utilizzarlo.

Sempre Linkiesta riporta che “l’implementazione di politiche per la diminuzione dell’analfabetismo informatico potrebbe essere una buona leva per far crescere il mercato delle vendite online, perlomeno in relazione all’Italia. Un Paese, forse vale la pena di ricordarlo, in cui il 39% della popolazione non ha mai navigato su internet. L’esempio da seguire, in quest’ambito, è quello dei paesi scandinavi”. Insomma sarebbe necessario tornare un po’ sui “banchi” o, meglio, sui PC di scuola per imparare ad utilizzare il computer. L’alfabetizzazione digitale, come viene chiamata, aiuterebbe non soltanto a far progredire il singolo, ma anche l’intera comunità in termini di ricchezza di opportunità, sviluppo di nuovi mercati, consapevolezza e cultura generale. Insomma, un vero progresso. Che stiamo aspettando?

 

Nel nostro piccolo, niente! Infatti certi che questa cosa fosse utile abbiamo fatto partire qualche tempo fa il minicorso “ABC per il PC” che in tre moduli insegna a chi proprio non ne sa nulla che cosa fa e a che cosa serve il computer. Ci piace dirlo: è stato un successone! Talmente elevato che abbiamo deciso di riaprire le iscrizioni. Se conoscete qualcuno che non saprebbe raggiungere questo articolo per leggerlo è il momento giusto per fargli un regalo: ditegli di iscriversi ad ABC per il PC, lo aspettiamo!

assistente lingua italiana estero assistentato

Assistenti di lingua italiana all’estero

 

E’ un’opportunità unica per laureati in materie umanistiche interessati alla diffusione della lingua e della cultura italiana all’estero!

Il bando per proporsi come assistenti di lingua italiana per l’anno scolastico 2017/2018 è indetto dal MIUR ed è aperto fino al 4 marzo.

Il periodo di permanenza nel paese che accoglie gli assistenti (può essere espressa una preferenza tra quelli indicati, ma non è detto che si ottenga un posto proprio là) è di circa 8 mesi, con una retribuzione variabile a seconda del paese, e si può essere chiamati a prestare la propria opera presso scuole e istituti di vario grado.

La domanda si presenta esclusivamente online al sito http://www.trampi.istruzione.it/asl/

In bocca al lupo!

Convincere gli altri

Quando parliamo con qualcuno quanto è fondamentale che la persona che ci sta di fronte non solo comprenda quello che diciamo ma lo condivida pure? L’ascolto e la condivisione sono due passaggi distinti di un singolo processo che è quello di comunicare. La comunicazione potremmo dire che è una brutta bestia: da una parte è un meccanismo naturale, spontaneo per il quale no ci verrebbe mai in mente di dover studiare per imparare a gestirla. Dall’altra però se con la nostra comunicazione vogliamo ottenere risultati precisi, raggiungere obiettivi, essere efficaci dobbiamo forse entrare nell’ordine delle idee che qualcosa da imparare ci sia: le tecniche di comunicazione non sono un patrimonio comune, tanto è vero che c’è differenza tra un oratore e un altro. Fino al punto che quella di comunicare oltre ad essere un’arte a volte diventa anche un mestiere.

Un po’ di comunicazione efficace dovremmo però impararla tutti. Oggi vi proponiamo allora tre indicazioni di massima che riprendiamo da questo articolo comparso su Linkiesta al quale aggiungiamo qualche nostra indicazione. Perché potrebbe esserci utile? Le situazioni in cui ci troviamo a comunicare e dobbiamo farlo perseguendo una performance sono diverse: un colloquio di lavoro, un esame all’università, un’interrogazione, un lavoro di comunità, la gestione di un gruppo di lavoro, un ruolo di leader. Sono tutte situazioni in cui non ci sarà sufficiente dire le cose, dovremo anche riuscire a farle comprendere nel senso più ampio del termine. Vediamo come possiamo riuscirci.

Il primo compito che abbiamo è quello di selezionare. Non possiamo dire tutto quello che ci passa per la testa. I contenuti da trasmettere li dobbiamo scegliere (quindi decidere che alcune cose non le diremo) perché prima di parlare (o scrivere) avremo stabilito una strategia (cioè ci siamo dati un obiettivo e anche un modo per raggiungerlo) rispetto alla quale dovremo “tagliare” i nostri contenuti. Facciamo un esempio: avete mai incontrato un venditore di auto che prima di tutto vi racconta difetti della macchina che volete comprare (o che vuole vendervi)? Non è solo una questione di onestà (in quel caso il venditore vi racconterà che i difetti non ci sono proprio). La stessa cosa avviene per esempio durante un colloquio di lavoro: dobbiamo scegliere prima argomentazioni e temi che vorremo trattare e prepararci su quelli: saranno i temi che tiriamo fuori non appena ci verrà data la possibilità di parlare “liberamente”.

La seconda cosa che dobbiamo imparare a fare è quella di ripetere. C’è una regola che sembra banale, leziosa e forse a tratti ridicola che dice: annunciare ciò che dirai, dirlo e ripetere ciò che hai detto. Espresso in questa maniera viene da esclamare “che assurdità!”. Ma vi possiamo assicurare che quando ascoltiamo il nostro cervello ha un livello di assimilazione dei contenuti che funziona molto bene con la ripetizione. Per fare un esempio pratico: avete fatto caso che ci ricordiamo con una certa facilità slogan e motivetti pubblicitari solo per il fatto che la televisione, la radio o i giornali li hanno ripetuti migliaia di volte senza aggiungere alcun contenuto di maggior valore? Se scriviamo la frase “Dove c’è Barilla…” crediamo che ciascuno di voi sarà in grado di terminare con la seconda parte. Quindi quando vogliamo che la nostra platea (anche fosse di una sola persona) accolga una nostra idea dovremo essere bravi a ripeterla nel discorso più di una volta (senza cadere nella trappola di essere ripetitivi, insomma la giusta misura).

Infine cerchiamo di non essere sconclusionati. Voi direte: e chi lo farebbe? Eppure capita di sentire parlare (o parlare) per lungo tempo senza avere un’idea più completa del discorso nel suo complesso. Sono quei casi in cui ci chiediamo: “dove vorrà andare a parare?”Ecco quelli sono i casi in cui nel discorso (o nel testo scritto) non abbiamo inserito i link. Non stiamo parlando di quelli del web che ci portano da un sito all’altro, ma dei collegamenti che di un discorso fanno la struttura. Questa struttura, anche se non espressa ma costruita fin dall’inizio, è quella che aiuta chi ascolta a comprendere meglio e più in profondità quello che diciamo. Per esempio tutte le favole, scritte per essere comprese dai bambini, sono accomunate da una struttura (spesso semplice): presentazione dei personaggi, vicenda del personaggio, finale (spesso lieto). Si dice che questo è raccontar storie. Ed è quello di cui un buon comunicatore ha bisogno. E voi, che storia avete in mente di raccontare la prossima volta?

 

Che odio quel lavoro

Questo post vorrebbe raccontare di come sia importante scegliere un lavoro che ci piace e, al contempo, di quanto in realtà noi essere umani siamo adattabili. Queste due cose sono una il contrario dell’altra oppure entrambe concorrono a costruire la nostra personalità professionale?

Per rispondere a queste domande che hanno una caratura quasi esistenziale partiamo da un articolo apparso su Vice (la rivista on line di origine canadese presente nella versione italiana ormai da 10 anni) in cui si raccontano 6 lavori odiati e odiabili. Vediamo velocemente quali sono. Il primo è il lavoro del controllore e a raccontarlo è una donna: il brutto di questa professione è che ti becchi rimbrotti e insulti (non sempre per tue colpe) per non parlare di certi orari e treni che a volte trasportano persone “irrequiete” (per usare un eufemismo). Però il bello (secondo il racconto dell’intervistata) è nell’incontrare persone e storie diverse e sentirsi di poter essere loro di aiuto.

La seconda professione odiata è quella dell’ufficiale giudiziario: chi di voi vorrebbe essere nei panni di chi è visto, nella migliore delle ipotesi, come un boia o un uccello del malaugurio? Chi fa questo lavoro però si sente anche gratificato per essere la persona che fa rispettare la legge e, in alcuni casi, riporta la pace tra i contendenti. Più delusa la figura che si occupa di recupero crediti: in questo caso la frustrazione di dover raccontare bugie o ricorrere a velate minacce diventa più pesante di qualsiasi soddisfazione.

A seguire, tra i lavori più brutti, ci sono quelli di chi si occupa dei soldi. Degli altri. Come ad esempio chi si occupa di raccolta fondi, costretto a chiedere soldi in mezzo alla gente scoprendone ipocrisie e falsità anche se con un nobile scopo (spesso la raccolta fondi è quella realizzata a favore di enti e organizzazioni benefici). Oppure il lavoro del trader (l’operatore che tratta prodotti finanziari per conto terzi): qui il compromesso con la propria coscienza èancora più grande perché di solito si trattano somme alte e con esse a volte anche il destino di persone e società. Non è facile poi districarsi in una professione a cui, per stessa ammissione di chi ne fa parte, viene attribuito un giudizio di valore negativo. Da ultimo, nelle professioni più odiate, c’è quella del giornalista. Le cose che scrive sono spesso oggetto di critiche che non riguardano il solo contenuto dell’articolo o del dossier ma diventano personali e dirette. Chi fa questo lavoro poi è in un continuo divario tra quello che vorrebbe scrivere e quello che invece è, in quache maniera, costretto a scrivere per rispettare la linea editoriale del proprio giornale.

Non so se tutti voi siete concordi nel definire questi lavori come “odiati” (attenzione: non significa che siano i peggiori lavori da fare in senso assoluto). Certo è che, anche facendo un lavoro di questi o un altro poco invidiabile, sono esperienze in cui ciascuno di noi mette in campo le proprie competenze e quelle si evidenziano anche se il lavoro che facciamo è brutto. C’è un’altra considerazione da fare: lo sviluppo del lavoro, qualunque esso sia, può portare a risultati e traguardi diversi da quelli che ci si immagina inizialmente e farci raggiungere quindi mete insperate. Infine le esperienze di lavoro rappresentano comunque un banco di prova: prima di tutto per noi stessi e, in seconda battuta, anche per dimostrare agli altri quello di cui siamo capaci. Però, è sempre meglio scegliere un lavoro che ci piace 🙂 

Il lavoro a tempo indeterminato non è un successo

Da quanto tempo ormai sentiamo dire che la parola d’ordine è flessibilità? Che i tempi del lavoro sicuro sono finiti? Che probabilmente nel corso della vita dovremo cambiare più lavori e forse anche più professioni? Anche se questi “mantra” sono ripetuti da almeno dieci anni, sono sicuro che in realtà sono ancora in molti a sperare nella soluzione definitiva nel momento in cui firmano un contratto di lavoro, mandano un cv, rispondono ad un annuncio.

La realtà è che con il passare del tempo i segnali che qualcosa di strutturale nel mondo del lavoro sta cambiando ed è già cambiata ci sono: il calo senza freni del numero degli assunti con contratti a tempo indeterminato, le nuove regole che prevedono contratti molto più flessibili anche per le assunzioni di lungo periodo, l’aumento esponenziale delle partite IVA e dei lavori occasionali, la generazione a volte eccessiva di nuove attività imprenditoriali in sostituzione di servizi e mansioni che prima erano in capo a dipendenti. Sono segni evidenti di precarizzazione la cui causa non è sempre e soltanto da ricercare nelle politiche di una singola nazione, ma risiedono in una economia globalepiuttosto complessa (e che non affronteremo qui).

Però non tutti i mali vengono per nuocere e, soprattutto, l’uomo è animale di grande adattabilità. In un articolo comparso sulla testata on line BloomberBusiness sonoa rrivati a titolare che “L’anniversario di dieci anni di lavoro in uno stesso posto è un fallimento“.  Una ricerca fatta tra i giovani americani nati tra il 1982 e il 2004 (questi ultimi ancora un po’ piccoli a dir la verità) rivela (e rileva) che il mantenimento di uno stesso posto di lavoro per lungo tempo non è una conquista ma addirittura potrebbe essere una sconfitta. Uno di loro afferma che è più facile parlare di crescita della propria carriera se si è in grado di attraversare aziende diverse piuttosto che rimanere in uno stesso posto nel medesimo lasso di tempo (e lo dice uno che a 27 anni ha cambiato già tre volte posto di lavoro).

Mac Schwerin, questo è il suo nome, afferma anche un’altra cosa interessante e un po’ provocatoria: è più facile raccontare e rappresentare i propri successi se si riesce a dimostrare di portare risultati ovunque si vada. Questa opinione è condivisa da molti millenials (i nati di cui sopra) interpellati nel sondaggio svolto dalla società di consulenza Deloitte. Il motivo è anche legato al fatto che stiamo parlando di giovani che hanno concluso gli studi in un periodo di recessione economica e di mercato di lavoro molto competitivo: in qualche misura sono abituati a vedere e vivere la propria carriera professionale in maniera radicalmente diversa: vogliono le stesse cose delle generazioni precedenti (casa, famiglia, ecc) ma sono convinti di ottenerle con un percorso diverso.

Ci sono però due considerazioni a margine da fare. La prima è che, per loro stessa ammissione, il loro punto di vista cambierebbe se fossero assunti in azienda di “prima classe” (Tesla, Facebook, Google).  La seconda è che stiamo parlando del mercato americano dove la percentuale di giovani rappresenta la parte più ampia del mercato del lavoro. Credo che, anche alla luce di questi due assunti finali, potremmo trarne anche noi considerazioni utili e interessanti su come affrontare le nostre sfide “casalinghe” con il mondo del lavoro.

Stage in Cina

 

Shanghai ti aspetta per un periodo di stage come Marketing Intern presso la sede della Hutong School!

Se stai studiando o hai da poco conseguito una laurea in una facoltà tecnico-economica, uno stage in Cina è un’ottima occasione per cominciare a fare esperienza e dare sostanza al tuo cv.

Requisiti necessari per questa offerta di stage sono studi nel settore marketing, conoscenza dell’inglese, autonomia, capacità d’analisi e conoscenze matematico-statistiche.

Hutong School, scuola di lingua cinese, accoglierà il tirocinante da marzo 2016 per sei mesi, e provvederà all’alloggio.
C’è tempo fino al 31 gennaio per candidarsi, qui tutti i dettagli.

Buona fortuna!

Canada – Ultime notizie per il Visto Vacanza Lavoro

Il nuovo anno si avvicina e le novità sono già arrivate, soprattutto per chi sta pensando al Canada come meta non solo di una vacanza, ma anche di una esperienza di lavoro.
Attenzione però, c’è da ricordare che se usciamo dallo spazio europeo la prima cosa di cui dobbiamo occuparci è il visto per entrare nel paese che abbiamo scelto.

Un altro importante fattore da tenere presente è la lingua: tutte le istruzioni e le comunicazioni per ottenere un visto sono in inglese o in francese, per cui una conoscenza più che intermedia della lingua è senz’altro fondamentale.

Il Canada ha recentemente modificato la procedura prevista per la richiesta del visto che permette non solo di entrare, ma anche di svolgere un lavoro all’interno dei propri confini. Tra i visti che permettono di lavorare, oggi parliamo del visto conosciuto come Visto Vacanza Lavoro/Working Holiday Visa, concesso ogni anno ai giovani italiani in base agli accordi tra Canada e Italia. In genere il numero di visti per gli italiani si aggira intorno ai mille all’anno.

Per il 2016 chi vuole andare in Canada per viaggiare e lavorare per un periodo di massimo un anno dovrà:

1) verificare la propria idoneità o “elegibility”, cioè di avere le caratteristiche previste dal governo Canadese;

2) in caso positivo, inserire i propri dati e il proprio profilo professionale in appositi database, chiamati “pool”, attraverso il sistema online MyCIC, e attendere di essere eventualmente contattati e invitati a fare richiesta effettiva del visto, completa di tutta la documentazione necessaria. I candidati presenti nei database verranno invitati secondo una tempistica già definita per paese e categoria (per l’Italia ci sono ancora due round di chiamate previste).

3) attendere la valutazione della propria richiesta (ci vogliono circa 8 settimane) e, in caso di esito positivo, l’invio di una Lettera di ingresso “Port Of Entry (POE)”, che non è ancora il vero e proprio visto per vacanza lavoro ma un documento, con una scadenza, che permette di recarvi in Canada e fare richiesta del visto appena sbarcherete all’aeroporto.

Se tutto va bene e il Visto Vacanza Lavoro viene rilasciato, potrete rimanere in Canada e lavorare dove vorrete, spostandovi ogni volta che lo decidete, fino alla scadenza del visto stesso.
I Visti Vacanza Lavoro vengono concessi a giovani di altri paesi per permettere loro di conoscere il Canada, la cultura e la società canadese, e di trascorrere un periodo viaggiando e mantenendosi da soli.

Bene, ora che sapete (quasi) tutto, se il Canada è tra le vostre mete per una esperienza all’estero sapete da dove cominciare!

 

5 consigli (e 1 augurio) per l’anno nuovo

Questa parte dell’anno è sempre quella in cui ci accadono almeno un paio di cose. La prima è che siamo percorsi da una sorta di eccitazione e, perché no, da un po’ più di felicità. Diciamo pure che sono modi di sentire “occidentali”, appartenenti cioè alla nostra cultura e non necessariamente validi universalmente: in realtà ci sono posti nel mondo in cui questo periodo dell’anno non è molto diverso dagli altri, spesso terribili (come dire, un eccesso di buonismo a volte potrebbe sembrare anche ipocrita).

La seconda cosa che ci viene quasi naturale è quella di fare i bilanci (sarà una stortura di carattere economico?): ci chiediamo se l’anno trascorso è stato buono, se abbiamo raggiunto i nostri obiettivi, se abbiamo fatto davvero quello che volevamo, se c’è ancora qualcosa che non abbiamo ottenuto. In poche parole un’analisi della nostra soddisfazione che potrebbe anche essere salutare. Indipendentemente da quelle che saranno le vostre conclusioni, semmai farete anche voi questo tipo di analisi, vogliamo oggi darvi 5 consigli (speriamo utili) per poter mettere in cantiere un 2016 che sia migliore dell’anno passato.

 

Nessun rimpianto: lasciarsi alle spalle il passato non è facile ma è qualcosa che va fatto per poter vivere appieno il presente e saper cogliere le opportunità che si presentano. Il passato è stato certamente utile e ha avuto un suo ruolo soprattutto perché ci ha dato delle lezioni, ci ha insegnato qualcosa dagli errori fatti permettendoci così di vivere al meglio il futuro. Ma non lasciamogli invadere troppo il presente e quello che ci aspetta.

Carpe diem: non aspettare sempre il domani per fare qualcosa è una delle chiavi della felicità. Il domani è incerto mentre l’oggi è tutto ciò che realmente possediamo e sul quale possiamo agire. “Cogli la rosa quando è il momento, | ché il tempo, lo sai, vola | e lo stesso fiore che sboccia oggi, | domani appassirà” recitava uno degli studenti del film “L’attimo fuggente”.

Puntare al meglio: bisogna avere obiettivi alti e ambiziosi ma non aspettative fuori misura e poco concrete. È importante infatti avere ben chiari in mente non solo gli obiettivi ma anche la strada da seguire, i passi da fare dotandosi di grande forza di volontà. Aspettative poco finalizzate invece e fuori dalla nostra portata potrebbero generare ansia da fallimento.

Passione in modalità ON: in una società in cui tendiamo sempre ad avere tutto a portata di mano e a volere tutto e subito, spesso dimentichiamo che la parte più bella è proprio quella in cui si desidera ardentemente qualcosa e si lavora per ottenerla, dunque la fase precedente. Coltiviamo quindi il nostro desiderio e teniamo sempre accesa la fiamma! Non bisogna assolutamente privarsi del momento in cui assaporare quello che ci aspetta.

Keep calm and…: è importante non lasciarsi prendere dall’ansia ma darsi tutto il tempo che serve per riflettere su cosa davvero si vuole per il nuovo anno e iniziare quindi con dei programmi e una pianificazione. Anche per realizzare il tutto, poi, non dobbiamo avere fretta ma affrontare con la dovuta calma le situazioni che si presenteranno.

Ed infine il nostro augurio: vi auguriamo di concludere il 2015 e iniziare il 2016 con l’entusiasmo e l’energia che riuscite a dare nei momenti migliori perché, di sicuro, sarà il modo migliore per essere decisamente felici.

Lavorare con piacere (o almeno provarci)

Quando ci capita di andare nelle scuole a parlare di lavoro una domanda e un giochino che facciamo spesso è quello di chiedere: “per cosa lavorereste?”. Le risposte sono le più svariate ed anche le più tremende. Su tutte la maggioranza è senz’altro quella di chi pensa che il denaro è una leva più che sufficiente per alzarsi la mattina, recarsi al proprio posto di lavoro e rimanerci per minimo 8 ore (chiaramente più la quota di denaro si alza e più la disponibilità aumenta). Ingenui. Primo perché ad oggi il denaro disponibile, in senso assoluto, è sempre meno; secondo perché in realtà anche le ambizioni di guadagno più sfrenate trovano un limite nelle 24 ore al giorno (ed è un limite a cui nessuno arrivare, quello di 24 ore al giorno di lavoro); terzo perché chi pensa solo al denaro non ha fatto i conti con molte altre variabili e, soprattutto, non ha tenuto conto del fatto lavorare significa mettere in gioco non solo abilità e competenze tecniche ma anche un certo grado di emozioni e passioni personali.

D’altra parte un’attività che ci impegna così tanto tempo (40 ore alla settimana, 160 ore al mese, 1920 all’anno, 76800 in una vita di lavoro contrattualmente regolare) non può essere soltanto una questione di impegno tecnico. Quando lavoriamo in realtà mettiamo in gioco noi stessi e lo facciamo sempre, anche quando il lavoro non ci piace. Il problema è che quando facciamo qualcosa che ci piace, oltre alla sensazione del tempo che trascorre più velocemente, c’è anche quella di generale appagamento per avere realizzato qualcosa, raggiunto un obiettivo, trovato la soddisfazione nostra e degli altri. Come fare allora per individuare il giusto percorso che ci conduce a trovare una professione soddisfacente.

C’è un libro che si intitola “L’alleanza” che prova a dare un suggerimento con una tecnica che vi invitiamo ad utilizzare. Il suggerimento è quello di scrivere i nomi di 3 persone che ammiriamo: non è necessario che siano strettamente legate al nostro settore (anzi!); possiamo spaziare da personaggi storici a quelli di fantasia. Trovati i nostri “fari” elenchiamo accanto ad ogni nome le tre qualità che ammiriamo di più in ciascuno doi loro. Infine classificate le qualità in ordine di importanza: dalla più importante, alla meno significativa. Così facendo avremo una lista di valori personali da poter confrontare con quelli del nostro proprio piano di crescita (non ne avete uno? male! Dovreste pensare e immaginarvi chi e che cosa vorrete diventare da grandi). È un esercizio utile tanto per chi è appena uscito o sta uscendo da un percorso formativo, quanto per i professionisti già affermati (che potrebbero confrontare la loro scala di qualità con quella dell’azienda). Potrebbe essere un piccolo esercizio per la pausa delle feste natalizie.

PS: il 22 (martedì pomeriggio) ci facciamo gli auguri e facciamo una piccola festa: vieni? Ne saremmo contenti!

Tirocini all’ECDC per laureati

L’ECDC –  Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie offre la possibilità di svolgere presso la propria sede di Solna (Svezia) dei tirocini per un periodo da tre a sei mesi.

I candidati dovranno essere laureati in uno dei seguenti settori: malattie cliniche infettive, microbiologia, salute pubblica, epidemiologia, statistica e/o modelling delle malattie infettive, scienze sociali, informatica medica, comunicazione scientifica e/o del rischio, e altri settori collegati.

Requisiti per partecipare:

  •  essere cittadini degli Stati membri UE, dei paesi candidati o di Islanda, Liechtenstein e Norvegia;
  • possedere un’ottima conoscenza della lingua inglese; viene considerata favorevolmente la conoscenza di altre lingue UE;

Il centro offre un contributo mensile di circa 1460 euro netti e offre un rimborso di viaggio per l’inizio e la fine del tirocinio.

Il bando per presentare le candidature esce ogni anno, tra settembre e dicembre, e i tirocini cominciano l’anno successivo tra marzo e giugno.

Comunicare bene per vivere meglio

Chi ben comunica è a metà dell’opera. Se qualcuno voi, leggendo velocemente, ha letto “comincia” anziché “comunica” (tornate a vedere) ha fatto un errore ma ci ha anche dato l’opportunità di parlare di quanto e come comunichiamo. Questo incidente è soltanto una delle caratteristiche della comunicazione: chi legge tende, involontariamente, ad economizzare il più possibile. Il nostro cervello associa immediatamente le prime lettere ad eventuali parole già memorizzate in modo da restituire più velocemente il risultato. Come viene dimostrato da quel giochino nel quale riusciamo a leggere un testo anche se tutte le parole sono scritte male (provate qui). Ed una cosa analoga avviene con i concetti: avete presente la frase “non si ha mai una seconda occasione per fare la prima buona impressione“? Il concetto è lo stesso.

Questo tipo di “incomprensione” se stupisce e diverte chi legge, dovrebbe invece in qualche modo porre delle domande a chi scrive o, più in generale, comunica: quindi tutti noi ogni qualvolta scriviamo o comunichiamo qualcosa, per esempio quando scriviamo un cv, una lettera di presentazione, quando ci presentiamo ad un colloquio o robe simili. Siamo proprio sicuri che i contenuti che vogliamo trasmettere arriveranno integri e ben compresi? Completamente tranquilli che questo accada forse non lo possiamo mai essere. Ma una cosa la possiamo fare: mettere a punto una strategia comunicativa efficace che, come un meccanismo ben rodato, lasci pochissimo o nessun spazio alle incomprensioni, ai malintesi, agli errori di valutazione. Vi ricordate la storiella di Ulisse che incontra Polifemo? Il ciclope accecato gridava che “Nessuno” lo aveva colpito e così l’astuto Ulisse se la poté scampare agevolmente: astuto ma anche grande stratega Ulisse, considerato che tutta la scena se l’era immaginata ben prima per poter avere la meglio. Chiaramente il senso della storia non è che è meglio dare un nome falso (ma dai?). Quello che ci pare interessante è che quando comunichiamo, in particolare in ambito professionale, dovremmo armarci di un po’ dell’astuzia di Ulisse.

Quale astuzia potremmo adottare da parte nostra? Quali scelte possono essere lungimiranti? Quale può essere una strategia efficace? Un libro molto interessante che si intitola “Ruba come un artista” propone un invito più che esplicito a fare quello che già altri suggeriscono da tempo: copiare! In realtà il percorso è un po’ diverso: copiare, RIELABORARE, incollare. La parte centrale, la rielaborazione, è quella più importante perché è il momento in cui riusciamo a caratterizzarci, ad essere originali, a mettere noi stessi in quello che stiamo facendo. Questo, anche nel mondo della comunicazione, è essenziale. Quali sono gli elementi di un buon “furto” o, come piace chiamarla a noi, di una buona rielaborazione? Il libro di ne cita diversi, alcuni che ci sembrano fondamentali: lo studio (per copiare bene dobbiamo prima osservare ed analizzare profondamente), la capacità di trasformare (non è una mera traslazione ma una ispirazione profonda), la capacità di mescolare (più sono i modelli che seguiamo più saremo in grado di creare qualcosa di originale ed unico).

Possiamo scegliere un modello che è un mito (come Ulisse) oppure qualcuno che realizza ciò che ci piace meglio di noi: l’importante è che ci ricordiamo che niente è originale così come tutto può esserlo. Dipende da quanta parte di noi stessi decidiamo di mettere in quello che comunichiamo, in quello che creiamo.

Farsi assumere da un algoritmo

“Non mi ha scelto perché gli stavo antipatico”. Questa frase, a volte un po’ assolutoria, viene da dirla quasi spontaneamente ogni volta che non superiamo un test di selezione, un esame o una qualunque prova nella quale dobbiamo confrontarci con qualcuno che deve giudicarci. Il rapporto personale, approfondito o superficiale, è un fattore spesso determinante per valutare e poi eventualmente scegliere una persona, Dalla prima impressione fino ad arrivare ad una relazione che dura da tempo, sono molte le sfaccettature con le quali le nostre emozioni interpretano i rapporti con gli altri. Il fenomeno è anche alla base della costruzione dei network, anche quelli che si fondano su relazioni digitali (social media in testa). Ma quanto possono e devono influire queste variabili nella scelta di un collaboratore, di un professionista?

Uno studio americano mette in dubbio, con un metodo scientifico, l’efficacia delle relazioni personali per individuare le figure professionali più adatte nei percorsi di selezione. In un articolo apparso su Internazionale di questa settimana infatti, si spiega come si è arrivati a questa ipotesi. In un percorso di selezione per profili medio/bassi sono stati utilizzati due modalità di scelta diverse: la prima basata sulla somministrazione di test analitici (fondati su un algoritmo di decifrazione), la seconda sulle osservazioni di un gruppo di selezionatori. Il risultato è stato che i candidati assunti tramite test hanno mantenuto il posto più a lungo di quelli assunti tramite un processo di selezione “umana”.

Questo vorrebbe forse dire che affidarsi ad un sistema di selezione totalmente scientifico è la soluzione migliore? E che quindi in futuro dovremmo imparare a farci assumere attraverso un algoritmo) In realtà non è proprio così. La selezione fatta secondo parametri scientifici porta in sostanza a definire gruppi di lavoratori uniformi, con lo stesso livello di competenze, la medesima gamma di interessi e via dicendo. Una omogeneità che, in realtà, non fa bene alle aziende che, per mantenere un posto nel mercato hanno capito che la soluzione è puntare sulla diversificazione, anche interna.

In definitiva le relazioni personali ci aiutano a definire (o a mettere insieme) un sistema complesso in grado di soddisfare esigenze diverse, a volte contrapposte. Non solo: il fattore emotivo è anche il valore aggiunto che entra in gioco in caso di imprevisti escogitando soluzioni originali. Un computer (un test, un algoritmo) sono in grado di individuare il migliore secondo un criterio scientifico e oggettivo: solo che non sempre è la soluzione migliore.