Un anno all’estero con il Servizio Civile Nazionale

Lo sapevi? Oltre a poter scegliere tra tanti progetti ed enti di accoglienza in Italia, grazie al bando del Servizio Civile Nazionale puoi andare all’estero, in Europa o fuori, a svolgere i 12 mesi di servizio civile.
I requisiti per partecipare sono gli stessi, e i posti previsti sono 708, distribuiti su Portogallo, Tanzania, Myanmar, Australia, Cuba, Tunisia, Brasile, Slovenia, Bosnia, Kenya, Kosovo, Mozambico, Senegal, Libano, Spagna, Bolivia, Madagascar… insomma, praticamente ovunque!

I settori nei quali è possibile svolgere il servizio civile sono assistenza e protezione civile, ma anche ambiente, educazione e promozione culturale, cooperazione internazionale, interventi di ricostruzione post conflitto o a seguito di calamità naturali, sostegno a comunità di italiani all’estero.

Per chi svolge il servizio civile all’estero, oltre all’assegno mensile di 433 euro, è prevista una quota giornaliera che va dai 13 ai 15 euro, a seconda del paese. Al volontario inoltre viene garantito vitto e alloggio, e il viaggio di andata e ritorno per e dal paese di realizzazione del progetto.

Anche per i volontari che vanno all’estero è prevista una prima fase di formazione e preparazione, che dura circa un mese e viene svolta in Italia: la formazione riguarda sia il servizio civile in generale (storia e funzione), che il contesto e le attività che si andranno a svolgere durante il servizio vero e proprio.

Per sapere quali sono i progetti tra cui scegliere, sia in Italia che all’estero, consulta la banca dati ufficiale, oppure approfitta di questa occasione:

Vieni a trovarci all’Informagiovani martedì 21: ci vediamo alle 11 per un incontro informativo dedicato

Potrai chiarire ogni dubbio sul bando del Servizio Civile Nazionale e Regionale, parlare con un esperto che ti darà brevemente le informazioni essenziali per poter partecipare, confrontarti e fare domande ai referenti dei progetti, conoscere l’esperienza di un volontario che è ancora in servizio. Non c’è bisogno di un’iscrizione e la partecipazione è gratuita. Ti aspettiamo!

Perché è importante scrivere bene (in italiano)

Scrivere bene in italiano è una competenza che spesso viene considerata scontata ma che nel tempo trova sempre meno adepti.

La conoscenza della lingua del proprio paese è, in teoria, un requisito fondamentale (l’italiano questo sconosciuto). Non solo per le attività professionali, ma anche per la vita di tutti i giorni. Allo stesso tempo però è altrettanto vero che alcune competenze linguistiche di base si indeboliscono: lo si può notare nella lingua parlata di tutti i giorni, negli articoli di giornale e, soprattutto oggi, nel brulicare di testi che ci sono su internet (compresi i post nei più diversi social network).

Di per sé questo, pur essendo un peccato per certi versi, non è un male in assoluto: le lingue sono vive, cambiamenti e trasformazioni fanno parte integrante del loro sviluppo (nel 2016 non utilizziamo le stese parole ed espressioni che venivano utilizzate nell’ottocento. Ciò che invece è decisamente più allarmante è l’aumento di errori grammaticali, anche per questioni linguistiche molto semplici: la “A” del verbo avere senza “H” che è decisamente grave. Ma ci sono anche altri errori oggi molto comuni : “po’” scritto con l’accento invece che la forma corretta “po’” con l’apostrofo; “qual’è” scritto con l’apostrofo mentre deve essere scritto senza; “davanti la casa” invece del corretto “davanti alla casa”; “fuori la porta” invece del corretto “fuori dalla porta”; le frasi introdotte da “malgrado che”, “a condizione che” prive di congiuntivo; le forme “sò” e “sà” del verbo “sapere” scritte con l’accento, mentre devono essere scritte senza; infine l’immancabile “piuttosto che” utilizzato come alternativa tra più opzioni invece di contrapposizione tra due soltanto (in altre parole è un sinonimo di “anziché” e non di “oppure”). La domanda di chi legge a questo punto potrebbe essere: a chi interessa tutto ciò?

La risposta a questa obiezione la lasciamo a due autori, Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, autore di un libro proprio sugli errori grammaticali (Senza neanche un errore, Sperling & Kupfer editore, 2016): “Oggi è più che mai importante esprimersi in un italiano corretto. Al tempo del web qualcuno pensa che ogni trasgressione linguistica sia lecita, in nome della libertà individuale a mettere in rete le proprie opinioni e i propri sfoghi. Ma nelle situazioni diverse dagli incontri nei social network si viene ancora giudicati in base alla lingua che si usa. L’italiano è il primo biglietto da visita di una persona: nelle interviste, nei colloqui di lavoro, nei contatti con chi non conosciamo, appena apriamo bocca o scriviamo una lettera o un curriculum, diamo di noi la rappresentazione più reale. Lo strafalcione, la costruzione sintattica zoppicante, la parola usata a sproposito rivelano immediatamente la mancanza di cultura, l’approssimazione, e perfino il poco rispetto nei confronti dell’interlocutore. Che cosa vuol dire, oggi, esprimersi in buon italiano? Significa, a nostro avviso, saper fare quattro cose: nel parlato, adattare il tono della lingua alla situazione; nello scritto, non trascurare gli aspetti formali; in entrambi, dominare le regole essenziali della grammatica e combinare le parole e le frasi in modo corretto“.

Più in generale dovremmo rifuggire dall’idea che se una espressione scorretta va bene per noi, possa andare bene anche per il pubblico che ci ascolta. Cosa può accadere con un errore grammaticale in una lettera di presentazione allegata ad un cv oppure dentro il cv stesso? Probabilmente ci preclude la possibilità di avere un’opportunità di lavoro. Direte voi: sì, vabbè, la sostanza però non cambia. E invece cambia eccome. Se sbagliate a scrivere in italiano (per ignoranza, sbadataggine, poca cura), che cosa potreste combinare con altre competenze che richiedono, si presume, un’abilità anche maggiore?

Una esperienza all’estero con lo SVE, tempo ben speso!

Tra le attività dedicate ai giovani e finanziate dall’Unione Europea attraverso il programma Erasmus+, la più accessibile, perché non richiede titoli di studio particolari, e la più adattabile alle proprie esigenze è sicuramente il Servizio Volontario Europeo.

Possono partecipare tutti i giovani residenti in Italia tra i 17 e i 30 anni che abbiano intenzione di passare un periodo tra 2 e 12 mesi in uno dei paesi aderenti al programma Erasmus+.

Ecco alcune opportunità già pronte da cogliere al volo, per programmare un’esperienza all’estero per i prossimi mesi!

 

Progetto “MULTI-KULTI 2016” – Polonia – dal 02/07/2016 al 28/08/2016

L’associazione POLITES ospiterà 20 volontari da 5 paesi diversi per l’organizzazione di attività multiculturali dedicate a bambini e ragazzi tra i 9 e i 15 anni; i volontari inoltre parteciperanno alle attività di workshop, ricerca e relazioni con altre associazioni che l’ente ospitante svolge abitualmente, con la possibilità di prendere parte anche a eventi organizzati dal locale centro regionale per il volontariato.

Scadenza per candidarsi: 5 giugno 2016

Progetto “The first step in education, the first step in volunteering!” – Romania – da maggio a novembre 2016
L’Asociatia Pro Democratia Club Braila accoglie volontari da diversi paesi per attività di collaborazione e apprendimento di tecniche di educazione non formale presso il vicino Kindergarden.

Scadenza per le candidature: al più presto

SVE presso Le Centre Méditerranéen d’Etudes Françaises (CMEF) – Francia – dal 10/01/2017 – 20/07/2017
Il Centro Studi offre la possibilità di svolgere uno SVE presso la scuola di lingue, e di essere coinvolti nell’organizzazione dei campi studio per ragazzi e ragazze, assistendo nell’accoglienza, l’accompagnamento e l’animazione dei gruppi stessi.

Scadenza per l’invio delle candidature: 20 giugno 2016

Progetto SVE presso la Fanzinothèque di Poitiers, Francia – dal 05/09/2016 al 31/08/2017
La Fanzinothèque accoglierà un/a volontario/a con forte interesse nelle arti grafiche, nell’editoria e informazione, per attività di produzione materiali grafici, per supportare l’organizzazione di eventi, mostre e workshop promossi dall’ente ospitante. Qui tutti i dettagli.

Scadenza per le candidature: 30 maggio 2016

 

Emozioni in foto

Il prossimo 9 giugno torneremo a parlare di immagini, fotografia e di come queste possono diventare un potente strumento per rappresentare le proprie emozioni. Lo faremo ospitano Emanuele Maggini, fotografo anconetano che ha realizzato un interessante progetto con il carcere. In anteprima sul nostro blog un’intervista che gli abbiamo fatto per capire meglio che cosa è successo.
Il tuo progetto ha portato la fotografia in carcere: ci spieghi meglio di cosa si è trattato?

La mia esigenza in quanto fotografo è sempre stata quella di trasmettere sensazioni ed emozioni,con la fotografia si ha la possibilità di rendere tangibile ciò che abbiamo dentro. Ho sempre desiderato fare qualcosa di buono per gli altri con la mia passione e con il mio lavoro,quindi ho deciso di portare la fotografia in un contesto molto particolare,in un contesto,ovvero il carcere, dove la fotografia è totalmente assente. È stata una sfida anche con me stesso che poi ha portato a risultati eccezionali anche grazie alla presenza costante di mia sorella Alice dottoressa in scende e tecniche psicologiche che ha dato un contributo enorme alla realizzazione di questo progetto. Si è trattato di uno corso settimanale con lezioni di due ore, dove è stata insegnata l’importanza della fotografia come mezzo di comunicazione in tutti i suoi aspetti ( racconto autobiografico, mezzo pubblicitario e come portavoce di contenuti inconsci) il tutto accompagnato da slide con esempi di fotografie tipo. Si è poi proseguito con l’insegnare la tecnica base della fotografia (tempi, diaframma, regola dei terzi, luci). Tutto quello che è stato imparato al corso i detenuti lo hanno messo in pratica, realizzando foto da loro progettate che potessero esprimere i loro contenuti.

Come mai hai pensato alla realtà carceraria? Nella tua percezione che tipo di stimolo,valore poteva avere la fotografia in quel contesto?

La mia esperienza personale e professionale mi ha portato alla consapevolezza di quanto la fotografia possa essere un potente mezzo per poter comunicare molto più di quanto possa essere detto. Ha il potere di poter esprimere contenuti scomodi e dolorosi di chi fotografa con eleganza e meno sofferenza e al tempo stesso la capacità di richiamare emozioni proprie in chi la guarda. Ho così pensato che potesse essere un valido sostegno farla entrare nella realtà carceraria. E che potesse offrire un valido ponte per tirare fuori l emotività di un utenza che ero sicuro avesse molto da comunicare e che poi potesse riavvicinare la comunità libera alla penitenziaria, avvolte questi due mondi sono così distanziati da stereotipi e pregiudizi che creano le vere sbarre della reclusione. Va aggiunto che secondo la costituzione il carcere è un sistema rieducativo e non mi dispiace l’idea che dopo questo corso teorico e pratico al quale ho rilasciato anche un attestato, finita la detenzione, qualcuno decidesse di fare buon uso di questa esperienza, appassionarsi a questa arte, così da farne un lavoro a tutti gli effetti.

Come è stato accolto dai detenuti il tuo arrivo? E la tua proposta?

La prima lezione è stata una di quelle più particolari, si avvertiva l’emozione ambo le parti, da parte mia sebbene avessi già sostenuto corsi importanti entrare nel contesto carcerario mi dava un mix di alte aspettative e paura, i ragazzi dall’altra parte erano incuriositi da questo corso innovativo mai fatto prima non avevano mai affrontato la fotografia in un contesto carcerario,alcuni di loro prima, e non sapevano cosa aspettarsi, abbiamo da subito appreso che il sistema detentivo lascia poco spazio alla comunicazione e che si erano iscritti a questo corso alla ceca senza sapere di cosa so trattasse ne con che modalità, hanno quindi iniziato a riempirci di domande e questo a facilitato il momento della presentazione, da lì in poi abbiamo instaurato immediatamente un bellissimo rapporto insegnantei-alunni che ci ha portato a collaborare in maniera eccezionale e professionale.

La fotografia nel tuo caso è stata un’esperienza artistica più che tecnica: possiamo dire che l’arte riesce a liberare le persone? In questo caso non hai corso il rischio di acuire ancor più il senso di libertà? Se ce stato questo rischio come lo avete superato?

La parte tecnica è stata fondamentale nell’insegnare a loro come poter utilizzare questo mezzo di comunicazione in maniera idonea, poi effettivamente la parte artistica è stata prevalente e molto più stimolante dato che il fine principe del progetto era di tirare fuori emozioni ed imprimerle in uno scatto. Il percorso per creare una foto è: concentrarsi su un pensiero, riflettere a fondo su di esso e imprimerlo. Progettando il corso io ed Alice abbiamo più volte riflettuto sul pericolo effettivamente di acuire il senso di perdita della libertà e abbiamo fatto molta attenzione ad usare immagini e parole che limitassero quanto più possibile questo pericolo. Ma l’arte è sinonimo di libertà di pensiero non fisica, e offrire loro un percorso che potesse restituirgli un po’ della loro individualità persa con l’entrata in carcere e la possibilità di comunicare anche contenuti indicibili è stata una cosa molto apprezzata dai detenuti. Abbiamo da subito compreso che la vera condanna non è la reclusione fisica ma lo smarrimento della propria personalità. Esistono celle di ferro ma anche delle prigioni mentali, l’offrire l opportunità di tirare fuori quello che avevo dentro dentro positivo o negativo, e poterlo raccontare oltre le mura, li ha secondo me per una frazione di secondo resi, veramente liberi.

In questo percorso sei stato coadiuvato da un dottoressa in scienze e tecniche psicologiche: quale è stato il suo contributo e quale, se possibile, la sua analisi dei risultati ottenuti?

Maggini Alice dottoressa in scienze e tecniche psicologiche ha contributo prettamente alla parte emotiva del corso. Il suo ruolo è stato finalizzato alla spiegazione della fotografia come veicolo di contenuti emotivi che in questo particolare contesto può rivelarsi strumento portavoce di sentimenti anche scomodi e dolorosi, ma che sono inevitabilmente presenti, anche se non detti, come anche di elementi positivi che esistono anche se si fatica a vederli in un contesto così duro e restrittivo. Portando poi i detenuti a far emergere questi sentimenti e individuando con il gruppo gli oggetti che potessero rappresentarli. Oggetti che poi sono stati utilizzati nel set e che i detenuti hanno utilizzato per le foto prodotte in still-life.
Alle luce di quanto emerso dalle foto prodotte la Dott.ssa Maggini Alice ritiene che l’ obiettivo del progetto sia stato raggiunto a pieno, considerando l’evolversi delle dinamiche di gruppo nelle varie fasi del progetto. Partito con un utenza che se pur ben disposta e pronta al dialogo è risulta nelle prime fasi palesemente in difficoltà a fermarsi su certi contenuti emotivi e non abituata a lavori che coinvolgono l’ emotività e che alla fine ha prodotto foto che raccontano di temi importanti come il rimorso, la solidarietà, la nostalgia e tanto altro. Particolarmente importante risulta il lavoro sul “tempo che scorre” tematica che come si può ben immaginare ha creato non poco disagio nel gruppo (utenza che nella maggioranza ha 10 e più anni di reclusione da scontare), argomento tanto fastidioso da essere considerato in prima istanza tabu e che alla fine del progetto risulta essere l’elemento principe della maggior parte delle foto.
Hai realizzato un corso di fotografia e quindi avevi un’aula anche se del tutto particolare; come è stato il rapporto umano con questi alunni? Cosa hai notato di diverso dalle altre aule.

Come ti dicevo prima,ho insegnato in molto corsi,con tantissimi partecipanti,non è stato poi cosi diverso a parte la presenza delle telecamere e le regole restrittive in cui ho dovuto giostrarmi. Ho trovato nell’utenza molta educazione e disciplina e soprattutto interessata e collaborativa, il rapporto è stato sempre insegnante-alunno come sempre faccio,in questo caso a maggior ragione ma ovviamente non sono mancate risate e momenti meno impegnativi dove poter scambiare due parole in tranquillità. Non sono mancati anche momenti di tensione soprattutto quando si è andati a toccare le emozioni che solitamente sono tenute al di fuori delle mura carcerarie e che come ci hanno più volte spiegato i detenuti se e quando emergono sono in questo contesto amplificate. Io e Alice ci siamo sempre concessi un momento di restituzione alla fine del corso dove io e lei discutevamo insieme su ciò che era emerso nella lezione, sui contenuti emotivi che ci portavamo via e su quale strategie adottare nella prossima lezione, siamo così riusciti a fronteggiare il tutto al meglio creando un bellissimo rapporto con la classe tanto che a fine corso per i saluti finali ci sono stati momenti toccanti conclusi con un arrivederci. I detenuti hanno pensato di salutarci scrivendoci delle lettere di ringraziamento da come ricordo per quanto abbiamo fatto insieme. È stata una cosa molto emozionante.

Ci puoi dire se questa esperienza ha cambiato il tuo modo di vedere la realtà carceraria e se si in quali termini?

Ho sempre pensato che il carcere debba essere rieducativo e non prettamente punitivo ,per molti di loro come ci hanno detto tramite lettere la punizione più grande è dentro di loro,quella di dover convivere con rimorsi e sensi di colpa. È stata un’esperienza molto intensa che mi ha portato a ragionare a fondo sulle conseguenze delle nostre azioni di tutti i giorni,sia piccole che grandi,sia positive che negative. Mi hanno fatto capire l’importanza della vista ,della libertà,della possibilità di scegliere,l’importanza di una carezza e il peso di uno schiaffo.

In che modo invece pensi possa essere stato utile per i detenuti?

Prima di tutto,la nostra presenza li ha stimolati a conoscersi, confrontarsi,a interagire con noi che venivamo da oltre le mura, hanno inoltre imparato un mestiere,che ovviamente in caso in un futuro lavoro come fotografo andrà rinforzato ma alcuni di loro hanno lasciato questa porta aperta per quando usciranno…e cosa più importante sono riusciti a tirar fuori ciò che avevano dentro con loro sorpresa,sono loro che hanno preso la reflex,calcolato la luce,creato il set e fatto lo scatto….creando delle vere e proprie opere che raccontano di loro. Secondo me sono stati straordinari.

Ci dici quali saranno i prossimi passi e come altre persone posso avvicinarsi a questa esperienza anche solo per conoscerla? E per conoscere i lavori fatti?

Certamente, abbiamo in previsione diverse mostre in tutte le Marche, partendo da Ancona ovviamente per poi fare altre tappe a Senigallia, Jesi ed altre città. Non saranno solamente mostre dove verranno esposte le foto dei detenuti ma faremo anche degli incontri aperti al pubblico dove io e Alice parleremo di questa straordinaria esperienza (l’appuntamento ad Ancona è per il 16 giugno nella sala dell’Informagiovani, in piazza Roma; ndr)

Che obiettivi può avere nel tuo futuro questa esperienza? Possiamo dire che ci sarà un continuo?

Una delle cose che ho capito ancor prima di iniziare il corso è che niente è impossibile,nonostante molti dicevano che non ci sarei riuscito per molte ragioni,quindi continuerò a portare avanti questo programma facendo altri corsi in tutta italia,ci hanno già contattato altri carceri per organizzare mostre,corsi ed incontri. Ho fatto della fotografia la mia disciplina,il mio stile di vita,ne ho ulteriore avuto conferma dell’importanza, quindi poterò sicuramente avanti altri progetti come questo. La cosa straordinaria è che questa esperienza ha formato loro quanto noi e vorrei ricordare che senza la disponibilità del Carcere di Montacuto,senza la determinazione e la voglia di cominciare dei detenuti con le loro stupende foto, tutto questo non sarebbe mai potuto accadere. Quindi ringraziamo tutti loro.

Vorremo infine ringraziarvi per questa bellissima intervista che ci avete fatto, per noi è stato importante il lavoro che abbiamo fatto dentro al carcere quanto riuscire a portarlo all’esterno, grazie ancora.

Lo faccio domani (l’arte poco nobile di rimandare)

Vi è mai capitato di avere un sacco di cose da fare? E di decidere di farle un altro giorno? La frase “lo faccio domani” crediamo sia abbastanza diffusa sia tra chi di noi è meno efficace ed efficiente, sia tra chi ha invece un sacco di cose nella propria lista delle attività da fare. In altre parole rimandare è un vizio piuttosto facile da prendere. Così succede che dovremmo preparare una relazione, controllare un budget, scrivere (magari anche un post come questo) ma prima di iniziare ci concediamo una visita a Facebook, poi clicchiamo sul link che il nostro contatto ha condiviso e da lì partiamo per altri “lidi”. A quel punto la nostra testa non è più concentrata su quel che avremmo dovuto fare e si perde per altri rivoli, senza una meta.

Perché questo accade? Un po’ senz’altro per mancanza di disciplina. Alcuni ricercatori considerano la procrastinazione fondamentalmente come l’incapacità di sapersi organizzare, come succede per altre cattive abitudini legate alla mancanza di autocontrollo, come l’abuso di cibo, i problemi con il gioco d’azzardo o la tendenza a spendere troppo. Per altri, invece, non ha a che fare con la pigrizia o la cattiva gestione del tempo, come possono dimostrare molte persone brillanti che hanno risultati sopra le media e tendono comunque a procrastinare

Per alcuni psicologi rimandare è una sorta di autodifesa: evitiamo un compito perché ci mette ansia senza restituirci una sensazione positiva. Per intenderci non è l’ansia che potremmo avere prima di giocare una partita del nostro sport preferito: quel tipo di ansia la superiamo solitamente con la voglia di giocare, di stare insieme agli altri, di vincere. Si tratta invece dell’ansia che ci fa sentire in colpa e ci fa vergognare perché non siamo all’altezza del compito da svolgere oppure non abbiamo fatto quel che dovevamo.

Il meccanismo con il quale agisce chi rimanda a domani funziona più o meno così: siccome la paura o l’ansia per il compito che ci aspetta sono insopportabili, sostituiamo quel compito difficile con uno più facile, comodo e divertente. Il comportamento è reiterato fino a che l’incombenza è troppo urgente e importante per non essere affrontata; a quel punto però diventa anche di più difficile gestione e soluzione. Esempio: dovremmo fare un certo esercizio di matematica per la lezione che avremo fra 3 giorni; oggi non la affrontiamo perché ci sembra di avere ancora molto tempo; domani ci avviciniamo all’esercizio ma ci distraiamo con altro; il terzo giorno, con sorpresa, abbiamo anche poco tempo per finirlo. Come lo risolveremo secondo voi? Sicuramente non con la nostra migliore performance. Senza contare che per qualcuno è preferibile non presentarsi a scuola piuttosto che affrontare l’esercizio e risolverlo, aggravando così ancora di più la situazione. Ma questo circolo vizioso non è proprio solo della scuola, accade con una certa frequenza anche agli adulti nel posto di lavoro.

Gli psicologi concordano sul fatto che il problema dei procrastinatori è che, invece di rimanere concentrati sui loro obiettivi a lungo termine, sono tentati a cedere alle gratificazioni immediate, che innescano quella forma di sollievo istantaneo che gli psicologi definiscono  “piacere edonico”. Gli obiettivi importanti sono più difficili ma a lungo andare portano una sensazione di benessere e soddisfazione più durevole. Se cadiamo nel tranello di pensare soltanto all’immediato e non vedere un futuro, quello che possiamo fare è cominciare a essere più attenti alla nostra dimensione futura e allo stesso tempo provare a risolvere i nostri compiti un pezzo alla volta. C’è una famosa domanda che si fa nelle sessioni formative in cui si tratta della gestione del tempo e delle risorse: come si mangia un elefante intero? La risposta più banale ma anche più giusta è: un pezzo alla volta. Questo significa che se il compito che abbiamo ci appare troppo grande, possiamo sempre spezzettarlo in compiti più piccoli, in fasi, che possiamo affrontare con maggior tranquillità e più efficacia. Provate a pensare al vostro prossimo compito come ad un puzzle: prima o poi lo finirete, basta mettere insieme un pezzo alla volta.

 

Fermatevi un anno

Sapete che cosa è un “gap year“? Il “gap year” è il modo in cui gli anglosassoni chiamano l’anno in cui decidono di prendersi una pausa. Sì, esatto, un anno di pausa da qualsiasi attività professionale (intendendo con questo anche l’inizio della carriera universitaria). Forse la cosa potrà sembrare strana per la nostra cultura, soprattutto oggi che siamo portati a pensare che ogni minuto passato a non far nulla è tempo sprecato. In alcuni paesi esteri invece il “gap year” è una prassi conosciuta, in certi casi consolidata, qualche volta addirittura consigliata. Quale potrebbe essere il vantaggio di dedicare un anno all’ozio?

Innanzitutto non si tratta di ozio come generalmente viene inteso. Esiste l’ozio creativo, che è quella condizione nella quale lavoriamo (o comunque facciamo qualcosa di produttivo, per noi stessi o gli altri) anche se non ne abbiamo consapevolezza, coscienza e intenzione. Il sociologo che ne ha definito caratteristiche e confini lo ha fatto in un libro che si intitola proprio “L’ozio creativo” (Domenico De Masi, Ediesse 1995). Quindi, una prima questione è che anche quando decidiamo di non fare nulla, in realtà stiamo producendo: ideiamo progetti per il futuro, immaginiamo come potrà svilupparsi la nostra professionalità o la nostra vita, fantastichiamo su dove vorremmo andare o come vorremmo vivere, ci dedichiamo a un hobby, coltiviamo una passione e altre cose del genere. Attenzione: deve essere però una scelta, cioè deve essere intenzionale. Per intenderci, giocherellare e perdersi tra i post di Facebook non è ozio creativo :-).

A ogni modo il “gap year” non è solo ozio, anche se creativo. In realtà è un modo interessante e intelligente per scoprire veramente di che pasta siamo fatti. Per prima cosa il “gap year” è anche e fondamentalmente un anno trascorso a vivere esperienze originali, inconsuete, diverse dalla routine o dalla programmazione che la maggior parte delle persone fa della propria vita. Per prenderci un anno di pausa dobbiamo quindi decidere come utilizzeremo quel tempo e cosa decideremo di fare: dovrà essere un’esperienza che non è dettata dalla funzionalità o da un obiettivo utilitaristico. Molto semplicemente si tratta di scegliere di fare cose ci piacciono e che ci fanno stare bene senza necessariamente che questo ci porti un utile, in qualsiasi senso lo intendiamo.

Se avete modo di ascoltare il racconto di chi ha fatto questa esperienza, vi dirà sicuramente che il “gap year” è stato fondamentale (a questo link http://goo.gl/71WTb5 potete trovare il racconto di una di queste storie; in inglese): l’esperienza può essere il punto di svolta di una vita, aiuta ad aprire gli occhi sul mondo, a respirare aria nuova per fare scelte migliori per il proprio futuro sopratutto per gli studenti. Per esempio, dal racconto di chi lo ha fatto e che potete leggere la link che vi abbiamo segnalato, scopriamo che un anno trascorso a vivere esperienze originali aiuta a comprendere meglio la diversità delle persone e come l’interpretazione del mondo in cui viviamo possa essere molto diversa dalla propria, a migliorare le capacità di adattamento di una persona, a essere maggiormente indipendenti. Se poi un anno di pausa è un anno trascorso all’estero, l’esperienza diventa ancora più interessante perché si aggiungono la conoscenza di una lingua estera, quella di una cultura diversa, la possibilità di avere contatti internazionali. Un anno di pausa può insegnare molte più cose di 10 anni si scuola e formazione.

Il nostro consiglio? Se per esempio siete nell’anno della maturità e state per affrontare la scelta (se non l’avete già fatta) di che cosa fare nella vostra vita, prendete in considerazione il fatto che un “gap year” potrebbe essere per voi la vera svolta.

 

Come prendiamo le nostre decisioni?

Come mai alcune persone decidono di diventare imprenditori e altre no? Perché preferiamo rimandare (decisioni, lavori, impegni) piuttosto che fare quel che occorre? Come reagiscono le persone davanti a una perdita o a un guadagno? Cosa motiva in generale le persone? Come prendiamo le nostre decisioni? A queste domande e ad altre ancora cerca di rispondere una recente disciplina, chiamata neuroeconomia.

Il termine neuroeconomia deriva dall’unione di due discipline che possono sembrare distanti tra loro: la prima indica lo studio del cervello, del sistema nervoso e di come influenza ed è influenzato dall’ambiente che lo circonda. La seconda, invece, studia come due soggetti interagiscono tra loro, attraverso scelte più o meno razionali, utilizzando le risorse che possiedono o sono presenti nel loro ambiente.

L’obiettivo della neuroeconomia è capire come si comporta il cervello durante i processi di decisione. In particolare in quelli di decision making, quando nella scelta sono implicati fgattori economici: dalla semplice spesa in un supermercato, all’acquisto o vendita di un titolo azionario. Modi di agire che in linea di principio sono legati alla sfera economica, ma che effettivamente derivano da comportamenti spcifici del nostro cervello.

Questa disciplina si basa su strumenti, ormai sempre più diffusi, come il PET (Tomografia ad emissione di positroni https://it.wikipedia.org/wiki/Tomografia_a_emissione_di_positroni), la risonanza magnetica e altri strumenti di indagine del nostro cervello che permettono di capire come reagisce agli impulsi esterni.

Per esempio, sono stati realizzati alcuni studi su trader  professionisti e sulle emozioni che si scatenano durante le operazioni di borsa. È stato osservato che nei momenti cruciali delle decisioni si attivano nelle menti degli operatori due dinamiche di pensiero: quella emozionale e quella razionale. Spesso è la prima a predominare sulla seconda. Attraverso questi studi risulta chiaro che l’ansia è maggiore quando le variabili esterne sono impreviste. Prendere decisioni è sempre stata considerata un’attività razionale e consapevole, in cui l’individuo che decide agisce esclusivamente in base alla massimizzazione del proprio interesse. La neuroeconomia attraverso studi e ricerche mette questa convinzione in discussione, fornendo prova che nel momento in cui si prendono delle decisioni hanno molta importanza le esperienze, le emozioni e i processi mentali involontari.

Quante volte siete andati in ansia per una scelta difficile? Quante volte abbiamo pensato di fare la scelta sbagliata? Non preoccupatevi, rilassatevi: la neuroeconomia ci insegna che per quanti sforzi possiamo fare la nostra scelta non sarà mai perfettamente razionale.

(questo articolo è stato scritto da Ilaria Carrasso)

Volontariato, concime per la vita

La bella notizia è che il numero dei giovani che fanno volontariato è in crescita. In risposta a un’indagine Istat del 2010, che rivelava un aumento dei ragazzi cosiddetti “NEET” (inattivi), il CSVNET (Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato) ha riscontrato successivamente un netto aumento  di giovani volontari sia in Italia che in Europa.

Da ulteriori indagini è stato rilevato che più cresce l’età più ci si avvicina al volontariato: una ulteriore indagine rileva che i volontari in Italia sono più di 800mila ed il 22,1% di loro ha meno di trent’anni. Il dato è estremamente positivo ed incoraggiante, se pensiamo che ci troviamo in una società  caratterizzata da un profondo “individualismo”.

la sua parte forse l’ha fatta anche la politica europea che ha intitolato, per così dire,  il 2011 come l’anno europeo  del volontariato: l’intenzione era quella di promuovere il volontariato come integratore di coesione sociale e motore di sviluppo della  democrazia.

A distanza di cinque anni, sulla scia di quell’esperienza positiva, l’Unione Europea ha rafforzato il messaggio ponendosi altri obbiettivi su come migliorare le condizioni del volontariato: ci sono allo studio misure per  favorire il riconoscimento del lavoro dei volontari, sensibilizzare i cittadini sull’importanza ed il valore del volontariato, insistere sulla promozione partendo dalle scuole e dai centri di aggregazione giovanile.

Come per altre politiche ed azioni europee, il risultato auspicabile è quello di creare una sorta di una “spirale benefica”. L’idea è quella di accendere i riflettori su questo fondamentale concime per la società, attraverso campagne di informazione e promozione, la divulgazione, lo scambio di esperienze, l’organizzazione di eventi, convegni, manifestazioni.

In un momento di forte crisi, non solo materiale ma forse anche personale, di perdita di valori e fiducia in se stessi, il volontariato si presenta come una pietra preziosa su cui fondare la ricostruzione e il rilancio della società: perché favorisce la trasmissione di valori fondamentali, perché offre una risposta concreta ai problemi, perché stimola la crescita degli individui, perché rappresenta un incredibile aiuto per il prossimo.

Se questi temi hanno acceso un po’ del vostro interesse ma soprattutto trovano anche un po’ della vostra passione, all’Informagiovani potete muovere i primi passi: tra le cose che potete trovare nel materiale a vostra disposizione ci sono elenchi di associazioni e organizzazioni locali e internazionali, attività e servizi da svolgere, programmi di volontariato europeo, iniziative pensate appositamente per chi vuole dedicare tempo ed energie per aiutare gli altri. E forse anche se stesso. Che aspettate? Magari scoprite una porta che vi apre un mondo nuovo.

(questo articolo è stato scritto con il contributo di Edy Paccapeli)

Tirocini all’estero per tutti i gusti!

Sia che ci prepariamo a svolgere un tirocinio curricolare che uno post-laurea, dobbiamo ricordare che una esperienza professionale all’estero risulterà sempre determinante per la formazione, anche personale, e per il curriculum vitae lavorativo.

Le opportunità sono tante e diverse, a seconda del livello di studi e dell’area di interesse: molte agenzie internazionali, aziende multinazionali, enti e ONG accolgono tirocinanti in maniera regolare, e propongono un programma ben definito di inserimento per giovani desiderosi di fare esperienza e acquisire conoscenze nel settore specifico.

Vediamo le opportunità di tirocini all’estero per cui è necessario presentare domanda entro la fine di aprile.

Per laureati in giurisprudenza: tirocini presso l’ufficio del Mediatore Europeo (Strasburgo)
Durata: 4 mesi
Mansioni: generalmente essi devono occuparsi di svolgere indagini sulle denunce presentate, e svolgere ricerche pertinenti il lavoro del Mediatore.

Requisiti:
– cittadinanza europea
– diploma di laurea in giurisprudenza
– conoscenza approfondita di una lingua ufficiale dell’UE e la buona conoscenza di una seconda (inglese o francese).

Borse di studio per un periodo di tre mesi sono disponibili per i tirocinanti che non hanno a disposizione altri mezzi di sostegno economico.
Scadenza: 30 Aprile per i tirocini che hanno inizio il 1° Settembre.

 

Per laureati o studenti universitari: tirocini presso il Centro Nord-Sud del Consiglio d’Europa (Lisbona)
Durata: dai 3 ai 5 mesi
Mansioni: ricerca, la preparazione di attività, la redazione di rapporti e minute, l’assistenza nel lavoro quotidiano.

Requisiti:
– residenti di uno degli Stati membri del Consiglio d’Europa o Paesi Orientali con i quali il Centro Nord-Sud collabora
– aver completato un corso di studi superiore o portato a termine almeno tre anni di studi universitari
– ottima conoscenza di una delle lingue ufficiali del Consiglio d’Europa (inglese e francese). E’ gradita la buona conoscenza di un’altra lingua. Si richiede una buona capacità di scrittura.

I tirocini non sono retribuiti. I costi di viaggio e alloggio, nonché le spese vive, sono a carico del tirocinante o del suo istituto sponsor. Il Centro Nord-Sud del Consiglio d’Europa automaticamente garantisce ai suoi tirocinanti l’assistenza sanitaria durante il periodo del tirocinio.
Scadenza: 30 Aprile per i tirocini nel periodo agosto – dicembre 2016.

 

Per neolaureati: tirocini presso il Consiglio d’Europa (Strasburgo)
Durata: da 8 settimane a 5 mesi
Mansioni: i tirocinanti sono impegnati in attività di ricerca, preparazione di bozze e documenti per incontri di esperti e stesura di verbali.

Requisiti:
– appartenere ad uno degli Stati membri del Consiglio d’Europa
– avere una conoscenza approfondita di una delle lingue ufficiali del Consiglio d’Europa (inglese e francese). E’ apprezzata una buona  conoscenza dell’altra lingua.

Generalmente i tirocinanti non sono retribuiti. Le spese di viaggio e alloggio, così come le spese ordinarie, sono a carico del tirocinante.
Scadenza: 29 Aprile per i tirocini nel periodo 5 settembre 2016 al 31 gennaio 2017.
Per laureandi o neolaureati: tirocini presso l’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (Ginevra)
Durata: da 3 a 6 mesi
Mansioni: fare ricerca su temi legati ai diritti umani, redigere resoconti dei risultati raggiunti, fornire assistenza tecnica e pratica nell’organizzazione di incontri, prevenire gli eccessivi arretrati di lavoro causati dalle attività tecniche legate all’indagine, alla cooperazione e ad altre operazioni settoriali; sostenere altre attività dell’OHCHR.

Requisiti:
– possedere un diploma di laurea
– avere approfondito alcune discipline legate all’operato delle Nazioni Unite, ad esempio Diritto Internazionale, Scienze Politiche, Storia, Scienze Sociali
– possedere una buona padronanza di almeno due delle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite: inglese, francese, spagnolo, arabo, russo e cinese.

I tirocinanti presso le Nazioni Unite non sono remunerati. Le spese di viaggio e di soggiorno dovranno essere sostenute dai tirocinanti stessi. I partecipanti dovranno essere appoggiati da un’istituzione accademica.
Scadenza: 30 aprile per i tirocini nel periodo luglio – dicembre.

 

Per studenti o neolaureati in giornalismo, comunicazione, studi europei o relazioni internazionali: tirocini presso l’Europol (Aia)
Durata: 6 mesi
Mansioni: attività di prevenzione di crimini informatici, in particolare video editing e preparazione di bollettini, opuscoli, manifesti, volantini e altri prodotti di comunicazione; sostegno alla creazione di contenuti multimediali; preparazione di presentazioni interattive; supporto all’organizzazione per eventi, seminari, conferenze.

Requisiti:
– ottima conoscenza di almeno due lingue dei paesi UE, tra cui l’inglese
– esperienza nel settore multimediale (video editing, graphic design, communication materials)
– ottime competenze informatiche, oltre a saper lavorare in contesti multiculturali, avere forte motivazione e flessibilità.

E’ prevista una retribuzione mensile di 781,00 euro.
Scadenza: 17 aprile.

 

Per studenti o laureati preferibilmente in economia e scienze politiche: tirocini presso il Frontex Liaison Office (Atene)
Durata: 6 mesi
Mansioni: raccolta dati; supporto in ambito tecnico-amministrativo; supporto nella redazione di relazioni periodiche; organizzazione incontri.

Requisiti:
– ottima conoscenza della lingua inglese;
– competenze informatiche.

E’ prevista una retribuzione mensile di 720,00 euro circa.
Scadenza: 15 aprile.

 

E’ tutto per questo mese, in bocca al lupo!

 

Mamma, voglio diventare Youtuber!

Secondo la rivista americana “Variety”, gli Youtuber sono amati dagli adolescenti più delle star di Hollywood. I teen-ager e in generale i nativi digitali costituiscono la fetta maggiore di frequentatori del web. Quindi non è difficile intuire che con Youtube (e altri social) è possibile diventare ricchi e perseguire, spesso in maniera del tutto illusoria per alcuni ingenui, l’obiettivo di “ fare soldi senza fatica ”.
Se si considera che nel 2015 si sono superate le 300 ore di video caricate ogni minuto, perdersi nella massa è quasi la regola, quindi pensare che si possa sfruttare in modo non strategico e ragionato questo mezzo, lasciando che la “barca vada”, è appunto il modo migliore per affondare.

Sara Mormino, l’italiana responsabile mondiale delle partnership di YouTube, durante un’intervista a “La Stampa”, regala dei consigli e rivela che l’unico modo di avere qualche chance nella realtà paritaria (ma forse non meritocratica) del web, è partire sempre da una passione autentica, un qualcosa di assolutamente personale, pur tenendo in considerazione che ci sono temi che funzionano più di altri. I videogiochi su tutti. Infatti, nella classifica fornita da Wikipedia, aggiornata al 7 Febbraio 2016 (dominata quasi completamente da Youtuber americani), ancorato al primo posto c’è PewDiePie, username di un ragazzo svedese il cui canale di recensioni di videogiochi conta 42 milioni di iscritti. Ma come si traduce questo in termini lavorativi e monetari?

Per avere un’idea di quanto sia proficuo “ l’affare video”, vi facciamo presente che YouTube ha fondato una Creator Academy dedicata ai suoi autori, gratuita e aperta a chiunque voglia approfondire i temi legati alla gestione e alla produzione strategica dei propri contenuti su YouTube, con lezioni via Internet, incontri dal vivo, presentazione di casi di successo e lezioni di introduzione sulla monetizzazione con Youtube (ad esempio attraverso il programma “Partner di Youtube”).

Contenuti che interessino, titoli giusti e tag ottimizzati per le keyword cercate maggiormente su Internet, sono alcune delle “regole d’oro” da seguire per fare un buon lavoro. Perché essere uno Youtuber può diventare un lavoro e rappresenta un’occasione soprattutto per i giovani che, oltre ad essere i maggiori utilizzatori di Youtube, sono stati anche tra i primi a “sperimentare con i video”, sempre secondo la testimonianza della Mormino al sito web della Stampa.

In un periodo storico come il nostro, in cui i mantra sembrano essere quello della “flessibilità”, del “crearsi il lavoro” e del “diventare imprenditori di se stessi”, Youtube, che presenta dei costi vivi e dei costi fissi piuttosto contenuti, se usato intelligentemente può diventare la piattaforma ideale per far emergere il proprio talento, guadagnare e, perché no, nutrire il piccolo (o grande) mostro dell’egocentrismo che alberga in tutti noi.

(questo articolo è stato scritto da Viola Ferri)

Cosa sono le competenze?

Sono in molti a pensare che i lavori di domani si fonderanno sulle competenze piuttosto che sui titoli. Spieghiamo la differenza, almeno a nostro modo di vedere. I titoli sono “etichette” che possiamo metterci ed esibire quando qualcuno ce le consegna. Così diventiamo ingegneri, per esempio, solo quando, dopo un percorso universitario, otteniamo il titolo di studio della laurea in ingegneria; oppure siamo giornalisti solo quando un ordine, previo apposito iter ed esame, dichiara che possiamo firmare articoli di giornali e riviste. Niente di male, per carità. Solo che questo meccanismo oltre ad avere indubbi vantaggi (pensate ad esempio alla professione del medico, per la quale il titolo garantisce uno standard di qualità e sicurezza per tutti) ha anche qualche pecca. Per esempio non contempla professioni emergenti che, non rientrando dentro nessuna categoria già preordinata, sfuggono anche a titoli di qualsiasi genere (quando potete dire di essere social media manager?).

Ma il difetto, se così lo vogliamo chiamare, più grande è la logica che sottende a questo tipo di impostazione. Avere un titolo ci fa pensare (a volte pretendere) che sia nostro diritto avere anche un lavoro, una mansione retribuita per quel tipo di titolo. Non che la pretesa sia assurda, ma cosa succede se dato un tot di laureati in giurisprudenza non ci sono posizioni sufficienti per tutti? La risposta nella realtà la conoscete tutti. Questo meccanismo non è sbagliato in senso assoluto, solo che non corrisponde più e non è più adattabile all’attuale mercato del lavoro.  Proviamo avedere se, diversamente, può accadere qualcosa di diverso partendo dalle competenze.

Innanzitutto: cosa sono le competenze? Etimologicamente competenza deriva dal tardo latino competentia, sostantivo di competere (cum, insieme, più petere, dirigersi verso, cercare di avere, aspirare). Competere significa dunque: –Incontrarsi, convergere al medesimo punto –Concordare –Spettare, essere applicabile –Essere padrone di se stesso, cercare insieme (allo stesso tempo) di ottenere qualcosa –Essere adatto, capace di (in senso figurato). Riprendendo una definizione più vicina ai temi del lavoro, proposta da ISFOL, la competenza professionale è un insieme di elementi/dimensioni che concorrono all’efficacia di un comportamento professionale; è finalizzata all’azione ed è intrecciata alla capacità di fare e alla conoscenza delle situazioni e dei contesti. insomma dentro la competenza c’è tutta la nostra professionalità; e l’insieme delle nostre competenze fa di noi professionisti di un determinato campo. Avere delle competenze, quando cerchiamo lavoro, dovrebbe farci fare questa domanda: a chi possono essere utili? L’ottica, rispetto a quella del “posto di lavoro” per titoli, è nettamente diversa anche se il risultato atteso è identico.

Se cominciamo a porci nel mercato del lavoro come professionisti in grado di offrire delle competenze la strategia che dovremmo seguire non è tanto quella di trovare un posto, quanto quella di capire quale bisogno o quale utilità possiamo offrire a chi ci potrebbe pagare per avere i nostri servizi. Il meccanismo che regola questa strategia è lo stesso che seguono aziende ed imprenditori quando decidono di posizionarsi in un mercato. C’è un libro che racconta meglio e in maniera più esaustiva tutto questo: è “Business model you” di Tim Clark, tradotto anche in italiano dalla casa editrice Hoepli. Ah, se volete potete consultarlo gratuitamente anche all’Informagiovani!

Concentrazione minima

“Attenzione!” è questo l’incitamento che con maggiore frequenza e facilità troviamo in contesti diversi della nostra vita: per strada, a scuola, in casa. “Attenzione” è un ammonimento, ma anche un avvertimento, che richiama all’ordine prima il nostro sguardo e poi la nostra mente. La nostra mente ha, infatti, una forte inclinazione a disimpegnarsi, a divagare (e la frequenza con cui questo richiamo viene fatto ne è la dimostrazione). A chi non è capitato di distrarsi? O, meglio, chi non è mai distratto? La disattenzione, a parte i film di spie e 007, è un fattore intrinseco dell’essere umano: tutti noi ci distraiamo (e peggio sarebbe se non fosse così).

La mente umana, spesso e volentieri, vaga senza una meta apparente: non significa che sia inattiva, semplicemente non è focalizzata su di un obiettivo (e quel “attenzione!” magari gridato serve proprio a ricondurci all’obiettivo). Quando ci capita di distrarci, però, non è che il nostro cervello se ne stia lì ad oziare: nel concedersi spazi di svago, nel distaccarsi dalla contingenza la mente esercita anche altre facoltà, con esisti vantaggiosi per noi stessi e gli altri. E allora: a che cosa pensiamo quando non pensiamo a nulla? In un libro intitolato “The wandering mind” (sottotitolo tradotto: che cosa fa la mente quando non guardi”) si cerca danno più risposte a questa domanda. Quello che il nostro cervello fa durante lo “svago” è una ricombinazione di stimoli che durante la fase di attenzione ha ricevuto. La nostra memoria è composta infatti da tre sostanziali livelli. Il primo è quello delle competenze (skills) come per esempio parlare, camminare, scrivere, ecc. Il secondo livello è quello delle conoscenze (knowledge): si tratta dell’insieme delle nozioni che abbiamo ricevuto, in tutti i contesti in cui le abbiamo assimilate (non solo, quindi, la didattica formale). E infine quella che viene definita più comunemente come memoria, cioè la capacità di ricordare, riattivare esperienze del passato. Su questo ultimo livello la nostra mente, stranamente, propende più a guardare la futuro che non al passato, tanto è vero che le zone cerebrali che si attivano ricordando eventi del passato, sono le stesse che si attivano quando pensiamo al futuro.

Se paragoniamo il nostro cervello ad una città, nelle fasi di ozio non è che le strade siano deserte, ma gli abitanti attendono a casa propria salvo confluire in un medesimo posto quando accade un evento importante. Quindi quando divaghiamo, in realtà viaggiamo: oltre che tornare al passato, facciamo anche dei viaggi futuristici immaginandoci possibili scenari futuri. E poi facciamo anche un’altra cosa incredibile: secondo la “teoria della mente” abbiamo l’attitudine a rappresentarci gli stati mentali altrui. In altre parole ci facciamo delle domande e cerchiamo delle risposte su quello che potrebbero pensare gli altri. A volte facciamo anche il salto del cosiddetto “mettersi nei panni degli altri”: sviluppare la disposizione a mettersi nei panni altrui aumenta ala possibilità di comprensione reciproca, di empatia e interesse sociale, con evidenti vantaggi per la sopravvivenza del gruppo.

Questo vagabondare della nostra mente è anche alla base della creatività: si passa dalla fantasticheria privata a un esercizio sociale dell’immaginazione; è il piacere di girovagare nella mente altrui che ci induce a creare personaggi d’invenzione, apposta per questo scopo; ed è il piacere di spostarsi nel tempo che ci porta a inventare trame e storie. Anche l’attività di narrare è una forma di adattamento: i nostri remoti progenitori sono letteralmente diventati umani narrando, usando cioè il linguaggio per riferire, condividere, tesaurizzare esperienze ritenute rilevanti.

D’ora in poi quando qualcuno ci coglierà nel pieno della nostra distrazione potremo rispondere a quel monito (attenzione!) dicendo tranquillamente che stavamo viaggiando per raccontare storie e che quello che riusciremo a produrre grazie a questo metodo sarò molto più proficuo di quanto verrebbe fuori se rimanessimo instancabilmente focalizzati su di un solo obiettivo. Con buoan pace di chi ci vorrebbe soltanto come task manager, siamo in realtà dei poeti sognatori. 🙂

 

 

 

Come (rischiare di) perdere il lavoro

Solitamente consigliamo le cose che si DEVONO fare per trovare un lavoro. Ma forse possono essere utili anche quelle che si devono EVITARE per non rischiare di perdere quella che potrebbe essere un’opportunità lavorativa. Perché se è vero che un buon curriculum può aiutare a fare una bella impressione, è altrettanto dimostrato che mostrarsi trasandati fa ottenere l’effetto contrario. Leggendo un articolo tratto dalla rivista Business Insider abbiamo trovato alcuni comportamenti, atteggiamenti e stili che potrebbero essere a rischio “perdita di lavoro”: eccoli qua.

Poca attenzione: ci sono candidati che durante il colloquio prendono nota delle cose che vengono dette oppure fanno domande sull’azienda e sul ruolo; poi ci sono quelli che invece, con sguardo fisso, ascoltano senza alcun feedback quello che viene detto loro. Ecco, questi secondi stanno perdendo punti preziosi.

Esibizionismo: c’è chi cerca di attirare attenzione su di sè o sul proprio cv con effetti speciali, colori sgargianti, decorazioni floreali, un linguaggio esageratamente pittoresco. Cercano in tutti i modi di attirare l’attenzione: probabilmente ottengono il risultato sperato, ma l’attenzione è di un altro tipo (quella che abbiamo per un pagliaccio, non per un professionista).

Bere e fumare: non è affatto una buona idea bere qualcosa di alcolico prima di un colloquio perché se è vero che questo potrebbe calmare i nervi, si rischia invece di sembrare un po’ annebbiati oppure non troppo intelligenti; il fumo invece ci lascia addosso un odore inequivocabile ed anche se questo di per sé potrebbe non essere un problema, accade però che i selezionatori danno molta importanza alle nostre abitudini di vita che possono incidere sul luogo di lavoro.

Poca cura personale: quella della igiene personale non è una questione da sottovalutare; non sono per fortuna molti quelli a trascurarla, ma bisogna fare attenzione anche alla cura dei particolari, cercando di provvedere alla pulizia delle mani per esempio, oppure a qualche rimedio per una eventuale eccessiva sudorazione.

Mandare messaggi: speriamo che nessuno di voi abbia in mente di mettersi a scrivere un messaggio durante un colloquio; lo sconsigliamo anche nel caso lo facciate in quei momenti in cui siete in attesa (magari perché, giustamente, siete arrivati un po’ prima dell’orario prefissato). Questo perché, al posto del messaggio, nelle sale di attesa delle aziende potreste raccogliere utili spunti da utilizzare nel colloquio (che dite, leggendo una brochure aziendale per esempio?).

Portarsi dietro un sacco di roba: presentarsi ad un colloquio con troppe cose in mano o al seguito (agenda, telefono, bottiglietta d’acqua, scartoffie varie) non è un buon contributo per generare una buona impressione; il vostro curriculum, una penna con un foglio per gli appunti sono più che sufficienti (sì, il telefono lo potete lasciare da parte).

Esagerare: chiaramente l’obiettivo di ogni buon candidato è quello di stupire, impressionare il selezionatore che ha davanti (costi quel che costi). E quindi via a raccontare tutto ciò che si è fatto e che ci è accaduto senza accorgersi, a volte, di straripare in uno sproloquio che rischia di fare davvero una cattiva impressione. Per evitarlo alcuni piccoli accorgimenti: dire le cose rilevanti, tenere fuori dalla discussione la vita privata, ascoltare (e fare delle domande). La declinazione peggiore del candidato strabordante è quello che interrompe mentre parlano gli altri: dimostra mancanza di rispetto e anche poca attenzione (da evitare assolutamente).

Non far parlare il corpo: le parole sono importanti, ma lo è anche il linguaggio del nostro corpo; per esempio se scegliamo di non sorridere, di non guardare l’interlocutore in faccia e di avere una cattiva postura (quasi sdraiati sulla sedia, la testa appoggiata alle mani o ancor peggio sul tavolo per fare un paio di esempi) stiamo contribuendo a gran parte del nostro insuccesso con comportamenti a volte involontari.

Ci potrebbero essere anche altre cose da dire (e ce ne sono se avete voglia di leggere per intero l’articolo su Business Insider, in inglese). Noi ci auguriamo che anche solo questi descritti possano aiutarvi a fare la migliore prima impressione che potete. E in bocca al lupo per il vostro futuro lavoro!

 

Professione front office

In fondo che ci vuole? L’addetto al front office viene considerato un tipo di lavoro semplice, che tutti possono fare e che non richiede particolari qualifiche, una lunga preparazione o capacità specifiche.
E invece occuparsi efficacemente del front office di un ufficio, una azienda, una struttura ricettiva, è molto più che piazzarsi in divisa dietro a un bancone, e farlo bene implica non solo curare l’aspetto, ma anche e soprattutto la relazione, senza confondere un approccio gentile, amichevole e a volte informale (a seconda dell’esigenza del soggetto per cui si lavora) con una chiacchierata tra amici al bar.
Bisogna avere capacità di ascolto e di osservazione, per cogliere i segnali non verbali inviati delle persone che ci stanno di fronte, e capire la domanda reale che sta dietro alla richiesta; se è necessario porre delle domande per capire meglio cosa rispondere, bisogna saperlo fare con discrezione e cortesia.
E’ necessario saper rispondere in maniera educata, cordiale e rassicurante, anche quando non si ha immediatamente la risposta giusta a disposizione (e quindi poi bisogna avere la prontezza e l’intraprendenza per cercare quella più corretta possibile, possibilmente in tempi utili).

E che fare quando diverse richieste arrivano contemporaneamente? Se una persona si avvicina e stiamo già rispondendo al telefono o a qualcun’altro? E come cavarsela con chi arriva con una lamentela bella pronta, che magari non ha niente a che fare con il nostro operato?
Definire le priorità, rispettare le precedenze, gestire le emergenze e le criticità, dedicare ad ognuno il tempo e l’attenzione necessarie sono capacità che si acquisiscono con il tempo, l’esperienza e l’osservazione di chi già svolge questa mansione.
A volte stabilire un contatto visivo con la persona che abbiamo davanti mentre siamo al telefono, accennare un sorriso e, in qualche modo, fargli capire che ci siamo accorti che sta aspettando noi, la predispone ad attendere con maggior pazienza il proprio turno, o a porre la propria questione in maniera gentile.

Fondamentale oggi è ricordare che anche le attività sui canali social sono una forma di front office, di relazione con utenti e clienti: aspetto tanto più delicato quanto la comunicazione è a distanza, passa attraverso quello che si scrive e non è corredata dal nostro tono di voce, dall’espressione del viso, e può facilmente essere fraintesa, o non accolta come avremmo pensato. Le parole e le risposte vanno cautamente e attentamente scelte, e le risposte non devono farsi attendere troppo.

Insomma, la gestione del front office fatta bene comporta un nutrito mix di capacità relazionali, comunicative e organizzative, oltre alla conoscenza di informazioni relative al posto in cui ci si trova e al soggetto per cui si lavora (Con che orari vi trovo aperti? Dove trovo il signor… ? Il bancomat più vicino? Il vostro numero di telefono?).
Il tutto senza mai dimenticare un sorriso, che è sempre la miglior accoglienza e un buon modo per dirsi arrivederci!

Il 17 aprile si vota, anche dall’estero!

Tutti i cittadini italiani che hanno compiuto 18 anni saranno chiamati a partecipare al voto per l’abrogazione o il mantenimento della norma che riguarda la durata dei permessi e concessioni a esplorazioni e trivellazioni dei giacimenti di idrocarburi entro dodici miglia dalla costa.
Anche chi quel giorno si troverà all’estero per motivi di studio, lavoro o salute, potrà esprimere il proprio voto (la permanenza all’estero dovrà avere la durata di almeno 3 mesi).
Per sfruttare questa possibilità, è sufficiente informare l’ufficio elettorale del proprio comune di residenza e comunicare il proprio temporaneo indirizzo all’estero, al quale si potrà ricevere la scheda elettorale.
La comunicazione, da fare utilizzando i moduli predisposti, potrà essere inviata di fatto fino a un mese dalla data della votazione.
Per il Comune di Ancona, trovate qui i recapiti, i dettagli e i moduli da utilizzare per poter esprimere il vostro voto anche dall’estero.
Dovunque siate, il 17 aprile dite la vostra!

Parla come mangi

Il meeting sarà poco dopo il briefing e finirà con un brunch a base di finger food. Questa frase, costruita qui ad hoc, è inventata ma non fatichiamo a credere che potrebbe essere benissimo stata pronunciata, anche più di una volta. Una frase del genere è un mix di parole italiane e inglesi ma quello che notiamo è che le italiane sono solo quelle funzionali e non quelle che danno il significato e il senso alla frase: chi parla o scrive così più che farsi capire sembra proprio che abbia l’intento contrario. L’ingresso di parole straniere nella nostra lingua non è una moda del momento. Per esempio la parola chewingum, ampiamente utilizzata da tempo, è stata introdotto alla fine della seconda guerra mondiale con l’arrivo degli americani. Allora l’inglese era poco conosciuto così come, ahimè, l’italiano (ma temiamo che su questo i miglioramenti non siano stati per tutti omogenei).

La domanda che ci facciamo in questo momento è: sono utili i termini inglesi nella nostra produzione orale o scritta? Possono essere sostituiti con termini italiani di eguale significato e, diremmo, di uguale estetica linguistica? Detto in altre parole e con un esempio: possiamo facilmente sostituire la parola meeting con “incontro” senza timori di non essere capiti, mentre per identificare il brunch forse diventa un po’ più ostico utilizzare una perifrasi come “pasto consumato in tarda mattinata a metà tra la colazione e il pranzo”. Come ci regoliamo? La questione non è solo accademica e di stile linguistico. Riguarda tutti noi per esempio quando ci presentiamo ( proposito, ieri abbiamo detto a scuola quali sono le regole principali, le trovate qui) attraverso una lettera di presentazione professionale, un cv o un post sul nostro profilo social che utilizziamo anche per farci conoscere come professionisti. Secondo noi potrebbe essere utile capire quando possiamo (e dobbiamo) utilizzare un termine inglese perché così è più comprensibile ed invece quando il nostro inglese serve solo a farci sembrare un po’ più “fighetti” senza nulla aggiungere ai contenuti che proponiamo.

La questione non è da poco considerato che anche l’Accademia della Crusca ha creato un gruppo di lavoro dedicato ai neologismi e alle nuove parole che entrano nel vocabolario della lingua italiana. Non da meno ci dovrebbe far riflettere il fatto che su alcune questioni di interesse comune come il lavoro e la famiglia si utilizzino termini in inglese quando si cerca di cambiare qualcosa (rispettivamente jobs act e stepchild adoption): dovremmo capire meglio o di meno? Qualche volta, purtroppo, è la seconda ipotesi che vince. Ma se nelle questioni di politica segue il dibattito nel quale è possibile confrontarsi e approfondire, in un testo scritto che ciascuno di noi invia agli altri non ci sono tante possibilità di discussione e argomentazione. La necessità in questi casi è quella di presentarsi in maniera chiara, efficace e, possibilmente, con successo.

Per risolvere la questione e capire se per esempio nel vostro cv dovete scrivere che vi siete occupati di brand e di budget anziché di “marca” e “bilancio” oppure se avete già lavorato per un competitor anziché un “concorrente” potete fare riferimento a questa lista: contiene 300 parole che utilizziamo in inglese ma che hanno un equivalente più che opportuno anche in italiano. Fatelo, anche se se state rispondendo a qualcuno in cerca di un key account junior: forse è anche un modo che la vostra conoscenza dlela lingua (e delle lingue) supera il loro know-how.

Le competenze informatiche sono essenziali

Solitamente ormai si danno per scontate, ma le abilità nell’utilizzo del pc non sono un patrimonio comune. E, soprattutto, bisogna intendersi su che cosa significhi oggi sapere e potere utilizzare in maniera adeguata un computer. Se leggete questo post, quantomeno avete la padronanza minima della navigazione in internet e siete arrivati in qualche maniera a visualizzare queste righe. In Italia questa capacità non ce l’hanno tutti ed il problema non è tanto e solo di spendibilità nel mercato del lavoro ma anche di accesso alle opportunità. Significa che chi non sa utilizzare un computer non solo ha meno possibilità di trovare un lavoro dignitoso ma già oggi non è nella condizione di poter fare alcun lavoro.

Per dare un’idea un po’ più precisa di quello che accade oggi in Italia, riprendiamo da un articolo del giornale on line Linkiesta alcuni dati relativi alla diffusione di internet nel nostro Paese. Il dibattito italiano, solitamente, si ferma alla poca diffusione della banda larga nelle case degli italiani. Questa mancanza si porta dietro anche una serie di correlazioni e conseguenze, non ultima quella delle poche opportunità che ci sono di progredire in tema di diffusione della cultura informatica nella popolazione. In sostanza il pensiero è che siccome le infrastrutture esistenti sono poco sviluppate, ne consegue che sono poche anche le persone che le sanno utilizzare. Sicuramente questo è un dato veritiero, sostenuto anche da ricerche ed analisi di carattere scientifico. Per farci meglio capire, è come se dicessimo che in un dato luogo non ci va nessuno perché non c’è nessuna strada o collegamento che lo raggiunge.

Per l’informatica vale la pena però prendere in considerazione anche un altro fattore, se non altro per rifuggire da un atteggiamento attendista che è un po’ tipico italiano (della serie: non utilizzo il pc/web fintanto che non c’è una struttura adatta). In questo senso un dato che noi definiamo allarmante è quello che indica che a fronte di un aumento delle connessioni in banda larga di circa quaranta punti percentuali in meno di dieci anni, le abilità informatiche della popolazione italiana sono rimaste sostanzialmente al palo. Se è vero che il web veloce facilita l’accesso e l’utilizzo questo non dovrebbe accadere. Forse potrebbe essere utile un po’ di istruzione? Magari l’utilizzo e l’acquisizione di competenze informatiche cresce anche grazie a processi in cui si cerca di alfabetizzare le persone che dovranno utilizzarlo.

Sempre Linkiesta riporta che “l’implementazione di politiche per la diminuzione dell’analfabetismo informatico potrebbe essere una buona leva per far crescere il mercato delle vendite online, perlomeno in relazione all’Italia. Un Paese, forse vale la pena di ricordarlo, in cui il 39% della popolazione non ha mai navigato su internet. L’esempio da seguire, in quest’ambito, è quello dei paesi scandinavi”. Insomma sarebbe necessario tornare un po’ sui “banchi” o, meglio, sui PC di scuola per imparare ad utilizzare il computer. L’alfabetizzazione digitale, come viene chiamata, aiuterebbe non soltanto a far progredire il singolo, ma anche l’intera comunità in termini di ricchezza di opportunità, sviluppo di nuovi mercati, consapevolezza e cultura generale. Insomma, un vero progresso. Che stiamo aspettando?

 

Nel nostro piccolo, niente! Infatti certi che questa cosa fosse utile abbiamo fatto partire qualche tempo fa il minicorso “ABC per il PC” che in tre moduli insegna a chi proprio non ne sa nulla che cosa fa e a che cosa serve il computer. Ci piace dirlo: è stato un successone! Talmente elevato che abbiamo deciso di riaprire le iscrizioni. Se conoscete qualcuno che non saprebbe raggiungere questo articolo per leggerlo è il momento giusto per fargli un regalo: ditegli di iscriversi ad ABC per il PC, lo aspettiamo!

Assistenti di lingua italiana all’estero

 

E’ un’opportunità unica per laureati in materie umanistiche interessati alla diffusione della lingua e della cultura italiana all’estero!

Il bando per proporsi come assistenti di lingua italiana per l’anno scolastico 2017/2018 è indetto dal MIUR ed è aperto fino al 4 marzo.

Il periodo di permanenza nel paese che accoglie gli assistenti (può essere espressa una preferenza tra quelli indicati, ma non è detto che si ottenga un posto proprio là) è di circa 8 mesi, con una retribuzione variabile a seconda del paese, e si può essere chiamati a prestare la propria opera presso scuole e istituti di vario grado.

La domanda si presenta esclusivamente online al sito http://www.trampi.istruzione.it/asl/

In bocca al lupo!