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Le competenze informatiche sono essenziali

Solitamente ormai si danno per scontate, ma le abilità nell’utilizzo del pc non sono un patrimonio comune. E, soprattutto, bisogna intendersi su che cosa significhi oggi sapere e potere utilizzare in maniera adeguata un computer. Se leggete questo post, quantomeno avete la padronanza minima della navigazione in internet e siete arrivati in qualche maniera a visualizzare queste righe. In Italia questa capacità non ce l’hanno tutti ed il problema non è tanto e solo di spendibilità nel mercato del lavoro ma anche di accesso alle opportunità. Significa che chi non sa utilizzare un computer non solo ha meno possibilità di trovare un lavoro dignitoso ma già oggi non è nella condizione di poter fare alcun lavoro.

Per dare un’idea un po’ più precisa di quello che accade oggi in Italia, riprendiamo da un articolo del giornale on line Linkiesta alcuni dati relativi alla diffusione di internet nel nostro Paese. Il dibattito italiano, solitamente, si ferma alla poca diffusione della banda larga nelle case degli italiani. Questa mancanza si porta dietro anche una serie di correlazioni e conseguenze, non ultima quella delle poche opportunità che ci sono di progredire in tema di diffusione della cultura informatica nella popolazione. In sostanza il pensiero è che siccome le infrastrutture esistenti sono poco sviluppate, ne consegue che sono poche anche le persone che le sanno utilizzare. Sicuramente questo è un dato veritiero, sostenuto anche da ricerche ed analisi di carattere scientifico. Per farci meglio capire, è come se dicessimo che in un dato luogo non ci va nessuno perché non c’è nessuna strada o collegamento che lo raggiunge.

Per l’informatica vale la pena però prendere in considerazione anche un altro fattore, se non altro per rifuggire da un atteggiamento attendista che è un po’ tipico italiano (della serie: non utilizzo il pc/web fintanto che non c’è una struttura adatta). In questo senso un dato che noi definiamo allarmante è quello che indica che a fronte di un aumento delle connessioni in banda larga di circa quaranta punti percentuali in meno di dieci anni, le abilità informatiche della popolazione italiana sono rimaste sostanzialmente al palo. Se è vero che il web veloce facilita l’accesso e l’utilizzo questo non dovrebbe accadere. Forse potrebbe essere utile un po’ di istruzione? Magari l’utilizzo e l’acquisizione di competenze informatiche cresce anche grazie a processi in cui si cerca di alfabetizzare le persone che dovranno utilizzarlo.

Sempre Linkiesta riporta che “l’implementazione di politiche per la diminuzione dell’analfabetismo informatico potrebbe essere una buona leva per far crescere il mercato delle vendite online, perlomeno in relazione all’Italia. Un Paese, forse vale la pena di ricordarlo, in cui il 39% della popolazione non ha mai navigato su internet. L’esempio da seguire, in quest’ambito, è quello dei paesi scandinavi”. Insomma sarebbe necessario tornare un po’ sui “banchi” o, meglio, sui PC di scuola per imparare ad utilizzare il computer. L’alfabetizzazione digitale, come viene chiamata, aiuterebbe non soltanto a far progredire il singolo, ma anche l’intera comunità in termini di ricchezza di opportunità, sviluppo di nuovi mercati, consapevolezza e cultura generale. Insomma, un vero progresso. Che stiamo aspettando?

 

Nel nostro piccolo, niente! Infatti certi che questa cosa fosse utile abbiamo fatto partire qualche tempo fa il minicorso “ABC per il PC” che in tre moduli insegna a chi proprio non ne sa nulla che cosa fa e a che cosa serve il computer. Ci piace dirlo: è stato un successone! Talmente elevato che abbiamo deciso di riaprire le iscrizioni. Se conoscete qualcuno che non saprebbe raggiungere questo articolo per leggerlo è il momento giusto per fargli un regalo: ditegli di iscriversi ad ABC per il PC, lo aspettiamo!

Convincere gli altri

Quando parliamo con qualcuno quanto è fondamentale che la persona che ci sta di fronte non solo comprenda quello che diciamo ma lo condivida pure? L’ascolto e la condivisione sono due passaggi distinti di un singolo processo che è quello di comunicare. La comunicazione potremmo dire che è una brutta bestia: da una parte è un meccanismo naturale, spontaneo per il quale no ci verrebbe mai in mente di dover studiare per imparare a gestirla. Dall’altra però se con la nostra comunicazione vogliamo ottenere risultati precisi, raggiungere obiettivi, essere efficaci dobbiamo forse entrare nell’ordine delle idee che qualcosa da imparare ci sia: le tecniche di comunicazione non sono un patrimonio comune, tanto è vero che c’è differenza tra un oratore e un altro. Fino al punto che quella di comunicare oltre ad essere un’arte a volte diventa anche un mestiere.

Un po’ di comunicazione efficace dovremmo però impararla tutti. Oggi vi proponiamo allora tre indicazioni di massima che riprendiamo da questo articolo comparso su Linkiesta al quale aggiungiamo qualche nostra indicazione. Perché potrebbe esserci utile? Le situazioni in cui ci troviamo a comunicare e dobbiamo farlo perseguendo una performance sono diverse: un colloquio di lavoro, un esame all’università, un’interrogazione, un lavoro di comunità, la gestione di un gruppo di lavoro, un ruolo di leader. Sono tutte situazioni in cui non ci sarà sufficiente dire le cose, dovremo anche riuscire a farle comprendere nel senso più ampio del termine. Vediamo come possiamo riuscirci.

Il primo compito che abbiamo è quello di selezionare. Non possiamo dire tutto quello che ci passa per la testa. I contenuti da trasmettere li dobbiamo scegliere (quindi decidere che alcune cose non le diremo) perché prima di parlare (o scrivere) avremo stabilito una strategia (cioè ci siamo dati un obiettivo e anche un modo per raggiungerlo) rispetto alla quale dovremo “tagliare” i nostri contenuti. Facciamo un esempio: avete mai incontrato un venditore di auto che prima di tutto vi racconta difetti della macchina che volete comprare (o che vuole vendervi)? Non è solo una questione di onestà (in quel caso il venditore vi racconterà che i difetti non ci sono proprio). La stessa cosa avviene per esempio durante un colloquio di lavoro: dobbiamo scegliere prima argomentazioni e temi che vorremo trattare e prepararci su quelli: saranno i temi che tiriamo fuori non appena ci verrà data la possibilità di parlare “liberamente”.

La seconda cosa che dobbiamo imparare a fare è quella di ripetere. C’è una regola che sembra banale, leziosa e forse a tratti ridicola che dice: annunciare ciò che dirai, dirlo e ripetere ciò che hai detto. Espresso in questa maniera viene da esclamare “che assurdità!”. Ma vi possiamo assicurare che quando ascoltiamo il nostro cervello ha un livello di assimilazione dei contenuti che funziona molto bene con la ripetizione. Per fare un esempio pratico: avete fatto caso che ci ricordiamo con una certa facilità slogan e motivetti pubblicitari solo per il fatto che la televisione, la radio o i giornali li hanno ripetuti migliaia di volte senza aggiungere alcun contenuto di maggior valore? Se scriviamo la frase “Dove c’è Barilla…” crediamo che ciascuno di voi sarà in grado di terminare con la seconda parte. Quindi quando vogliamo che la nostra platea (anche fosse di una sola persona) accolga una nostra idea dovremo essere bravi a ripeterla nel discorso più di una volta (senza cadere nella trappola di essere ripetitivi, insomma la giusta misura).

Infine cerchiamo di non essere sconclusionati. Voi direte: e chi lo farebbe? Eppure capita di sentire parlare (o parlare) per lungo tempo senza avere un’idea più completa del discorso nel suo complesso. Sono quei casi in cui ci chiediamo: “dove vorrà andare a parare?”Ecco quelli sono i casi in cui nel discorso (o nel testo scritto) non abbiamo inserito i link. Non stiamo parlando di quelli del web che ci portano da un sito all’altro, ma dei collegamenti che di un discorso fanno la struttura. Questa struttura, anche se non espressa ma costruita fin dall’inizio, è quella che aiuta chi ascolta a comprendere meglio e più in profondità quello che diciamo. Per esempio tutte le favole, scritte per essere comprese dai bambini, sono accomunate da una struttura (spesso semplice): presentazione dei personaggi, vicenda del personaggio, finale (spesso lieto). Si dice che questo è raccontar storie. Ed è quello di cui un buon comunicatore ha bisogno. E voi, che storia avete in mente di raccontare la prossima volta?

 

Che odio quel lavoro

Questo post vorrebbe raccontare di come sia importante scegliere un lavoro che ci piace e, al contempo, di quanto in realtà noi essere umani siamo adattabili. Queste due cose sono una il contrario dell’altra oppure entrambe concorrono a costruire la nostra personalità professionale?

Per rispondere a queste domande che hanno una caratura quasi esistenziale partiamo da un articolo apparso su Vice (la rivista on line di origine canadese presente nella versione italiana ormai da 10 anni) in cui si raccontano 6 lavori odiati e odiabili. Vediamo velocemente quali sono. Il primo è il lavoro del controllore e a raccontarlo è una donna: il brutto di questa professione è che ti becchi rimbrotti e insulti (non sempre per tue colpe) per non parlare di certi orari e treni che a volte trasportano persone “irrequiete” (per usare un eufemismo). Però il bello (secondo il racconto dell’intervistata) è nell’incontrare persone e storie diverse e sentirsi di poter essere loro di aiuto.

La seconda professione odiata è quella dell’ufficiale giudiziario: chi di voi vorrebbe essere nei panni di chi è visto, nella migliore delle ipotesi, come un boia o un uccello del malaugurio? Chi fa questo lavoro però si sente anche gratificato per essere la persona che fa rispettare la legge e, in alcuni casi, riporta la pace tra i contendenti. Più delusa la figura che si occupa di recupero crediti: in questo caso la frustrazione di dover raccontare bugie o ricorrere a velate minacce diventa più pesante di qualsiasi soddisfazione.

A seguire, tra i lavori più brutti, ci sono quelli di chi si occupa dei soldi. Degli altri. Come ad esempio chi si occupa di raccolta fondi, costretto a chiedere soldi in mezzo alla gente scoprendone ipocrisie e falsità anche se con un nobile scopo (spesso la raccolta fondi è quella realizzata a favore di enti e organizzazioni benefici). Oppure il lavoro del trader (l’operatore che tratta prodotti finanziari per conto terzi): qui il compromesso con la propria coscienza èancora più grande perché di solito si trattano somme alte e con esse a volte anche il destino di persone e società. Non è facile poi districarsi in una professione a cui, per stessa ammissione di chi ne fa parte, viene attribuito un giudizio di valore negativo. Da ultimo, nelle professioni più odiate, c’è quella del giornalista. Le cose che scrive sono spesso oggetto di critiche che non riguardano il solo contenuto dell’articolo o del dossier ma diventano personali e dirette. Chi fa questo lavoro poi è in un continuo divario tra quello che vorrebbe scrivere e quello che invece è, in quache maniera, costretto a scrivere per rispettare la linea editoriale del proprio giornale.

Non so se tutti voi siete concordi nel definire questi lavori come “odiati” (attenzione: non significa che siano i peggiori lavori da fare in senso assoluto). Certo è che, anche facendo un lavoro di questi o un altro poco invidiabile, sono esperienze in cui ciascuno di noi mette in campo le proprie competenze e quelle si evidenziano anche se il lavoro che facciamo è brutto. C’è un’altra considerazione da fare: lo sviluppo del lavoro, qualunque esso sia, può portare a risultati e traguardi diversi da quelli che ci si immagina inizialmente e farci raggiungere quindi mete insperate. Infine le esperienze di lavoro rappresentano comunque un banco di prova: prima di tutto per noi stessi e, in seconda battuta, anche per dimostrare agli altri quello di cui siamo capaci. Però, è sempre meglio scegliere un lavoro che ci piace 🙂 

Il lavoro a tempo indeterminato non è un successo

Da quanto tempo ormai sentiamo dire che la parola d’ordine è flessibilità? Che i tempi del lavoro sicuro sono finiti? Che probabilmente nel corso della vita dovremo cambiare più lavori e forse anche più professioni? Anche se questi “mantra” sono ripetuti da almeno dieci anni, sono sicuro che in realtà sono ancora in molti a sperare nella soluzione definitiva nel momento in cui firmano un contratto di lavoro, mandano un cv, rispondono ad un annuncio.

La realtà è che con il passare del tempo i segnali che qualcosa di strutturale nel mondo del lavoro sta cambiando ed è già cambiata ci sono: il calo senza freni del numero degli assunti con contratti a tempo indeterminato, le nuove regole che prevedono contratti molto più flessibili anche per le assunzioni di lungo periodo, l’aumento esponenziale delle partite IVA e dei lavori occasionali, la generazione a volte eccessiva di nuove attività imprenditoriali in sostituzione di servizi e mansioni che prima erano in capo a dipendenti. Sono segni evidenti di precarizzazione la cui causa non è sempre e soltanto da ricercare nelle politiche di una singola nazione, ma risiedono in una economia globalepiuttosto complessa (e che non affronteremo qui).

Però non tutti i mali vengono per nuocere e, soprattutto, l’uomo è animale di grande adattabilità. In un articolo comparso sulla testata on line BloomberBusiness sonoa rrivati a titolare che “L’anniversario di dieci anni di lavoro in uno stesso posto è un fallimento“.  Una ricerca fatta tra i giovani americani nati tra il 1982 e il 2004 (questi ultimi ancora un po’ piccoli a dir la verità) rivela (e rileva) che il mantenimento di uno stesso posto di lavoro per lungo tempo non è una conquista ma addirittura potrebbe essere una sconfitta. Uno di loro afferma che è più facile parlare di crescita della propria carriera se si è in grado di attraversare aziende diverse piuttosto che rimanere in uno stesso posto nel medesimo lasso di tempo (e lo dice uno che a 27 anni ha cambiato già tre volte posto di lavoro).

Mac Schwerin, questo è il suo nome, afferma anche un’altra cosa interessante e un po’ provocatoria: è più facile raccontare e rappresentare i propri successi se si riesce a dimostrare di portare risultati ovunque si vada. Questa opinione è condivisa da molti millenials (i nati di cui sopra) interpellati nel sondaggio svolto dalla società di consulenza Deloitte. Il motivo è anche legato al fatto che stiamo parlando di giovani che hanno concluso gli studi in un periodo di recessione economica e di mercato di lavoro molto competitivo: in qualche misura sono abituati a vedere e vivere la propria carriera professionale in maniera radicalmente diversa: vogliono le stesse cose delle generazioni precedenti (casa, famiglia, ecc) ma sono convinti di ottenerle con un percorso diverso.

Ci sono però due considerazioni a margine da fare. La prima è che, per loro stessa ammissione, il loro punto di vista cambierebbe se fossero assunti in azienda di “prima classe” (Tesla, Facebook, Google).  La seconda è che stiamo parlando del mercato americano dove la percentuale di giovani rappresenta la parte più ampia del mercato del lavoro. Credo che, anche alla luce di questi due assunti finali, potremmo trarne anche noi considerazioni utili e interessanti su come affrontare le nostre sfide “casalinghe” con il mondo del lavoro.

Lavorare con piacere (o almeno provarci)

Quando ci capita di andare nelle scuole a parlare di lavoro una domanda e un giochino che facciamo spesso è quello di chiedere: “per cosa lavorereste?”. Le risposte sono le più svariate ed anche le più tremende. Su tutte la maggioranza è senz’altro quella di chi pensa che il denaro è una leva più che sufficiente per alzarsi la mattina, recarsi al proprio posto di lavoro e rimanerci per minimo 8 ore (chiaramente più la quota di denaro si alza e più la disponibilità aumenta). Ingenui. Primo perché ad oggi il denaro disponibile, in senso assoluto, è sempre meno; secondo perché in realtà anche le ambizioni di guadagno più sfrenate trovano un limite nelle 24 ore al giorno (ed è un limite a cui nessuno arrivare, quello di 24 ore al giorno di lavoro); terzo perché chi pensa solo al denaro non ha fatto i conti con molte altre variabili e, soprattutto, non ha tenuto conto del fatto lavorare significa mettere in gioco non solo abilità e competenze tecniche ma anche un certo grado di emozioni e passioni personali.

D’altra parte un’attività che ci impegna così tanto tempo (40 ore alla settimana, 160 ore al mese, 1920 all’anno, 76800 in una vita di lavoro contrattualmente regolare) non può essere soltanto una questione di impegno tecnico. Quando lavoriamo in realtà mettiamo in gioco noi stessi e lo facciamo sempre, anche quando il lavoro non ci piace. Il problema è che quando facciamo qualcosa che ci piace, oltre alla sensazione del tempo che trascorre più velocemente, c’è anche quella di generale appagamento per avere realizzato qualcosa, raggiunto un obiettivo, trovato la soddisfazione nostra e degli altri. Come fare allora per individuare il giusto percorso che ci conduce a trovare una professione soddisfacente.

C’è un libro che si intitola “L’alleanza” che prova a dare un suggerimento con una tecnica che vi invitiamo ad utilizzare. Il suggerimento è quello di scrivere i nomi di 3 persone che ammiriamo: non è necessario che siano strettamente legate al nostro settore (anzi!); possiamo spaziare da personaggi storici a quelli di fantasia. Trovati i nostri “fari” elenchiamo accanto ad ogni nome le tre qualità che ammiriamo di più in ciascuno doi loro. Infine classificate le qualità in ordine di importanza: dalla più importante, alla meno significativa. Così facendo avremo una lista di valori personali da poter confrontare con quelli del nostro proprio piano di crescita (non ne avete uno? male! Dovreste pensare e immaginarvi chi e che cosa vorrete diventare da grandi). È un esercizio utile tanto per chi è appena uscito o sta uscendo da un percorso formativo, quanto per i professionisti già affermati (che potrebbero confrontare la loro scala di qualità con quella dell’azienda). Potrebbe essere un piccolo esercizio per la pausa delle feste natalizie.

PS: il 22 (martedì pomeriggio) ci facciamo gli auguri e facciamo una piccola festa: vieni? Ne saremmo contenti!

Mi laureo: sì e poi?

Questo articolo potrebbe avere come sottotitolo: l’incubo de “ l’esperienza”. È un problema comune a una bella fetta di giovani appena uscita dagli atenei: la disoccupazione post-laurea, con il conseguente infrangersi delle speranze nutrite da anni di sacrifici trascorsi nella convinzione che uno “studio matto e disperatissimo “ e degli ottimi risultati possano aprire con facilità le porte sul mondo del lavoro. Però è ormai evidente che ciò è vero solo in parte, e che la delusione in cui incappano tanti giovani ha una motivazione molto semplice, cioè la mancata duttilità, diretta conseguenza di un termine ormai temuto e detestato: esperienza. In parole povere, sembra che un datore di lavoro spesso non sappia cosa farsene di un giovane super qualificato grazie agli studi ma privo di quella conoscenza pratica che gli permetta di saper spaziare e di far fronte a tutte le situazioni, ben diverse da quelle dello studente, in cui capita di incappare durante la carriera lavorativa.

I dati raccolti durante l’indagine dell’Eurobarometro sono chiari: quando un’impresa si trova di fronte alla decisione di assumere, guarda soprattutto a quelli che hanno già un po’ di esperienza, piuttosto che a quelli in arrivo da atenei “doc” ma che si sono dedicati esclusivamente allo studio.

Vi riportiamo, come è già stato fatto dall’editoriale sul lavoro del sito “Repubblica” (miojob.repubblica.it), le risposte dei manager di 7 mila imprese europee alla domanda: “Quanto è d’accordo con la seguente affermazione: l’esperienza lavorativa pregressa è un requisito cruciale per le nuove assunzioni

tabella torta

E se credete che questo sia un problema tutto nostro, sappiate che l’Italia non è nemmeno tra i primi Paesi per i quali il famigerato fattore “esperienza” è fondamentale: prima arrivano Germania, Regno Unito e Francia (sempre secondo i dati dell’Eurobarometro).

Cosa possiamo consigliarvi noi? Di non accantonare il desiderio di conoscere il mondo anche quando sembra che la vita universitaria sia l’unica possibile (e sappiamo quanto possa riempire i pensieri e le giornate!), di non pensare che studiare basti e di mantenere sempre viva la curiosità e la sete di nuove esperienze, sia che si tratti di stage, che  di soggiorni all’estero che di lavori occasionali o volontariato. Tutto contribuirà a costruire la vostra identità non solo professionale ma anche di persone in possesso delle skill necessarie a “farsi scegliere” dai datori di lavoro (la sicurezza di sé, la capacità di comunicare, l’adattabilità, la creatività, lo spirito d’iniziativa e l’intraprendenza sono doti che possono fare la differenza in sede di selezione) e non solo! Come disse Oscar Wilde: “Nulla di ciò che vale la pena conoscere può essere insegnato”, quindi perché non iniziare venendo a trovarci per scoprire tutte le opportunità di lavoro, formazione ed esperienza che il mondo offre?

Non finire nel cestino!

Diamo spesso consigli su come redigere il proprio curriculum vitae e qualche volta assistiamo le persone nella sua stesura. Per quante volte lo possiamo aver detto, ci accorgiamo però che c’è sempre qualcuno che ha ancora bisogno di qualche suggerimento. Così come ci sono delle domande sulla sua compilazione che sono intramontabili (degli evergreen): la foto ci va? Metto anche le esperienze di lavoro nero? Devo mettere il voto? Anche se è basso? In altre parole c’è sempre chi è alla prima volta davanti al foglio bianco su cui scrivere le proprie competenze (cercando di scriverle nel modo più attraente possibile).

Le parole d’ordine per quello che riguarda il cv sono due: attenzione ai dettagli e scrivere cose interessanti. L’attenzione ai dettagli è fondamentale perché basta poco per finire nel cestino: chi legge il vostro cv, che voi avete avuto in gestazione per tanto tempo con tanti tormenti, gli dedica al massimo un minuto, 30 secondi in una buona maggioranza dei casi. Significa che anche un piccolo errore di ortografia rischia di essere preponderante su tutto il resto se in quel breve lasso di tempo dedicato alla lettura è la cosa che salta agli occhi. Un apostrofo di troppo, un congiuntivo scambiato per un condizionale e la vostra candidatura fa una brutta fine. Direte voi: ma non sono errori sostanziali (soprattutto se non mi candido come prof di italiano). Beh, però ascoltate bene: non siete voi a decidere e, soprattutto, una valutazione del candidato non è mai fatta solo sulle sue competenze tecniche.

A proposito: i migliori cv sono quelli da cui è possibile avere un’idea della personalità della persona che lo ha scritto. Per questo motivo è necessario raccontare anche le proprie esperienze diverse dalle singole mansioni lavorative; parlare di un hobby o di una passione a cui si dedicano tempo ed energie aiuta a far capire di che pasta siete fatti. Non basta dichiarare di essere “buoni comunicatori” o “affidabili organizzatori” se poi queste affermazioni non sono supportate da contesti e momenti in cui le avete messe alla prova. Documentare un cv significa raccontare ciò che abbiamo fatto e realizzato più che quello che siamo.

Da ultimo in questo post una nota sul modello di CV da utilizzare. Scordatevi, per favore, il curriculum vitae europeo: lo possiamo vedere come un indice delle cose da inserire in un cv, ma non di più. Il cv europeo è più che altro il parto di un apparato burocratico e amministrativo fatto nel tentativo di unificare e uniformare i lavoratori di tutta Europa. Peccato che nel mercato del lavoro il principio sarebbe quello di differenziarsi per farsi riconoscere. E se non credete a noi sentite qua: “ho sempre ritenuto che il CV europeo sia l’antitesi di quello efficace perché non è chiaro, è troppo lungo e ripetitivo. È una gabbia poco flessibile che costringe tutti i candidati a parlare di sé allo stesso modo. E tutti alla fine sembrano usciti dallo stesso stampo. Il curriculum europeo ha il ruolo opposto a quello che dovrebbe svolgere un CV, cioè facilitare la comprensione a prima vista delle competenze di un candidato da parte di una persona che va di fretta e che ha altri centinaia di curricula da leggere.” Parola di Michèle Favorite, esperta alla John Cabot University.

A proposito: la John Cabot University sarà nostra ospite il prossimo 4 dicembre, prendete nota (e prossimamente nella nostra pagina eventi tutti i dettagli)

Il tuo lavoro è sicuro?

Già in altre occasioni abbiamo parlato di come e quanto le tecnologie possono aver modificato la nostra vita lavorativa. Non si tratta solo di avere oggi la possibilità di utilizzare il computer per scrivere e trattare documenti che ci riguardano in maniera più snella e veloce.  L’avvento dell’ICT (information and communication technology) nella nostra vita quotidiana ha cambiato radicalmente e per sempre non solo le nostre abitudini ma anche il nostro modo di pensare. Molto probabilmente, per esempio, molti di noi farebbero fatica a immaginare di vivere senza internet (alcuni, forse, farebbero fatica anche a rimanere senza per un giorno). Non si tratta di un vizio o di una pessima abitudine ma semplicemente di un mondo che è cambiato anche epr cose molto operative e utili: comprare un viaggio, fare un’operazione bancaria, trasmettere un documento di lavoro, informarsi per fare qualche esempio generico.

In alcuni casi, come nel settore del lavoro, internet e l’automazione offerta dai computer ha creato qualche paura. La domanda o, meglio, l’istanza più frequente in tal senso è: l’informatica di ruba o ci toglie il lavoro? Vengono alla mente le catene di montaggio (l’industria automobilistica Tesla non ha operai in catena) oppure le spedizioni delle lettere (mail e posta certificata stanno “mangiando” terreno ai portalettere). E il vostro lavoro, attuale o prossimo,  è sicuro? Oppure siete tra le figure che verranno messe a repentaglio dalle tecnologie?

La domanda corretta però è un’altra: quanto utilizziamo le tecnologie e quanto ne siamo utilizzati? Perché la paura, come sempre accade, è spesso figlia dell’ignoranza e della disinformazione. Così, anche su questo versante, conoscere aiuta a prevenire. Si può partire anche da piccole cose che sono già un segnale di quanto e come siamo nel giusto mood con la tecnologia. Per esempio, tra di voi chi sta cercando lavoro e utilizza i social network per promuovere le proprie competenze? Chi ha un profilo Linkedin aggiornato’ Chi invece non sa nemmeno che cosa sia Linkedin? Quanto conoscete le opportunità offerte dalle nuove tecnologie? Se impariamo ad utilizzare questi semplici strumenti significa che stiamo già facendo un passo nella direzione della scoperta anziché in quella chiusura al cambiamento.

Se volete una risposta alla domanda del titolo “il tuo lavoro è sicuro?” potete anche fare la prova utilizzando questo simpatico strumento messo a disposizione dalla BBC (riferito al mercato inglese). Chiaramente è solo un test anche se corredato da dati e statistiche. Se invece volete curarvi della prevenzione della vostra carriera professionale proviamo a darvi un consiglio: a essere messi in discussione saranno i lavori ripetitivi per i quali il contributo umano è scarso o nullo. Basta quindi dedicarsi a una professione per la quale non è richiesta solo routine e automatismi ma anche un po’ di creatività, intelligenza, spirito di iniziativa. Tutte cose che si possono imparare, studiando 🙂

Chi sopravvive all’autoimpiego?

L’autoimpiego è il modo (un po’ burocratese a dir la verità) con cui si individuano tutte le forme di lavoro autonomo. Anni fa (era il 2000) con questa dicitura era stata fatta anche una legge il cui scopo era quello di finanziare chi decideva di non trovare un lavoro ma di crearselo. Da quell’anno, anche se la legge non possiamo dire sia stata un successone, la strada del lavoro autonomo è stata suggerita via via sempre con maggior frequenza. I più maliziosi penseranno che questo suggerimento aumenti con l’aumentare del tasso di disoccupazione: come a dire “visto che il lavoro non c’è, inventatene uno!”. In realtà le cose non stanno esattamente così, anche se non possiamo negare che ci sia chi abbia fatto propria questa strategia nel dare consigli di ricerca attiva del lavoro. C’è un lavoro e un monitoraggio a livello europeo del grado di “imprenditorialità” (passateci il termine) di questo nostro continente. Per come va il mondo oggi, infatti, avere un tasso di crescita delle attività imprenditoriali (inclusi in questo senso anche i lavoratori autonomi), significa stare in una situazione di crescita, di buone prospettive o almeno di terreno fertile per l’economia (Silicon Valley docet).

Sarebbe anche importante che il tasso di crescita sia sano, il che significa che non sia un mero dato dell’attività di nascita delle imprese. Per esempio se in un certo territorio si volesse far alzare il tasso di nascita delle imprese si potrebbe dare un incentivo (economico) a chi la avvia senza troppi vincoli (l’esempio non è casuale). Ma se vogliamo che quell’impresa cresca e si sviluppi questo non è sufficiente, come non lo sono gli obblighi a rimanere aperta (e se un neoimprenditore fallisce non è che lo si può lasciare in attività per legge). Diventano invece importanti fattori come la qualità dei servizi per le imprese, il grado di fiducia dei finanziatori, l’accesso alle risorse economiche e materiali diverse, la cultura locale di impresa. Bisogna insomma capire non tanto il tasso di nascita delle nuove iniziative (imprenditoriali o di lavoro autonomo) ma anche il loro grado di sopravvivenza.

Questo studio è stato fatto da un ufficio dell’Unione Europa che si occupa di sviluppo sociale e occupazione (a questo link potete scaricare il loro studio annuale su questi fenomeni). Quello che ne emerge è una analisi dle contesto europeo sui motivi di sopravvivenza (o non sopravvivenza) delle iniziative personali in tema di lavoro. Innanzitutto come la solito il grado di sopravvivenza cambia da Stato a Stato (ai primi posti ci sono Svezia e Belgio mentre agli ultimi Lituania e Portogallo; l’Italia è poco sopra la media). L’altro aspetto interessante è che il grado di preparazione del singolo incide in maniera rilevante sul suo potenziale successo: chi è più preparato, ha studiato il settore e ha incamerato competenze ha maggiori chance di successo degli altri quando avvia una propria attività. Per coloro che avviano un’impresa perché, nei fatti, non hanno un’alternativa, la scelta di farlo in un settore in cui hanno maturato in precedenza esperienze di lavoro aumenta la probabilità di rimaner nel mercato. L’ultimo dato che emerge è che le iniziative che hanno più speranze di crescere sono quelle inerenti a settori in crescita dove l’iniziativa personale incontra anche un trend di mercato favorevole e in crescita.

In altre parole, per rispondere alla domanda del titolo, riesce a sopravvivere all’avvio di una attività in proprio chi investe nella propria preparazione e in un settore in crescita: non fa per tutti, ma non è nemmeno impossibile.

Yfej | Your first Eures job, un aiuto per partire!

Il Progetto YfEj – Your first Eures job ha l’obiettivo di supportare i giovani europei (cittadini o residenti) tra i 18 e i 35 anni nella ricerca e realizzazione di una esperienza di lavoro, tirocinio o apprendistato all’estero.

Il progetto offre un contributo finanziario per l’eventuale necessità di formazione linguistica, per le spese legate al riconoscimento delle qualifiche professionali o dei titoli di studio, e per coprire parte delle spese sostenute per recarsi ad un colloquio o per trasferirsi nel paese di destinazione.

L’iniziativa fornisce inoltre servizi quali informazione, reclutamento, matching e collocamento sia per i giovani candidati che per i datori di lavoro interessati ad assumere personale proveniente da paesi diversi. Per entrambi sono previsti servizi di supporto informativo e finanziamenti.

Per partecipare bisogna registrarsi e caricare il proprio cv in formato europeo sulla piattaforma YfEj: qui si possono trovare anche offerte di lavoro per professionalità specifiche, alla sezione Hot Jobs.

Nelle Marche è possibile rivolgersi per informazioni e attivazione del programma ad un referente della rete EURES, esperti della mobilità per lavoro che trovate nei CIOF– centri per l’impiego, l’orientamento e la formazione del territorio.

Il programma è arrivato alla sua quinta edizione e durerà fino al 2018.

E se hai più di 35 anni? C’è un programma anche per te! Scopri di più su ReAct.

Facce nuove

facce nuoveBenvenuti! O, meglio, bentornati e benritrovati! Finalmente torna ad aggiornarsi il nostro spazio web che, dopo l’estate, ha fatto un po’ di lifting ;-). Come vedete, ha una faccia nuova! Abbiamo una nuova veste grafica ma non solo. Non ci siamo scostati troppo dalla precedente versione soprattutto per non creare troppo scompiglio e confusione (immaginavamo già mail e telefonate alla richiesta di chiarimenti su dove fossero finiti gli elenchi dei corsi o le offerte di lavoro; ah, presto anche queste avranno uno spazio tutto loro).

La novità vera di questo restyling è la possibilità che avremo di aggiungere funzionalità e servizi molto più che in passato: così a breve sarà possibile prenotare il propri posto ad un workshop direttamente da qui o leggere le offerte di lavoro in maniera più lineare (anche se al momento troverete più o meno tutto come prima). Le differenze sostanziali possiamo riassumerle, anche per dare modo di navigare con più facilità nelle pagine. Cambia la nostra home page e adesso, in alto a sinistra, scorrono con titoli brevi gli ultimi nostri post del blog. I nostri articoli che prima ruotavano in prima pagina sono adesso nella sezione “blog“, raggiungibile dal menù in alto appena sotto l’immagine di copertina. Il menù principale è organizzato più o meno come in precedenza (anche se abbiamo tolto un po’ di fronzoli): c’è una pagina dedicata alla sala conferenze perché da adesso il nostro locale lo potete affittare per i vostri eventi, abbiamo migliorato la pagina in cui trovate le nostre foto e una sezione interna (non più esterna) per quello che riguarda le opportunità europee.

La vera novità è anche l’aggiunta di una sezione in cui potete lasciare i vostri dati (bastano nome, cognome e mail) per rimanere aggiornati su quello che facciamo: la pagina newsletter è pensata proprio per questo e speriamo che in molti di voi ne approfitteranno. Come sempre saranno graditi suggerimenti, consigli e idee per continuare a migliorare anche questo spazio web.

Ma le facce nuove dell’Informagiovani non sono solo virtuali. Come vi avevamo preannunciato ci sono 4 nuove facce anche all’interno del nostro servizio. Sono quelle di Edy, Ilaria, Pietro e Viola i volontari del servizio civile che ci aiuteranno nel prossimo anno non solo a fare il lavoro quotidiano ma anche a organizzare eventi, iniziative e servizi nuovi (e presto li vedrete anche qui).

Buona navigazione!

Più vacanze per tutti!

Untitled3-e1377294231119.pngConsiderato il tempo e la data oggi parliamo di vacanze. Ora qualcuno si immaginerà, giustamente, che tratteremo di mete in paesi esotici, di arrampicate sui monti o di bagni in mezzo a piscine naturali piene di pesci. Ma su questi temi non siamo molto ferrati e, al massimo, potremmo riportare soltanto qualche piccola esperienza personale di poco conto. Invece scriviamo di vacanze perché la notizia è che le vacanze ci rendono più produttivi e ci aiutano anche a essere più efficaci nelle nostre mansioni professionali.

La cosa nasce da un’indagine fatta da due studiosi americani che hanno analizzato un campione di manager super impegnati ai quali è stato chiesto come preferissero lavorare: se con più tempo e calma o con meno tempo e più fretta. I risultati presentavano una variazione rispetto alla provenienza geografica dovuta al fatto che lo stile di lavoro risulta influenzato anche dalle abitudini e dalle consuetudini locali. Per esempio, i più vacanzieri sono gli svedesi e i brasiliani, con 41 giorni di ferie pagate, mentre negli Stati Uniti non c’è alcuna legge che regola il pagamento di giorni di vacanze e secondo le stime la media delle aziende americane è di 10 giorni di ferie pagate—e solo il 25% degli americani se li prende tutti. A ogni modo, il dato rilevante emerso è stato che i manager con più vacanze tendevano a essere più inclini a lavorare di fretta, a essere più concentrati e più impazienti. I dati raccolti hanno permesso di concludere che avere più vacanze aiuti i lavoratori a capire meglio l’importanza di essere efficienti e a dare il massimo quando se ne ha la possibilità.

Sembrerebbe quindi che prendersi un po’ di vacanze aiuti davvero a essere più produttivi: ma da cosa dipende questo aumento di produttività? Secondo lo studio che abbiamo brevemente illustrato sopra (e che potete leggere qui) si tratterebbe semplicemente di un fattore legato alla gestione del tempo: siccome so che ho meno tempo per fare lo stesso numero di cose, mi adopero per fare in maniera più efficiente. Prendersi una pausa non rinfrescherà il cervello permettendoci di lavorare di più, ma spendere meno tempo alla scrivania ci obbligherà a sprecare meno tempo.. Secondo la nostra modesta opinione ci sono anche altre ragioni per le quali il nostro lavoro può migliorare grazie alle vacanze.

In primo luogo c’è un fattore legato allo stress, il più evidente: il nostro cervello e il nostro corpo hanno bisogno anche di sperimentare contesti diversi da quello lavorativo, anche quando lavoriamo in un posto idilliaco. Chi di voi non si è trovato almeno una volta a tirare un sospiro di sollievo una volta varcata la soglia di uscita dal luogo di lavoro? Un altro fattore è rappresentato dalle opportunità di crescita che possiamo sfruttare all’esterno del nostro luogo di lavoro: per esempio non è detto che la vacanza si possa intendere solo come “svacco” e nullafacenza: per la maggior parte di noi fare vacanza significa anche dedicarsi in maniera più assidua a interessi e passioni, coltivare e sviluppare una competenza magari in maniera allegra e spensierata (molti sport per esempio aiutano a sviluppare doti che poi possono essere adoperate nel lavoro, come il coraggio e al determinazione). Infine un ultimo aspetto riguarda la possibilità che abbiamo di contaminarci con altre idee, culture, valori. Accade se adoperiamo le vacanze per viaggiare e visitare posti in cui non siamo mai stati soprattutto se lo facciamo all’estero, dove abbiamo possibilità di incontrare e conoscere situazioni e condizioni diverse dalle nostre. Questo tipo di vacanza sarebbe bello se potesse diventare in qualche modo un’abitudine di lavoro. Sembra quasi un controsenso ma in realtà esistono già realtà aziendali che includono, nei viaggi di lavoro, un tempo libero per i propri dipendenti: non si tratta (solo) di un premio legato alla disponibilità alla trasferta, ma di un’opportunità di crescita che si offre ai propri collaboratori e che si può poi sfruttare nel contesto lavorativo (funziona in maniera quasi diretta per chi svolge mansioni creative).

Noi ci crediamo talmente tanto in questa cosa delle vacanze che abbiamo già cominciato 🙂 Come forse i più attenti lettori avranno notato gli articoli di questo blog hanno subito una variazione nella frequenza: non più 3 appuntamenti (uscite) alla settimana ma una soltanto. Il tempo guadagnato lo utilizziamo per fare vacanze il più possibile produttive. Se volete provate anche voi e diteci come va: buona produttività!

Farsi venire un'idea

ideeCome si fa a farsi venire un’idea? Così, in maniera astratta e non contestualizzata, forse è davvero difficile non solo spiegarlo ma anche riuscirci. In realtà le idee nascono anche un po’ per caso, per un sogno o un desiderio, perché leggiamo una frase che ci appassiona o vediamo qualcosa che ci colpisce.  La famosa lampadina che si accende, insomma, non è sempre pronta a rispondere ai nostri comandi e talvolta, anche se lo vogliamo, le idee non vengono. Per questo motivo negli anni ’40 del secolo scorso, un pubblicitario americano di nome Alex Osborn, aveva inventato un metodo per far nascere le idee: l’ormai conosciuto, diffuso e strausato brainstorming.

Per chi non lo sapesse, il brainstorming (dall’inglese brain/cervello e storm/tempesta) è una tecnica di gruppo che consiste nel dire ciascuno tutto ciò che gli viene in mente rispetto a un argomento o un tema, senza alcun limite e senza la possibilità di essere censurati dagli altri. Quello che si dovrebbe ottenere è il più vasto e differenziato catalogo di idee sul tema dal quale prendere poi le migliori. Questa tecnica però ultimamente è messa in discussione da molti punti di vista. I motivi per cui il brainstorming non funziona sono dettagliati in questo articolo dell’Observer (in inglese; in italiano li trovate sul numero 1105 di Internazionale). Annamaria Testa nel suo blog prova ad approfondire il tema, citando alcuni motivi per cui i presupposti del brainstorming in realtà siano falsi. Il primo presupposto è quello che in gruppo le idee vengono meglio: in realtà “le persone sono più produttive se lavorano da sole. Facendo lavorare contemporaneamente gruppi e singoli individui sul medesimo tema, è facile verificare che i singoli producono più idee, e idee migliori“. Il secondo presupposto dice che la critica è paralizzante ed è per questo che nel brainstorming anulla è vietato. Però “le critiche altrui servono, eccome: aiutano a buttar via rapidamente le idee inefficaci.” Nonostante queste critiche siano delle mine alle fondamenta del brainstorming, questa tecnica continua a essere ampiamente utilizzata.

Ma se ce ne dovessimo liberare come potremmo fare a diventare tutti un po’ più creativi? La ricetta finale, quella sicuramente giusta, non l’abbiamo trovata. Ma leggendo un libretto piuttosto interessante, “Ruba come un artista” di Austin Kleon, abbiamo trovato qualche suggerimento davvero innovativo. Prendendo spunto dal titolo, la tecnica più efficace per essere creativi è davvero quella di “rubare”. Il furto di cui parliamo certamente non è una truffa e non porta danno a nessuno. L’indicazione possiamo spiegarla meglio in altra maniera, facendo un esempio. Pensate a come sono nati e cresciuti gli artisti che oggi conosciamo e riconosciamo come geni (Giotto, Raffaello, Leonardo, ecc.): la maggior parte di loro (la totalità potremmo dire) ha imparato la propria arte seguendo un maestro. Che cosa vuol dire “seguire” un maestro: spesso significava guardare quello che faceva e poi tentare di rifarlo. Questo procedimento, raccontato così, può sembrare molto simile al “Ctrl+C / Ctrl+V” che utilizziamo al computer (copia & incolla per chi è meno pratico della tastiera). In realtà tra il “copia” e l'”incolla” ci stava di mezzo una parola (e un’azione) che faceva la differenza: “rielabora”. Se non fosse così, se non ci fosse stato un processo di rielaborazione sarebbe diventato grande artista chiunque. Il processo di rielaborazione che mettiamo in atto quando prendiamo le mosse da qualcuno che cerchiamo di imitare è qualcosa che assomiglia molto alla creazione di idee.

Copiare quindi non è un peccato o una colpa, a patto di farlo bene. A patto, cioè, che il risultato finale non sia un accozzaglia di elementi posticci rubati qua e là, ma sia una rielaborazione di ciò che abbiamo visto e ci è piaciuto. Austin Kleon nel suo piccolo trattato sulla creatività mette anche un altro suggerimento interessante: circondarsi di talenti. Partecipare a un gruppo in cui non siamo i più bravi, confrontarsi con persone che ne sanno più di noi, ritrovarsi nella stessa stanza con persone che sono più brillanti di noi, frequentare una classe di studenti che hanno migliori risultati dei nostri, avere amici più abili di noi in qualche disciplina non dovrebbe farci sentire sfortunati, depressi o perdenti. In realtà è uno dei modi migliori per imparare facendo, per avere qualcuno da cui prendere le mosse, per trovare il nostro “maestro di bottega”. Perché altrimenti da chi copiamo?

Tre settimane all'IG

alternanza-scuola-lavoroQuesta avventura è nata nel giorno in cui la mia professoressa mi ha comunicato che avrei fatto le mie tre settimane di alternanza scuola-lavoro all’Informagiovani: non conoscevo molto questo servizio, anzi le mie informazioni erano veramente scarse.

Le emozioni prima di iniziare erano numerose e contraddittorie: passavano dal timore per la nuova esperienza alla curiosità di scoprire un mondo a me sconosciuto che mi avrebbe avvicinato al lavoro e messo a contatto con persone nuove con le quali avrei dovuto relazionarmi e collaborare per tre settimane. Il primo di giorno di “lavoro” mi sono presentato all’ingresso e sono stato gentilmente accolto da tutto lo staff che mi ha mostrato il locale dove avrei passato i giorni successivi e illustrato i servizi che l’Informagiovani svolge, liberandomi immediatamente della tensione e innescando ancora di più curiosità e stimoli.

Per cominciare, mi hanno assegnato una scrivania tutta per me dove avrei iniziato il mio primo lavoro. Consisteva nel revisionare e sistemare un raccoglitore che riguardava i finanziamenti per la creazione di nuove imprese; raccogliendo nuove leggi, nuove disposizioni e nuovi bandi. Col passare dei giorni ho iniziato a socializzare con le persone che collaboravano con me e ho trovato un gruppo che mi ha sempre dato la possibilità di lavorare con il tempo e lo spazio dovuto.

Essendo la prima esperienza lavorativa avevo un’idea e delle prospettive che in parte sono state confermate e in parte invece smentite. L’ambiente lavorativo dove mi sono trovato era energico, stimolante e allo stesso tempo accogliente e rassicurante. Questo mi ha permesso di lavorare in tutta tranquillità con gli stimoli giusti. I lavori che ho affrontato non erano basati solo sul consolidamento delle competenze scolastiche ma anche sull’acquisizione di nuove, come il rapporto e l’accoglienza del pubblico. Le prime volte è stato complicato perché avevo bisogno di un sostegno per via delle mie scarse informazioni. Ma con il passare dei giorni però aumentava la mia esperienza e le mie conoscenze che mi permettevano di consigliare gli utenti nel migliore dei modi. Sicuramente la parte del lavoro più gratificante e interessante è stata la creazione di un video su una mostra ospitata all’interno dell’Informagiovani. Questo perché mi ha permesso di imparare l’uso di un editor di foto e video e mi ha regalato la soddisfazione di ricevere i complimenti sia da parte dello staff che dagli organizzatori della mostra.

Pian piano scoprendo e vivendo l’ambiente dell’Informagiovani ho compreso le numerose difficoltà da affrontare ogni giorno per rispettare tutti i servizi disponibili al pubblico nei quali anche io ero coinvolto: spesso cercavo di trovare la soluzione affinché gli utenti potessero avere a disposizione la risposta migliore..

Arrivando alla fine di queste tre settimane posso affermare di essermi integrato perfettamente all’interno del gruppo e consiglio vivamente a qualsiasi ragazzo di provare questa esperienza. Ringrazio tutte le persone che hanno collaborato a rendere questo stage un bagaglio di esperienza che non dimenticherò.

 

(questo articolo è stato scritto da Federico Capobelli, stagista dell’Istituto Savoia-Benincasa)

 

Quante ne sai?

quante ne saiTorniamo spesso a parlare di competenze e conoscenze, fondamento di una solida vita professionale (e se volete anche personale). Quante cose conosciamo? E quante ne conosciamo abbastanza bene da poter essere considerati dei “maestri” in quella materia? L’importanza di questo aspetto è fondamentale: soprattutto in ambito lavorativo (e non solo se faremo i maestri o i professori in futuro). Per definire meglio quello di cui vogliamo parlare vi raccontiamo una storiella.

Narra una leggenda molto popolare tra i fisici che Max Planck, dopo aver ricevuto il premio Nobel nel 1918 per la scoperta della quantizzazione dell’energia, si imbarcò in un tour attraverso tutta la Germania per tenere delle conferenze sulla meccanica quantistica, la nuova e rivoluzionaria disciplina che era nata dalle sue scoperte. Parlare di «conferenze» è improprio: il professor Planck teneva infatti sempre la stessa, sempre uguale, persino nei colpi di tosse. Giorno dopo giorno, l’autista che lo accompagnava arrivò a impararla a memoria, finendo anche per notare che il professor Planck cominciava ad annoiarsi un pochetto. In occasione di un viaggio verso Monaco di Baviera, perciò, chiese al suo assistito: “Certo, professore, deve essere veramente noioso ripetere sempre le stesse cose. Tanto per cambiare, a Monaco, non potrei parlare al suo posto?”. Planck, che era un buontempone, accettò volentieri e i due decisero di scambiarsi i ruoli; l’autista avrebbe tenuto la conferenza, mentre il Nobel si sarebbe accomodato in platea con il berretto da chauffeur e l’aria austera. Purtroppo, dopo la conferenza, accadde una cosa mai successa prima. Un tizio del pubblico, nella fattispecie un professore di fisica, si alzò in piedi e fece una domanda. Senza perdere un grammo del suo aplomb, l’autista replicò: “Mi sorprende davvero che l’abitante di una città così avanzata possa fare una domanda così semplice. Guardi, le può rispondere direttamente il mio autista”.

Questa storiella simpatica, di cui dobbiamo la conoscenza a Marco Malvaldi e al suo ultimo libro (Le regole del gioco), oltre a raccontare della prontezza di riflessi e dell’arguzia che ogni tanto possono salvarci da situazioni imbarazzanti e imprevisti, ci fa capire come e quanto sia importante conoscere abbastanza approfonditamente un argomento per poterlo gestire e non solo raccontare. La capacità di parlare, anche in pubblico, di un tema non è necessariamente sintomo di consocenza: gli psicologi chiamano questo tipo di sapere “conoscenza dello chauffeur” (potremmo dire “conoscenza da bar”). Se c’è qualcuno che ha una buona capacità di ascolto e di intuire quali sono i passi fondamentali di un discorso unite a buone doti comunicative, ecco che potremmo credere che quel qualcuno sia un esperto della materia. Fino ad un certo punto: il punto è quando qualcuno gli farà una domanda di cui conosce già la risposta. Potete chiamarla verifica o scherzo bastardo, fatto sta che quella domanda farà cadere tutte le competenze presunte come un castello di carta.

Chi adotta questo metodo per fingersi esperto di qualcosa in realtà è al massimo un bravo attore, capace di interpretare un parte. A pensarci bene in effetti, la similitudine è azzeccata: un attore studia una parte, ne assorbe per quel che può (e per il tempo che serve) le caratteristiche e poi la interpreta al meglio. Ma se un attore che interpreta la parte di un uomo di affari dovesse poi mettersi alla guida, veramente, di un’impresa sarebbero guai per molti, dai clienti, ai dipendenti, ai creditori. Questo ragionamento dovremmo essere bravi a farlo anche con noi stessi, evitando di raccontarci e raccontare storie e bugie sulle nostre competenze. Non sempre è facile perché il confine tra quello che conosciamo e quello che non conosciamo può essere labile e confuso. Le nostre conoscenze non dipendono soltanto da quello che abbiamo studiato sui libri, ma anche dalle esperienze e dalle percezioni che abbiamo assimilato nel corso degli anni. Per fare un esempio pensate alle ricette: sicuramente tra tutti quelli che sanno preparare un tiramisù ci saranno almeno 3 o 4 ricette diverse. Ma se fate un sondaggio ciascuno dirà che la propria ricetta è quella giusta, corretta, originale. Qualcuno però sarà in errore (supposto che la ricetta del tiramisù sia unica), anche se in buona fede. Nel mondo del lavoro, diversamente da quello della cucina (solo quando non è quella professionale), le conoscenze che dobbiamo avere devono essere precise, dettagliate, spesso profonde. Un esercizio che possiamo fare è quello di imparare a determinare  limitare l’ambito delle nostre competenze: che cosa sappiamo veramente? Su che cosa potremmo tenere una lezione senza paura di dover rispondere a una domanda?

Mettici la faccia e fatti i selfie tuoi

selfie tuoiLa scorsa settimana abbiamo parlato in questo blog di come e quanto sia importante sapersi presentare, sia di persona che con una forma scritta che oggi si traduce in molti modi, dalla semplice mail con cv allegato alla stesura di un blog o un sito personale. Le modalità con cui ci “rappresentiamo” sono molteplici e per come funzionano oggi la comunicazione e il sistema di relazioni tra le persone c’è un fattore cruciale. la foto!

Oggi, probabilmente, nessuno di noi si è salvato dalla selfiemania: la moda di fare un autoscatto con il proprio telefono, tenendolo in mano alla massima distanza consentita dalle nostre braccia. Il risultato finale non sempre è eclatante: a volte si vede un pezzo di un braccio, la foto è sfocata, le smorfie son quelle di un cartone animato. Anche quando il selfie è azzeccato la domanda che vi e ci facciamo è: sarebbe quella una foto professionale? La potremmo utilizzare per presentarci in un contesto lavorativo?

La risposta a questa domanda hanno provato a darla anche gli esperti di Linkedin, il social network business, dedicato al mondo del lavoro. Con la realizzazione di una apposita guida per i selfie hanno voluto trasformare, con i giusti accorgimenti, una pratica che si vuole legata solo a svago e divertimento in un modo rapido per aggiornare il proprio avatar lavorativo. Certamente il risultato finale non può essere il medesimo di una foto professionale, ma certamente con qualche consiglio che riportiamo qui di seguito il risultato finale sarà sicuramente migliore di un selfie qualsiasi.

Primo passo: scegliete uno sfondo. Probabilmente non ci facciamo caso ma in una fotografia quello che colpisce la nostra attenzione non è solo la faccia che eventualmente sta in primo piano; per dare un “senso” a tutta la foto i nostri occhi e il nostro cervello catturano particolari importanti. Sono particolari che aiutano poi ad elaborare sia il ricordo che l’associazione di idee connessi alla foto. Per questo è importante per esempio scegliere uno sfondo neutro (bianco per esempio) oppure un qualcosa che sia significativo (lo sfondo in questo senso potrebbe riprendere il luogo in cui lavoriamo oppure strumenti che fanno parte della nostra professione). Secondo passo: la giusta luce. Tutti sappiamo (forse) che una foto controsole è quasi vietata per un risultato buono (il viso sarebbe completamente scuro, quasi invisbile): bisogna fare attenzione anche ad altre fonti di luce e cercare di avere il viso sempre in una buona condizione di illuminazione (per esempio mai spalle ad una finestra, semmai il contrario); attenzione anche al flash, distorce la luminosità del vostro viso per cui la cosa migliore è… aspettare che sia giorno 😉

Terzo passo: il “makeup”. Pensate prima di scattare a come vorresti che risultasse la tua immagine finale, scegli la postura, l’abito e l’espressione che vorresti ottenere. Potete fare alcune prove e tentare di vedere come l’espressione che pensate di aver tenuto, il tipo di risultato e di effetto finale restituisce. Potrebbe accadere che un’espressione che vi sembrava affascinante sia ridicola e quella che reputavate poco professionale sia invece quella più adatta. La nostra fotogenia dipende anche da questi particolari. A ogni modo comunque volto rilassato ed espressione naturale, tendenzialmente sorridente. Pensate a quando ti sei sentito fiero di te o alla voce del capo che ti offre la promozione che hai sempre sognato: vedrete che otterrete lo scatto giusto. Quarto passo: il setting. Posizionate la macchina fotografica (o, meglio, il vostro smartphone) ad una distanza adeguata (le inquadrature dall’alto verso il basso tendono a dare risalto agli occhi e assottigliano ovale del viso e collo; viceversa lo scatto opposto può veicolare l’idea di imponenza ma rischia derive caricaturali per chi ha un naso o un mento pronunciati). Per evitare che oltre al viso la vostra foto comprenda anche una aprte del braccio che regge il telefono studiate un modo di appoggiarlo da qualche parte, non troppo distante per evitare di utilizzare troppo zoom (quelli digitali non offrono nulla di più di una inquadratura normale; l’immagine potete tagliarla successivamente): per esempio se fate la foto seduti ad un tavolo il telefono potete appoggiarlo ad una pila di libri messa a 80/100 centimetri da voi.

Il bello del selfie è che potete scattare e riscattare tutte le volte che volete: se non riuscite a trovare la foto migliore condividete gli scatti con un gruppo ristretto di amici (se volete potete farlo anche con noi, garantiamo massima riservatezza) e fatevi dare qualche consiglio.

Gli errori (di grammatica) da non fare in una presentazione

grammaticaRimaniamo sul tema del post precedente: presentarsi agli altri nel modo migliore. La scorsa volta abbiamo visto quali comportamenti adottare e quali evitare nel momento in cui incontriamo per la prima volta qualcuno. Abbiamo visto che ci sono modi di fare e scelte più o meno consone rispetto al contesto in cui siamo, soprattutto se il contesto è quello professionale e davanti a noi abbiamo una persona avrà una qualche influenza sul nostro futuro. I latini dicevano “verba volant, scripta manent” volendo intendere che la parola scritta ha una forza e una permanenza maggiore rispetto a quelle soltanto dette. Se è vero infatti che le parole dette hanno una potenza immediata nel momento in cui le esprimiamo (forti anche del fatto che sono collegate alla nostra immagine nel suo complesso), quelle scritte spesso rimangono fisse lì, sotto gli occhi del destinatario, per un tempo molto più lungo (a volte per sempre). Questo è ancor più vero oggi che scriviamo su un supporto che non è deteriorabile come la carta: quel che mettiamo in una mail, in un post di Facebook o in un blog posso rimanere per sempre.

Ecco perché diventa fondamentale saper, oltre che parlare, anche scrivere bene. Non tutti siamo scrittori, questo è naturale. Ma è anche vero che una scrittura quantomeno corretta, chiara e incisiva non solo aiuta a far capire meglio quello che vogliamo intendere ma serve anche a persuadere della bontà dei nostri contenuti. Sappiamo tutti scrivere? Teoricamente sì, essendo questa un’abilità che acquisiamo nei primi anni della scuola dell’obbligo. Sappiamo tutti scrivere bene e in maniera convincente? Qui la percentuale si abbassa notevolmente considerato che ci sono ancora errori grammaticali frequenti nella scrittura della maggior parte degli italiani. Vediamo quali sono in modo che, si spera, faremo più attenzione quando toccherà noi.

Gli errori grammaticali più frequenti li segnala in questo post il blog Libreriamo. Al primo posto c’è l’uso (s)corretto dell’apostrofo: “Quando si mette? Semplice, con tutte le parole femminili, quindi: un’amica sì, un amico no. E quindi apostrofo? Si tratta di elisione: non si può dire lo apostrofo, diventa quindi l’apostrofo. Infine c’è anche il troncamento: un po’ vuole l’apostrofo, perché si tratta del troncamento della parola ‘poco’“.  “Qual’è” l’altro errore commesso dagli italiani? Sta proprio all’inizio della frase precedente, perché “qual è” si scrive senza apostrofo. Non può mancare il congiuntivo che sembra non rientrare più tra le abitudini linguistiche degli italiani. Il congiuntivo ha valore esortativo (al posto dell’imperativo, vada via di qua!), concessivo (segnalando un’adesione, anche forzata, a qualcosa; venga pure a spiegarmi le sue ragioni), dubitativo (es. che abbia deciso di non venire?), ottativo (per esprimere un augurio, una speranza, ma anche un timore, es. fosse vero!), esclamativo (es. sapessi quanto mi costa ammetterlo!). Purtroppo nella mente di molte persone è rimasto più chiaro il “venghi Fantozzi, venghi” del personaggio di Paolo Villaggio (che lo utilizzava come ulteriore accento per raccontare la grottesca realtà di certi ambienti). Animati da entusiasmo possono essere solo le persone di sesso femminile? No, ma forse è quello che credono coloro i quali scrivono “entusiasto” anziché entusiasta: questo aggettivo rimane con la “a” finale anche al maschile. Un errore meno grave ma che racconta sicuramente di una cifra stilistica meno precisa è quello che ci fa mettere una “d” nelle congiunzioni che precedono una parola che inizia con una vocale (come, per esempio, “ad entrare” che invece andrebbe scritto “a entrare”). Quella “d” la dobbiamo mettere solo quando la vocale è la stessa (e quindi sarebbe giusto “ed entrare”). Quest’ultimo, ahinoi, potreste trovarlo anche in questo blog.

Ora che avete scoperto, forse, qualche incidente linguistico nel quale siete incappati potete andare a vedere se per caso lo avete riportato in qualche vostra lettera di presentazione o nella mail che stavate per spedire con il vostro cv. Correggerli non sarà forse determinante per il successo del vostro curriculum ma concorrerà sicuramente a farvi fare una figura migliore.

Quando non hai una seconda opportunità

seconda opportunitàDi solito si dice che abbiamo sempre una seconda occasione: giusto, non sembra nemmeno a noi utile affermare il contrario. Di fatto è anche il momento in cui impariamo qualcosa, perché la “seconda volta” è l’occasione in cui abbiamo avuto già un’esperienza e siamo in grado di poterla mettere a frutto, migliorando quello che abbiamo fatto bene ed evitando gli errori già commessi. Nonostante questo nella vita ci sono casi in cui questa seconda possibilità non ce l’abbiamo:

Una di queste occasioni è quando incontriamo una persona nuova e facciamo la cosiddetta “prima impressione”: proprio perché è la prima, non abbiamo una seconda volta in cui lasceremo il ricordo della prima volta. Sembra un gioco di parole ma se provate a rifletterci un attimo è proprio così. Pensateci un attimo: quando conoscete una ragazza o un ragazzo che vi piace che tensione avete il momento in cui vi salutate per la prima volta? Mani sudate, battito cardiaco accelerato, difficoltà a trovare le parole giuste per presentarsi: in generale un senso di spaesamento e di mancanza di equilibrio che ci spiazza. Tutto questo accade anche perché sappiamo che se “toppiamo” quel ragazzo o quella ragazza non saranno poi così tanto disposti e disponibili a costruire una relazione con noi. Stiamo gettando il seme per costruire una nuova relazione e questa cosa va fatta con cura già dalle prime mosse. In questo blog non trattiamo però di questioni di cuore e quello fatto era solo un esempio per far capire la situazione. C’è una situazione simile nel mondo del lavoro: si tratta del momento in cui facciamo un colloquio di lavoro.

Chiaramente con la persona che abbiamo davanti ad un colloquio di lavoro non stiamo costruendo lo stesso tipo di relazione che vorremmo avere con la ragazzo o il ragazzo che ci piace. Ci sono elementi in comune però. Per esempio la fiducia e l’affidabilità in un rapporto di lavoro sono caratteristiche simili a quelli di una relazione sentimentale. Ma quello che più li accomuna è il fatto che in entrambi i casi siamo in una situazione in cui dobbiamo fare una buona prima impressione. Noi abbiamo qualche consiglio per il caso che riguarda il vostro possibile futuro lavoro: qui di seguito vi elenchiamo alcuni consigli di cui tener conto durante il vostro primo colloquio.

Attenti alle parole. È molto importante essere padroni del proprio linguaggio, parlare fluentemente e senza intoppi, e rigorosamente in italiano. Spesso dipende anche da chi avete di fronte, magari è lo stesso intervistatore (imprenditore o selezionatore) che esordisce con espressioni e frasi dialettali, per cui sta a voi adattare il vostro linguaggio a seconda dell’occasione (senza esagerare: considerate che parlare in maniera corretta l’italiano non è mai un peccato o un difetto). Quello che però deve passare è la vostra abilità nel dialogo e la personalità che avete; è un concetto che passa tramite una conversazione nella quale sono importanti le parole, le frasi, le espressioni ma anche il tempismo con cui le utilizzate. Insomma, cercate di far passare al potenziale datore di lavoro che di fronte a se ha una persona con carattere e personalità, non un semplice burattino da manipolare a piacimento. La bella notizia è che si può imparare a farlo, la brutta è che se non siete ancora capaci dovete iniziare a studiare.

Non pensare sempre a quello. Spesso l’unico obiettivo in testa della persona che si accinge ad affrontare un colloquio di lavoro, è il focus completamente sul suo obiettivo, ottenere il posto di lavoro. Ovviamente è un ottimo modo per orientare la mente e azioni per raggiungere quell’obiettivo. Accade però troppo frequentemente che l’attaccamento all’obiettivo è più dannoso che vincente. L’atteggiamento orientato al volere a tutti i costi quel lavoro, fa passare una sorta di attaccamento all’opportunità e, soprattutto, induce a commettere errori di valutazione. Dovete entrare nella logica che anche un rifiuto alla fine del colloquio sarà per voi acquisizione di esperienze e conoscenze, per poter essere più competitivi e preparati alla prossima occasione. Inoltre un giudizio più ponderato vi aiuterà a capire con maggior facilità se quella che vi stanno proponendo è un’occasione o una sòla 🙂

Come un agente segreto. UN passo fondamentale è consocere il “nemico” prima di affrontarlo. Scoprite quanto grande è l’azienda, da quanto esiste, di che cosa si occupa nel dettaglio, insomma; cercate di raccogliere il più grande numero di informazioni possibili per essere pronti ad ogni evenienza.Spesso spulciando il sito web dell’azienda avete già fatto la metà del lavoro, poi continuate su Google e cercate attentamente tutto quello che vi può servire per conoscere l’azienda, il capo e i collaboratori. L’obiettivo è entrare in sintonia con il potenziale datore di lavoro e fargli capire che già conoscete l’azienda: questo sarà un ottimo punto a vostro favore e passerete per quelli in gamba che si son presi la briga di ricercare qualche informazione su di loro (lo apprezzeranno).

Muoversi bene. Adottate una camminata decisa e ordinata, petto in fuori, testa dritta e un briciolo di coraggio. Dvete trasmettere di essere una persona determinata, qualsiasi sia l’esito del colloquio di lavoro. Non fate l’errore madornale di pensare nella tua testa di inciampare, di commettere errori o di fare qualcosa che non vorreste fare, potreste attirare proprio quel comportamento e manifestarlo di fronte al vostro esaminatore. Siate voi stessi, con qualche trucco per abbellirvi. A proposito: cravatte e tacchi a spillo solo se li avete già indossati almeno due tre volte prima (insomma, che non sembriate impacciati)

Vestirsi meglio. Lasciate perdere prese di posizione, nella nostra società l’immagine conta eccome, non ci sono scuse, e voi dovete essere all’altezza del colloquio. Se andate a un colloquio di lavoro in una importante società è utile andarci vestiti secondo un certo criterio, ovvero dovete essere socialmente accettati. Dovete essere vestiti come se andaste a conoscere i genitori del/lla vostro/a ragazzo/a, dovete essere presentabili nella forma e nella misura più neutra possibile. Niente cose stravaganti, attenetevi al classico e alle regole non scritte della decenza e di buona norma.

E adesso: in bocca al lupo!