Non c'è più niente da inventare

non ce niente da invenatreLa creatività, come abbiamo scritto più volte anche in questo blog, può essere una grande alleata in tempi di crisi occupazionale: inventarsi un lavoro, come si usa dire, a volte è l’unica strada veramente percorribile per chi cerca un’occupazione. Ma possiamo davvero inventarci un lavoro dal nulla? Veramente il nostro ingegno può essere ancora capace di trovare qualcosa che non esiste? Esiste ancora la possibilità di far nascere dal nulla qualcosa che prima non esisteva? Rispondere affermativamente a queste domande può essere al tempo stesso un bene o un male. Per rispondere potrebbe forse essere utile capire che cosa accade nel mondo delle invenzioni, quelle vere.

In un articolo apparso su The Economist e ripreso dalla rivista Internazionale di questa settimana, c’è una analisi sommaria ma abbastanza precisa di quel che accade nel mondo dei brevetti. La rivista ha preso in considerazione l’evoluzione quantitativa e qualitativa dei brevetti, le invenzioni registrate per dirla con altre parole. Quello che si può notare è che le vere invenzioni si fermano in realtà a quai due secoli fa. Anche se i brevetti registrati nel tempo hanno mantenuto una crescita costante o sono aumentati, quelli basati su scoperte del tutto nuove sono in realtà diminuiti o quasi scomparsi. facciamo un paio di esempi (un po’ vecchi). La lampadina: chiaramente si tratta di una invenzione ma in realtà non di una novità in assoluto; la lampadina non fu altro che la combinazione di alcune scoperte precedenti che nessuno, prima di Edison, ebbe l’intuito di mettere insieme (tanto di cappello, comunque!). Il transistor invece, nato a metà del ‘900, ha origine da una serie di scoperte contestuali alla sua invenzione (chi lo ideò non fece una mera opera combinatoria). Per quanto straordinari, questi due oggetti che hanno rivoluzionato la nostra vita sono nati da processi generativi diversi: il primo per una sorta di mescolamento di scoperte, il secondo per pure invenzione. Intendiamoci, magari averla oggi l’intuizione di entrambi. Ma il fatto è che oggi le invenzioni, per una serie di motivi, sono sempre più simili a quella della lampadina. La verifica di questo fatto si può fare controllando i codici con cui vengono catalogati i brevetti: per farla breve, se il codice è composto da due serie di numeri si tratta di una invenzione/combinazione, se invece il codice è fatto di una sola serie siamo davanti ad una invenzione pura (ed indovinate un po’ quante serie di numeri hanno la maggior parte delle invenzioni degli ultimi decenni?).

Ecco quindi che se parliamo di invenzioni pure il genere umano pare sia in un punto si stand-by (e a detta di qualcuno forse le biotecnologie daranno nuova spinta su questo versante). Ma per tornare alla domanda iniziale: si può inventare un lavoro? Stando a quello che ci racconta il mondo dei brevetti sul genio umano, diremmo proprio di no. Però sicuramente si può scoprire qualche nuova nicchia di mercato “mescolando” scoperte 8e bisogni) che esistono già. Se è vero che Edison per inventare la lampadina ha messo insieme scoperte non sue in una maniera nuova ed originale, forse noi potremmo fare la stessa cosa mescolando e rivisitando lavori, mansioni e servizi che esistono già (senza la pretesa, chiaramente, di diventare i nuovi Edison). D’altra parte ci sono imprese di successo che hanno fatto proprio questo. Uber, la famosa compagnia di servizi di noleggio con conducente, non ha mica inventato un servizio (i taxi, ed ancor prima gli autisti, esistono da tempo immemore): ha solo trovato un modo diverso di proporlo, mescolando il mondo delle quattro ruote con quello del digitale. Di esempi del genere se ne potrebbero fare a bizzeffe. Quindi quando qualcuno ci dirà di inventarci un lavoro se lo vogliamo trovare, potremo correggerlo dicendo che non c’è più niente da inventare. Semmai, si tratta di trovare la giusta combinazione.

Trovare il lavoro che (non) ti piace

trovare lavoro che non ti piaceChi di noi sta facendo un lavoro (trattasi di attività professionale remunerata, meglio ricordarlo di questi tempi) si sente spesso già fortunato da non mettersi anche a sindacare o discutere sul fatto che il lavoro gli piaccia o meno. Questo almeno per i primi mesi. Poi iniziano ad aumentare le grane, le cose che non vanno, i soldi che non bastano, le opportunità di crescita e carriera che scarseggiano e via discorrendo. Come dice a volte il comico Bertolino, il lavoro è quella cosa che lottiamo allo sfinimento per avere e che poi quando abbiamo non vediamo l’ora di lasciare. Insomma, i sentimenti che ci legano la lavoro che facciamo sono mutevoli e contradditori.

Dal nostro canto abbiamo sempre sostenuto che fare un lavoro che ci piace è essenziale: 8 ore al giorno, 5 giorni alla settimana, 50 settimane all’anno (se ci va bene), per circa 35/40 anni (se ci va benissimo) sono un mucchio di tempo, ben oltre la metà della nostra vita adulta. Passare tutto questo tempo a fare un lavoro o svolgere una mansione che non ci piace può avere conseguenze pesanti anche sugli aspetti non professionali della nostra vita. La soluzione migliore sarebbe quella di scegliere un lavoro che ci piace, ma non sempre è possibile (anche se attuare una corretta strategia nella ricerca del lavoro può essere determinante in questo senso). Cosa fare allora se rimaniamo “incastrati” in un lavoro che non ci piace?

In nostro soccorso viene l’autrice di un libro che si propone di offrire consigli e suggerimenti per una carriera ed una vita professionale (il titolo in inglese è “Love your job: the new rules for career happiness” e lo ha scritto Kerry Hannon, giornalista statunitense. La giornalista oltre alle soluzioni più immediate che vanno dalla ricerca di un nuovo lavoro alla richiesta di aumento della retribuzione (che non è in realtà la vera causa del nostro malessere), propone anche delle ricette pratiche per fare “pace con il proprio lavoro”. In primo luogo eliminare il superfluo: il disordine, il caos, le situazioni in stand-by, le liste di cose da fare, le urgenze e tutto ciò che “inquina” il normale scorrimento di una giornata lavorativa può essere considerato disordine (così come quello della scrivania). Per ritrovare l’armonia come prima cosa bisogna fare ordine. Aiutare gli altri ci aiuta a fare pace con noi stessi, a toglierci di dosso i pensieri negativi e a diventare consapevoli dei bisogni delle altre persone: per questo potrebbe essere utile fare del volontariato, dedicarsi ad attività extralavorative che rappresentino un contributo alla collettività. Crescere solitamente è un buon modo per tornare ad apprezzare le cose che si stanno facendo: per questo può essere utile investire (anche tempo proprio) nella formazione e nello sviluppo delle proprie competenze, anche senza un preciso sviluppo professionale già come obiettivo. Mantenere un clima lavorativo sereno e delle buone relazioni con i colleghi è un buon modo per ritrovare il giusto equilibrio all’interno della propria sfera lavorativa.

Se il lavoro che stiamo facendo (o l’ambiente che stiamo frequentando) non ci piace ma non possiamo lasciarlo, dobbiamo essere abbastanza intelligenti e creativi per ritrovare il nostro giusto comfort.

Nuove professioni crescono

professione-ebookA volte le nuove professioni nascono senza che ce ne accorgiamo. O, meglio, non nascono esattamente come nuove professioni, nascono come “altre cose”, idee e sviluppi che pi portano anche alla nascita di nuove professioni. Parlando di tecnologie non è che il social media manager sia nato una mattina per invenzione di qualcuno o perché un’università ha deciso ad un certo punto di creare una laurea per definire questa professione. Più semplicemente e più coerentemente sono nati i social media, sono cambiate le modalità di comunicazione, si sono intensificate relazioni e modalità di gestirle e a un certo punto c’è stato bisogno di qualcuno che lo facesse di professione. Per guardare alla professione che potremo fare in futuro oggi non possiamo più aspettare annunci di lavoro, richieste più o meno strabilianti delle aziende, attivazione di fantasiosi corsi di formazione. No, niente di tutto questo. quello che dovremmo imparare a fare è guardare alla società e al contesto in cui viviamo e chiederci: cosa potrebbe essere utile? Quali sono i bisogni espressi? Quale competenze possono risolverli? Non si tratta di predire il futuro, ma di saper analizzare il presente.

Probabilmente è quello che hanno fatto i nostri amici di Pepelab quando hanno pensato di creare un percorso formativo intitolatoProfessione e-book: come vedete non hanno inventato nessuna professione, sono andati diretti alla sostanza. Innanzitutto una premessa che forse non è necessaria ma tant’è. Gli e-book tutti sanno cosa sono, ma forse non tutti sono consapevoli del fatto che non si tratta di un mercato che riguarda solo “quelli che vogliono farsi il libro da soli”. Attorno all’editoria digitale ruota un mondo complesso frequentato da editori, grafici, addetti marketing, informatici, software, distribuzione, logistica ed anche di scrittori (ci mancherebbe!).

Come forse qualcuno avrà letto il mercato degli e-book è in crescita: secondo il rapporto dell’Associazione Italiana Editori del 2014 il mercato del libro digitale ha registrato lo scorso anno un incremento del 40%. Un dato ancor più rilevante se si pensa che la stessa analisi riporta invece un calo dei lettori in Italia. Insomma, si tratta diun mondo da esplorare ed è per questo, forse, che il percorso ideato da Pepelab potrebbe attirare l’attenzione di quanti lo vogliono scoprire e approfondirne segreti e caratteristiche.

Professione e-book è un percorso che si sviluppa in 3 week end che sono al contempo 3 moduli e 3 workshop. Su 3 tematiche differenti. Il primo modulo è introduttivo e servirà a conoscere il mondo dell’ebook: “non daremo nulla per scontato e ti accompagneremo per mano alla scoperta degli aspetti più importanti: le tecnologie, i formati, gli standard, le opportunità del mercato. Valuteremo quali canali utilizzare per pubblicare il tuo ebook, come metterlo in vendita negli store digitali e inizieremo a conoscere le strategie per renderlo più visibile e promuoverlo al meglio”. Il secondo modulo entrerà nel vivo della questione affrontando la realizzazione pratica di un testo digitale: “come è fatto un ebook “sotto il cofano”, qual è la sua struttura e quali sono gli aspetti e le specifiche tecniche da tenere presenti nella sua progettazione. Prenderemo inoltre familiarità con alcuni tra i software più conosciuti e utilizzati per la produzione di ebook. Insomma, ci sporcheremo le mani lavorando nella nostra “officina dell’ebook”!“. Il terzo ed ultimo modulo è rappresentato da 3 differenti workshop dedicati al self publishing, all’ebook e fumetto, all’ebook e fotografia. A fine corso ci ritroveremo insieme per un focus dedicato a promozione e visibilità.

Questo percorso è dedicato a chi ha deciso di non stare ad aspettare che nasca una nuova professione ma vuole nascere insieme a lei. Per conoscere modalità di iscrizione, promozioni in corso (eh già, ci sono sconti e offerte), tempi ed avere altre informazioni vi consigliamo di contattare Pepelab: dite che vi mandiamo noi 😉

La voce del popolo (del web)

bufaleC’è un tema sotteso a tutto quello che scorre sul web: il tema delle bufale (e non stiamo parlando dei simpatici animali da cui derivano i famosi latticini). Le bufale sono le notizie parzialmente o totalmente false che vengono spacciate come vere: perché? Ma la domanda vera è: perché ci crediamo? I motivi principali sono due. Il primo è che crediamo a quello che ci fa più piacere o comodo o ci gratifica; oppure ci piace perché è una notizia “bomba” o sensazionale e straordinaria. In questi casi la nostra parte emozionale prende il sopravvento ed in qualche caso ci fa andare avanti per “economia”: è più facile e meno faticoso credere a quello che istintivamente, per ricordi passati, per sensazioni archiviate mi sembra corretto e plausibile, piuttosto che metterlo in discussione, fare una ricerca, verificare se quello che ho sentito o letto proviene da una fonte attendibile.

E arriviamo al secondo  motivo: spesso quando ci arrivano le informazioni, non controlliamo le fonti. E, sempre di più, non ci facciamo domande sulla plausibilità di certe affermazioni o sulla reale possibilità che certi fatti siano accaduti. Complice una realtà sempre più “variegata” e un flusso di notizie così grande e proveniente da tutto il mondo, siamo portati a considerare quello che leggiamo sempre con lo stesso metro di giudizio e sempre con la stessa propensione a pensare che sia vero, autentico, reale. A volte per formulare un giudizio meno aderente e in simbiosi con quel che leggiamo ci servirebbero più informazioni o maggiori competenze altrimenti rischiamo di non capire appieno quello di cui si discute. Altre volte servirebbe e sarebbe sufficiente invece un po’ di logica ed un minimo di buon senso (qualche tempo un ministro dell’università si complimentò con chi aveva costruito un tunnel di centinaia di chilometri per far viaggiare delle particelle atomiche: chissà se in quel caso fu mancanza di informazioni o di buon senso).

C’è infine un altro grande tema legato alla circolazione delle informazioni e più in generale alla possibilità che hanno certe opinioni di circolare. Uno studio recente sulle competenze umane ha portato alla luce un comportamento singolare e al contempo abbastanza mortificante per certi versi. In questo articolo di Wired viene riportata la ricerca fatta sulla credibilità che assegniamo anche a chi non è competente in una certa materia. Succede che “anche per i più razionali di noi, è difficile ignorare l’appassionato parere dei propri contatti su qualunque questione, anche quando siamo perfettamente consapevoli che non possiedono le basi per esprimere un parere specialistico“. Ad esempio in caso di un piccolo malanno o di un infortunio a chi non è capitato di chiedere lumi ad un amico che ha passato la stessa sorte? E chi di noi non ha poi magari seguito le stesse indicazioni terapeutiche? O scelto lo stesso percorso curativo? Quanti di noi, ancora più irrazionalmente, ricercano su Google i sintomi che provano? Sono tutti casi in cui ci affidiamo ad informazioni e “consulenze” evidentemente non competenti.

A questo comportamento i ricercatori hanno dato una spiegazione: “questo difetto cognitivo sarebbe in molte condizioni vantaggioso perché permetterebbe di portare a termine un lavoro di gruppo più in fretta e sviluppando meno stress. La condizione è però che tutti i membri del gruppo, anche se con prestazioni variabili, siano comunque di competenze paragonabili rispetto al compito che devono svolgere insieme. Se invece le competenze sono molto diverse, allora il gruppo può essere trascinato in decisioni che sono in grado di danneggiare tutti“.

Un vecchio adagio recitava: “prima di parlare contafino a 10”. Potremmo trasformarlo in “prima di diffondere, conta fino a 10”.

Lavoro: prima persona singolare, tempo futuro

Orientamento_ISTAO_RSQuando si parla di futuro ci si aspetta sempre delle previsioni: possibilmente vere, rassicuranti, ottimistiche. Ma parlare di futuro significa anche mettersi nell’ordine di idee di poterlo programmare, determinare, realizzare con le proprie forse e le proprie competenze. Ma la questione è che per fare questi passi (programmare, determinare, realizzare) una domanda rimane in sospeso: dove? Da che parte si va? Ecco, l’orientamento professionale (quello realizzato da professionisti e da servizi appositi) cerca di dare questa risposta. Le attività di orientamento però non sono come le agenzie di viaggio che alla domanda “dove?” sono sicuramente sempre pronte a rispondere con mete entusiasmanti. L’orientamento per rispondere alla domanda “dove?” parte sempre da un’analisi della persona che fa la domanda. In primo luogo perché, e questo vale anche per i viaggi, ciascuno di noi può avere una meta diversa, anche se parte con condizioni simili. In secondo luogo perché le condizioni in realtà si chiamano competenze ed è molto importante che ciascuno di noi sia consapevole delle proprie. In terzo luogo perché la “meta” è un obiettivo e per arrivarci serve necessariamente farlo proprio.

Abbiamo dato un titolo a questo post che riporta “prima persona, singolare” proprio perché l’orientamento è un’attività che possiamo fare anche in gruppo ma che ciascuno di noi affronta in maniera del tutto personale. Le attività di orientamento hanno l’obiettivo di aiutare le persone a costruire percorsi pienamente soddisfacenti in ambito formativo e professionale ed è er questo che ciascuno ha bisogno del proprio percorso di orientamento. L’altra questione è quella delle competenze. “Con questo termine si intende valorizzare quello che una persona sa fare, indipendentemente da come lo ha imparato. Si valorizza cioè l’apprendimento non formale in contrapposizione ad esempio a diploma, laurea, qualifica ottenuta attraverso un corso di studi. In questo accezione il termine ‘competenza’ (usato sempre al singolare) indica ‘quella generica qualità, non meglio specificata, posseduta una persona che si dimostra competente” (orientmaento.it). Su questo punto in Italia facciamo molta fatica a fare progressi: c’è una cultura diffusa e radicata che confonde sempre i titoli con le competenze (con casi sempre più frequenti di evidente differenza tra le due cose). Nel linguaggio e nella pratica comune, ad esempio, l’utilizzo del suffisso “dott.” regala al nome che segue una serie di competenze e attributi che sono in realtà tutti da verificare. Anche nei percorsi professionali (e, ahinoi, in quelli formativi) si tende a confondere l’acquisizione del titolo con l’acquisizione delle competenze: se è vero che una volta laureati, per esempio, si sono acquisite una serie di competenze specifiche nella materia, è altrettanto vero che poi la mancata pratica delle stesse o una loro utilizzazione in un campo diverso possono trasformare molto lo standard previsto dal titolo acquisito. Ad esempio una persona laureata in economia può essersi occupata poi di marketing, finanza, fisco o gestione di impresa canalizzando le proprie competenze in un settore o in un altro (e probabilmente chi si è occupato di marketing farà fatica quanto noi a compilare una dichiarazione dei redditi).

L’ultimo (ma solo in ordine di apparizione in questo post) aspetto è quello che riguarda gli obiettivi. Torniamo all’esempio dei viaggi: ammesso che qualcuno di voi abbia già tutto il necessario per viaggiare (soldi, auto, ferie, disponibilità che nella nostra metafora sono le competenze) come fa a scegliere la meta? O le mete? Scegliete quella più vicina o quella più lontana? Quella che implica un viaggio più faticoso e avventuroso o quella più facile da raggiungere? Scegliete di arrivarci subito o vi avvicinate per gradi? Queste sono le stesse domande che si potrebbero fare a chi, anziché un viaggio, sta programmando un percorso professionale ed è alla ricerca dei propri obiettivi. Se ne fa un gran parlare ma non capita spesso che qualcuno ti dica che cosa è un obiettivo e che caratteristiche deve avere. Per rispondere a quest’ultima questione ed anche alle altre di questo post ci vediamo venerdì 17 aprile alle 17 (data e orario parlano della nostra totale mancanza di scaramanzia): con ISTAO parleremo di orientamento, competenze, obiettivi e futuro al seminario gratuito che abbiamo chiamato “In me non c’è che futuro“. Vi aspettiamo!

Sorpresa! A cosa serve?

Motorcycle DetailsTra qualche ora molti di noi probabilmente, come da tradizione, scarteranno e poi romperanno con una certa bramosia l’uovo pasquale alla ricerca della sorpresa. Qualcosa di nascosto che però sappiamo ci farà piacere trovare all’improvviso. Anche se sarà una stupidaggine o una cosa poco utile: all’inizio il gusto sta solo nel vedere che c’è, nella curiosità. Questa piccola o altre grandi sorprese che funzione hanno nella nostra esperienza? Sono utili, funzionali a qualcosa o semplicemente è un modo per tenere allegro il clima?

In realtà che ci piacciano o meno le sorprese hanno un effetto sulle nostre emozioni, sui nostri comportamenti e sulle nostre reazioni chiaramente. E chi le fa lo sa bene. Le sorprese sono uno dei principali attivatori del nostro interesse. Scrive Annamaria Testa nel suo sempre interessante blog Nuove&Utile:L’interesse che proviamo non solo diversifica la nostra esperienza, ma ci aiuta anche a metterla a fuoco e, poi, a farla nostra. L’interesse è sempre associato a emozioni positive, predispone a prestare attenzione, a pensare in modo più strutturato e approfondito, a lasciarsi coinvolgere“. Sono due le parole chiave in questa frase: la prima è “emozione” e la seconda è “coinvolgere”.

Quello che ci accade è che quando ad una esperienza (visiva, auditiva, olfattiva o tutte queste cose messe insieme) associamo un’emozione, quell’esperienza viene evidenziata dal nostro cervello e messa in un posto privilegiato della nostra memoria. Questo è il trucco che utilizza la pubblicità che ormai da anni non è più fatta secondo lo schema “guarda-il-prodotto|compra-il-prodotto” ma è sempre più concentrata nella ricerca di un’emozione da far provare a chi la guarda in modo che l’emozioni faccia il resto nel nsotro cervello e quando siamo al supermercato saremo, quasi inconsciamente, portati a ricordarci e scegliere il prodotto che ci ha emozionato (per esempio come nella pubblicità di Wind, apparsa solo online).

In quanto a coinvolgimento ci sarebbe da scrivere parecchio. Ma diciamo che il motore del coinvolgimento è la curiosità che segue o va di pari passo con l’emozione che proviamo nel vedere certi contenuti o provare certe esperienze. Come quando apriamo l’uovo, anche quando ciò che abbiamo davanti è inaspettato, nuovo e potenzialmente emozionante siamo portati ad interagire in maniera costante e continua. Come si mantiene l’interesse? Scrive sempre la Testa: “Offrendo feedback positivi e aiutando le persone a diventare intimamente consapevoli del fatto che il loro impegno ha procurato (sta procurando, procurerà) dei risultati. Calibrando in modo progressivo la difficoltà, man mano che crescono competenze e conoscenza. Alimentando la curiosità attraverso la varietà degli stimoli offerti, e aggiungendo una componente di sfida, di imprevisto, di mistero o di sorpresa“. Ecco che ci siamo arrivati a scoprire a cosa servono le sorprese.

Possiamo utilizzare queste leve (emozione, coinvolgimento, sorpresa) anche quando tocca a noi stare dalla parte di chi confeziona l'”uovo pasquale”. Per esempio potremmo trattare come tale anche il nostro cv o una nostra presentazione che, per suscitare l’interesse di chi lo leggerà, dovrà essere in grado di attivare un’attenzione simile a quella che abbiamo quando scartiamo l’uovo alla ricerca delle soprese. Nel frattempo noi vi facciamo gli auguri di una buona Pasqua piena di sorprese!

Informazione di servizio: l’Informagiovani rimane chiuso lunedì 6 aprile, torniamo il 7

La tecnologia fa perdere posti di lavoro (è una bugia)

tecnologia lavoroSe tra chi legge questo blog c’è qualcuno esperto o amante di storia forse ha già capito dove vogliamo andare a parare. Sicuramente saprà che cosa si intende per rivoluzione industriale e che cosa questa ha comportato nella storia dell’intero pianeta nel quale viviamo. C’è chi afferma che in questi anni stiamo vivendo una rivoluzione simile, grazie all’informatica e alle tecnologie digitali. Quando utilizziamo il termine rivoluzione intendiamo qualcosa che, anche se lentamente, stravolge completamente il mondo (e il modo) in cui siamo abituati a vivere. Per intenderci, la rivoluzione industriale ha avuto come effetti, tra gli altri, la possibilità di avere la corrente elettrica nelle case (immaginate oggi di poterne fare a meno?) e di trasformare il mondo produttivo (negli Stati Uniti gli occupati nell’agricoltura sono passati dal 90% al 2%). Che cosa sta accadendo oggi? E che effetti potrebbe avere quella attuale se fosse una vera rivoluzione tecnologica?

Nel numero di Internazionale di questa settimana c’è un dossier (quello di copertina) che racconta in qualche modo proprio questa storia. Il titolo dell’articolo è “Il capitalismo dei robot” e la questione che vi è raccontata potremmo riassumerla in questa semplice domanda: la tecnologia sta togliendo posti di lavoro? Per trovare una risposta a questa domanda senza essere banali e frettolosi bisogna analizzare un po’ meglio la questione. Prima di tutto l’informatica ha un grande potenziale perché è in grado di auto-apprendere grazie alla sua incredibile capacità di fare calcoli e, soprattutto, di farli in maniera sempre più veloce (provate a leggere, se non la conoscete, la teoria detta legge di Moore). La conseguenza è che grazie a questa “abilità” il processo di sostituzione macchina/uomo riguarda con una certa facilità tutti i processi che sono ripetitivi ed ancor di più se si tratta di lavori faticosi e logoranti per i quali l’uomo ha come limite la propria resistenza. Il terzo punto riguarda l’automazione: grazie alla potenza di calcolo sempre più grande le “macchine” riescono a fare lavori sempre più complessi. A guardare  questo video sui robot Kiva nei magazzini di Amazon ci si rende subito conto di come possa essere importante l’influenza dei robot nel lavoro: quello che queste macchine fanno in maniera del tutto automatica non più di 10 anni fa era il lavoro di operai in un numero di almeno 5 volte superiore. Operazioni semplici, faticose, ripetitive: il massimo per un robot comandato da un computer.

La sostituzione riguarda soltanto i lavori manuali? Non si direbbe: i bancomat e le casse automatizzate hanno sostituito gran parte dei cassieri di banca e ci sono una serie di strumenti tecnologici (con relative applicazioni) che possono sostituire con una certa facilità il lavoro di una segreteria organizzata (chi ha più bisogno di una segretaria che gestisce gli appuntamenti quando esiste GoogleCalendar?). Considerato che la potenza di calcolo che 30 anni fa aveva un calcolatore dal costo di milioni di dollari grande come un magazzino oggi ce l’ha una PlayStation3, ci sarebbe da scommettere che nei prossimi lustri (pochi) le macchine avranno sostituito completamente gli uomini (e le donne) nella stragrande maggioranza dei lavori. Ora sta tutto nel decidere se questa è una bella o brutta notizia.

Per prendere questa decisione bisogna fare ancora un passo indietro (la storia spesso aiuta sia la scienza che l’economia). Quando negli Stati Uniti l’agricoltura ha perso la maggior parte dei suoi addetti che cosa è successo? La popolazione è diminuita drasticamente? C’è stata una disoccupazione epica? Non è andata così. Quello che è successo è che le persone hanno dovuto imparare a fare lavori nuovi e al contempo sono nati nuovi settori, nuove professioni, nuovi impieghi. Il problema è che la faccenda non è stata automatica e nemmeno immediata. Secondo J.M. Keynes in queste epoche di passaggio in cui l’innovazione tecnologica ha trasformato la società e l’economia, l’adeguamento delle “risorse umane”non ha viaggiato alla stessa velocità, è stato più lento. Questa asimmetria, tra la velocità del progresso e quella dell’adeguamento della popolazione, genera situazioni di mancato equilibrio ed anche un certo senso di smarrimento in chi vive durante il passaggio. Ci sembra che sia un po’ quello che ci sta capitando oggi: non possiamo dire che la tecnologia non sia utile e benefica, ma al contempo facciamo fatica a crederlo quando ci accorgiamo che è anche la causa della perdita di posti di lavoro. Il consiglio che la storia ci regala è che in questi frangenti ci sono solo un paio di cose che tendenzialmente sembrano giuste da fare: la prima è quella di interessarsi, conoscere e imparare a utilizzare la tecnologia; l’altra è di evitare di pensare che le cose che sono andate sempre in una certa maniera continueranno a funzionare sempre così. Questa rigidità, soprattutto se applicata alle scelte che ci riguardano da vicino come quella di un percorso professionale, potrebbe risultare pericolosa. Come facciamo ad accorgercene? Per esempio, se qualcuno di voi sogna ancora di fare il cassiere di banca forse è bene che prenda in considerazione qualche altra prospettiva 🙂

Notizie a raffiche (casuali)

notizie a rafficaSarà poi così vero che i giovani e soprattutto i nativi digitali (tra l’altro: siamo sicuri che vogliamo continuare a chiamarli così?) non si informano, quindi non si interessano, ergo non partecipano e non hanno a cuore la vita di una comunità più ampia che non quella fatta da se stessi e dai loro amici su Facebook? Non crediamo che sia poi così vero. In realtà, ce lo dice tra gli altri un report che viene dagli Stati Uniti, i ragazzi e le ragazze sono consumatori di notizie, ma il loro approvvigionamento non avviene più attraverso canali tradizionali e dedicati alle notizie come giornali, televisione, riviste. La maggior parte, se non la totalità delle informazioni su fatti ed avvenimenti i giovani le recuperano dai social network che di conseguenza son diventati un punto di riferimento per questo tipo di conoscenza.

Il report americano dice anche un’altra cosa interessante: il 90% dei ragazzi intervistati afferma che la loro fonte di primaria di informazione è Facebook ma al contempo solo la metà di questi dichiara che il motivo principale per cui accede al social network è l’informazione (la stessa cosa vale per Twitter anche se questa piattaforma è piena di giornalisti e, al contempo, di notizie spazzatura). Questo ci fa supporre che utilizzare Twitter o Facebook, anche se sono contenitori di informazioni, non è come leggere un giornale alla ricerca di una notizia di attualità, politica o sport. Manca proprio l’intenzione di trovare informazioni. Si è quasi portati a dire che le informazioni e le notizie siano accidentali, qualcosa in cui ci si imbatte senza volerlo. Una specie di serendipity dell’informazione.

Per quanto possa essere accidentale trovare informazioni e notizie su Facebook e Twitter, tuttavia si può constatare il fatto che chi non è alla ricerca di notizie ma frequenta con una certa assiduità i social network sviluppa una certa esperienza nella lettura di notizie anche senza frequentare siti di giornali e news. I giovani si imbattono in qualche stralcio di notizia, in un brandello di informazione e se la cosa tocca un tema interessanti vanno alla ricerca di altre fonti per approfondire. Un indicatore ulteriore sulla modalità con cui i giovani affrontano il tema dell’informazione è dato dal fatto che la stragrande maggioranza di loro non è abituata a pagare per avere informazioni. Forse nemmeno a dare fiducia a qualcuno in particolare su questo tema, considerato che solo il 44% degli intervistati ha sottoscritto una qualche forma di iscrizione (gratuita) ad un contenitore ed erogatore di informazioni.

Chiaramente i questionari sui comportamenti di questo genere non sempre sono affidabili. Ci sono però dei dati certi che riguardano anche il nostro contesto nazionale. I giornali in forma cartacea vendono sempre meno, a parte qualche eccezione (legata soprattutto a specializzazioni verticali su temi o target specifici). Gli stessi siti di giornali (anche i più grandi) hanno capito che il numero di click (ancora) è il fattore che può alimentare la vita delle notizie on line (e per questo nelle home page c’è sempre qualche notizia spazzatura, legata al gossip o a qualche altro fenomeno di basso lignaggio). L’ultimo dato, tornando ai comportamenti, è che, giovani o meno, siamo ancora un po’ ingenui circa l’autenticità e la veridicità di quel che leggiamo sui social network: spostiamo troppo spesso la bilancia sulla parte emozionale anziché su quella razionale (come a dire che sospendiamo la nostra capacità critica, quando esiste, nel moemnto in cui quello che leggiamo tocca le corde dei nostri sentimenti, più o meno beceri). Forse il report americano non è lo strumento adatto per capire che cosa sta accadendo al nostro modo di informarci, ma sicuramaente è un input per cominciare a farci delle domande su come veniamo a conoscenza di fatti ed avvenimenti. Che siamo giovani o meno giovani.

Lavoro, parliamone

lavoro parliamoneQuando cerchiamo lavoro sono molte le cose a cui dobbiamo fare attenzione: la redazione di un buon cv, una strategia attenta e curata per la scelta del nostro obiettivo professionale, la costruzione di una rete di contatti che possa essere costruttiva ed efficace ed infine una nostra presentazione complessiva che sia performante. Che cosa intendiamo per presentazione e come riusciamo ad ottenere questo risultato?

Per presentazione intendiamo qualsiasi azione e comportamento che porta a presentare agli altri quello che siamo e quello che facciamo: si va dalla stretta di mano fino ad un ipotetico elevator pitch. Si tratta in buona sostanza di fare comunicazione e farla bene. L’esperienza più comune, condivisa e forse più intensa di comunicazione per quel che riguarda il mondo del lavoro probabilmente la facciamo quando affrontiamo il colloquio di lavoro. Ma ci sono anche altri momenti in cui il nostro modo di comunicare è importante: quando incontriamo una persona nuova, se dobbiamo presentarci in un contesto diverso, se siamo chiamati a parlare in pubblico. In tutti questi casi dovremmo tenere presente alcuni aspetti fondamentali per fare una buona impressione.

Impariamo a gestire la nostra comunicazione cominciando dal vocabolario: facciamo attenzione alle parole che utilizziamo, a come scegliamo di descrivere cose che ci appassionano ed anche quelle che non ci piacciono. Per esempio: non rispondere mai ad una domanda cominciando con “no”. Fateci caso, capita soprattutto quando ci vengono chieste spiegazioni su qualcosa che ci riguarda: “Di cosa ti sei occupato/a mentre alvorari per l’impresa X?”. Risposta: “No… ero addetto/a…”. Quella negazione all’inizio probabilmente è una brutta abitudine ma in un’interpretazione meno letterale racconta un atteggiamento poco propositivo e convinto. Due lettere che vi mettono già tra i “perdenti”. Altro esempio. Quando spieghiamo qualcosa e non abbiamo certezza che chi ascolta abbia chiara la nostra spiegazione chiedere “capito?” è molto diverso da “sono stato abbastanza chiaro/a?”. Nel primo caso, anche non volendolo, ci mettiamo in una posizione si superiorità (la maestra con l’alunno), nel secondo caso in una posizione di disponibilità. Sono piccoli particolari ma che si possono notare con facilità.

Altro fondamentale. Raccogliamo e ci accorgiamo dei feedback del nostro interlocutore? Riusciamo a capire quando sta seguendo quello che diciamo, se è interessato, annoiato, partecipe o combattivo? Questo è un aspetto molto importante perché non solo ci aiuta a definire meglio quale sia l’atteggiamento di chi abbiamo di fronte, ma allo stesso tempo ci permette di raccogliere segnali per cambiare la nostra comunicazione e, se necessario, differenziare i nostri argomenti. Per capire quanto e come l’attenzione del nostro interlocutore è attiva si possono cercare conferme intercettando lo sguardo, chiedendo conferma alle nostre affermazioni o facendo domande.

Da ultimo: che toni utilizziamo? Parliamo forte o piano? Velocemente o lentamente? Abbiamo mai provato ad ascoltarci? Se per esempio siamo abituati a fare un lavoro in pubblico davanti a molta gente tenderemo, anche in colloquio interpersonale, ad avere un volume alto, a volte troppo per una stanza di pochi metri quadrati. Qualche volta può capitare anche che parliamo velocemente per la fretta (ansia) di dire molte cose come se la quantità di argomenti corrispondesse alla qualità degli stessi. Cambiamo strategia e scegliamo di dire meno cose con maggior tranquillità: un passo che potrebbe aiutarci anche nella scelta degli argomenti più efficaci.

Se volete un consiglio per una prova pratica provate questo: scegliete un argomento (per esempio la presentazione del vostro profilo professionale), parlatene a voce alta e registratevi. Nel riascoltarvi provate a vedere se sui fondamentali che abbiamo illustrato 🙂

Ora che sai tutto di me, dimenticami!

dimenticamiC’è una questione legata al nostro modo di vivere nell’era digitale: la questione si chiama privacy. Senza che ce ne accorgiamo (forse) stiamo mano a mano, con il passare del tempo, regalando pezzetti della nostra vita e importanti informazioni su di noi ad aziende più o meno grandi. La leva con la quale siamo così disponibili a concedere informazioni che ci riguardano sono servizi che noi possiamo utilizzare; solitamente sono servizi gratuiti che un tempo nemmeno ci saremmo immaginati che qualcuno potesse concederci. Nell’era digitale a spiarci o a cercare di fare soldi con le nostre informazioni sono anche le smart TV, o le automobili futuristiche; in futuro ogni dispositivo avrà infatti la capacità di ascoltare le nostre conversazioni e fare ricerca dati in tempo reale. La privacy, che un tempo era un diritto, ora non è più nemmeno una buona condotta.

Ma che cos’è la privacy e a che cosa ci serve? La definizione che riteniamo maggiormente descrittiva è quella che deriva un saggio molto studiato scritto da Warren e Brandeis per la Harvard Law Review nel 1890. Il saggio si concentrava sui difetti dei media di allora (pieni di gossip, pettegolezzi e “fotografie di persone comuni pubblicate senza autorizzazione”) e cercava di porre rimedio a quei problemi definendo la privacy “il diritto ad essere lasciati in pace”. Praticamente l’esatto contrario di una normale condotta odierna: grazie (o a causa) dei social media praticamente oggi (quasi) tutti noi abbiamo una foto che ci ritrae in un momento personale (non necessariamente intimo) e che può essere visibile a persone che nemmeno consociamo (anche se abbiamo settato in maniera restrittiva le nostre impostazioni sulla privacy, appunto). La differenza oggi è che invece di volere essere “lasciati in pace”, oggi vogliamo sentirci parte di una comunità. I nostri dati non vengono utilizzati soltanto e banalmente per conoscere delle cose su di noi e utilizzarle nel momento più opportuno. In maniera più pervasiva, contorta e decisamente complessa il set di informazioni di ciascun individuo che utilizza strumenti digitali è alla base di un intero business, di una grande fetta dell’economia.

Il fatto è che la privacy, come l’ingrediente segreto di una ricetta di successo, è una cosa che va dosata con una certa maestria e nel modo migliore per avere il giusto mix di benefici e rispetto personale. Così come essere molto flessibili e dimenticarsi della privacy può avere effetti eccessivamente invasivi sulla nostra vita, allo stesso modo c’è da considerare che dando eccessiva importanza alla privacy, la società finisce per tendere verso l’estremo della segretezza, cosa che non porta vantaggio a nessuno. E, soprattutto, è un fatto storico che una società poco aperta si sviluppa di meno e peggio. Facciamo un esempio: la raccolta dati relativa al tema della salute può servire a raggiungere grandi risultati in termini di ricerca e possibilità di guarigione e prevenzione. Ora la domanda è: stiamo andando verso un’epoca nella quale la privacy non avrà più alcuna importanza come è accaduto per alcune norme comportamentali del MedioEvo che oggi risultano impraticabili? In un futuro magari non troppo lontano ma nemmeno dietro l’angolo potrebbe essere così.

Ma c’è anche chi sostiene il contrario e si fa sentire. “Una recente decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che alcuni utenti possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere risultati relativi a query che includono il loro nome, qualora tali risultati siano inadeguati, irrilevanti o non più rilevanti, o eccessivi in relazione agli scopi per cui sono stati pubblicati.” Recita così un documento di Google (forse l’azienda che ha il possesso del più alto contenuto di informazioni al mondo) messo on line qualche tempo fa. E da lì le richieste sono partite: un flusso anomalo di istanze, quasi sette al minuto, che ha avuto inizio il giorno in cui Google ha messo in rete il modulo corrispondente. È possibile ipotizzare che molti utenti, per interesse reale o per semplice curiosità, abbiano cominciato a “googlare” il proprio nome alla ricerca di qualsiasi link o contenuto che li riguardasse e che, stando sempre ai numeri diffusi dalla società, qualcuno di loro abbia ritenuto necessario compilare il modulo. Più di qualcuno in effetti, perché soltanto il primo giorno il form è stato compilato da 12mila persone.

Anche se la cosa più facile da dire è che siamo dalla parte della privacy, in realtà poi se il tema non è portato sotto la nostra attenzione siamo più che disponibili a cedere pezzi importanti di informazioni che ci riguardano, senza nemmeno accorgerci (per esempio semplicemente utilizzando in maniera banale e quotidiana uno smartphone). Sarebbe però importante avere sempre la consapevolezza di quello che stiamo facendo e di quanto stiamo pagando (in termini di dati) quello che otteniamo.

Insegnamenti dal passato

insegnamenti dal passatoAvete mai avuto voglia di “perle di saggezza”‘ Qualche volta capita, no? Per esempio quando ci capita qualcosa che non capiamo oppure quando ci siamo sentiti stupidi davanti a qualche situazione. Ecco oggi, grazie anche all’articolo comparso sul blog di Luca Conti, proviamo distribuire qualche consiglio (insegnamento?) che proviene dal passato. Ad essere precisi, da un passato remoto. Si tratta di alcuni passaggi tratti da un libro che racchiude i pensieri di Marco Aurelio, imperatore, filosofo e scrittore romano vissuto attorno al 100 dopo Cristo.

Potrà sembrare paradossale ma leggendo alcuni passi ci sono cose che possono essere utili anche nella nostra quotidianità nonostante siano stati scritti circa 2000 anni fa. Facciamo qualche esempio. Vi capita mai di arrabbiarvi per il comportamento scorretto, seppur prevedibile, di qualcuno? Ebbene Marco Aurelio scriveva: “Pretendere che il malvagio non sbagli è come volere che l’albero del fico non produca lattice nei suoi frutti, che i bambini non piangano, che il cavallo non nitrisca, e così per tutto ciò che è inevitabile. Che altro dovrebbe fare chi è malvagio per sua natura? Se sei bravo, curagli tu questo difetto“.

Avete sempre successo nelle vostre imprese? Quando qualcosa non vi riesce vi arrabbiate e perdete l’autocontrollo? “Quando non riesci a portare a termine qualcosa di buono, invece di arrabbiarti, mettici un po’ più d’impegno. E se pensi che l’impedimento sia più forte di te, non angustiarti, allora, dato che il tuo fallimento non dipende da te. Quando sei turbato per una qualche causa esterna in realtà non è questa che ti affligge, è il giudizio che formuli al riguardo, e il giudizio puoi cancellarlo istantaneamente.” Ed ancora: “Se la cosa dipende da te, perché ti comporti così? E se dipende da altri, con chi pensi di prendertela? Con gli atomi? Con gli dèi? Sarebbe una follia. Non devi prendertela con nessuno. Se puoi, correggi chi ha commesso l’errore, se no, correggi l’errore, se non puoi fare nemmeno questo con chi te la pigli? Ogni nostro atto deve avere un motivo. 

Quanti di voi sono preoccupati per il proprio futuro? Quanti di voi (noi) pensano che avrebbero voluto qualcosa di più e di meglio, quanti hanno rimpianti? Bene, ricordatevi che “la felicità della vita umana dipende da pochissime cose, e se, per esempio, hai perso la speranza di diventare un filosofo o uno scienziato, hai sempre la possibilità di essere una persona libera, modesta, socievole e rispettosa“.

Quando si dice la saggezza antica 🙂

Nella rete dei contratti

contrattiDimmi che contratto hai e ti dirò chi sei! Questo è un modo di dire che possiamo utilizzare per raccontare in qualche maniera la complessità e la varietà di contratti di lavoro che ci sono nel nostro sistema di regole. Quanti contratti di lavoro ci sono e come sono utilizzati? Premesso che una risposta totalmente esaustiva è difficile da dare in un post di un blog, proviamo comunque a tratteggiare una panoramica che speriamo possa essere utile ad orientarsi meglio.

Rispondere alla domanda “quanti sono i contratti” è relativamente facile. A questa pagina web c’è un elenco di tutti i contratti: sono una decina anche se molte delle forme illustrate possono avere variabili diverse. Le variabili principali che distinguono i contratti sono due: il tempo e la dipendenza. Ci sono contratti che hanno una scadenza temporale e quelli che non ce l’hanno e poi ci sono i contratti che prevedono una subordinazione ad un datore lavoro ed altri invece che configurano forme di lavoro autonomo. Le forme contrattuali che già molti di voi conoscono sono: la somministrazione di lavoro nel quale un’agenzia mette a disposizione il suo personale in base alle esigenze dell’impresa; il lavoro a chiamata che permette al datore di lavoro di chiamare il prestatore di lavoro all’occorrenza (ma può essere stipulato solo con soggetti di età inferiore a 24 anni, oppure, di età superiore a 55 anni); le collaborazioni coordinate continuative (co.co.co., che non durano più di 30 giornate nel corso dell’anno solare e comunque retribuite sotto i 5.000 euro annui)  e le co.co.pro. possibili solo se subordinate all’esistenza di un progetto. Il contratto a progetto non prevede un orario rigido o un monte ore da raggiungere, ma solo il completamento del progetto entro i temi indicati. Dal 2016, in base alle novità introdotte dal Jobs Act, le collaborazioni saranno possibili solo in settori coperti da un accordo sindacale; il  lavoro accessorio che è quello retribuito dal committente con dei voucher (o buoni lavoro), che includono i versamenti minimi assicurativi e previdenziali. Le attività lavorative retribuite con i voucher non possono superare i 5.000 euro totale annui (il Jobs Act alzerà probabilmente questo limite a 7.000 euro), e i 2.000 euro per ogni committente.

E poi arriviamo al tanto contrastato contratto a tempo indeterminato. Con il “Jobs act” quando parliamo di contratto a tutele crescenti in realtà non stiamo parlando di un nuovo contratto di lavoro: è il nuovo modo con il quale funzionerà il contratto a tempo indeterminato. Per questo se vi capitasse di firmarlo trovereste sempre la stessa denominazione, non quella che si legge sui giornali.
La novità è che dall’entrata in vigore delle nuove regole chi verrà assunto con questo tipo di contratto non godrà più delle tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In poche parole se un lavoratore verrà licenziato ingiustamente per motivi discriminatori o disciplinari (nel caso in cui il fatto contestato non sussista) potrà essere reintegrato e riottenere il proprio posto di lavoro; negli altri casi di licenziamento illegittimo perderà il proprio posto ma avrà diritto a un risarcimento crescente a seconda dei mesi di lavoro effettuati presso quel datore di lavoro.

L’aspetto critico di queste novità è che si creerà un sistema duale in cui ci sono nello stesso posto di lavoro persone che hanno le tutele dell’articolo 18 e i nuovi assunti che non le hanno. L’altro aspetto importante legato al contratto a tempo indeterminato è che per quest’anno le aziende che lo utilizzeranno avranno una importante riduzione delle tasse (fino a 8.060 euro all’anno) e questo dovrebbe aumentare il suo utilizzo. C’è però la probabilità che le imprese utilizzeranno questo sgravio fiscale per assumere lavoratori con esperienza e già “pronti all’uso”, e questo non aiuterebbe soprattutto i giovani.

i 3 perchè di una lettera di accompagnamento

3 perche letteraBen ritrovati a tutti voi! Il nostro blog è stato fermo una settimana: stiamo facendo degli esprimenti per testare novità che speriamo di potervi presentare presto ;-). Ripartiamo di slancio e questa settimana cominciamo subito a parlare di lavoro e di come fare per trovarlo. Oggi proviamo a darvi qualche consiglio su come scrivere una lettera di accompagnamento. solitamente su questo documento ci si concentra poco (a torto) pensando che siano sufficienti “due righe” per accompagnare il cv scritte in maniera più o meno plausibile. Invece non è così: la lettera di accompagnamento, le “due righe” scritte nel testo della mail in cui allegate il cv sono il primo biglietto da visita che mostrate a chi non  vi conosce. E spesso sono fondamentali. Partiamo dal’inizio. Innanzitutto, mail o lettera che sia, va indirizzata se possibile a qualcuno, meglio se una persona fisica (quindi nome e cognome e non solo il ruolo); e meglio ancora se la persona è quella che si occupa di personale in quell’azienda. Nel rivolgervi al vostro destinatario evitate troppe formalità ma iniziate sempre con un saluto e cercate di essere abbastanza cordiali (un “Gentile…”  può andare bene). Evitate se possibile di iniziare con un generico “Spettabile azienda” o un “voi” generalizzato che non ottiene lo stesso grado di attenzione di un incipit maggiormente personalizzato. Se non avete idea della struttura che la lettera può avere, se non sapete da dove iniziare e come terminare la lettera un format molto semplice che ci sentiamo di consigliarvi è quello che abbiamo chiamato dei “3 perché”. Lo abbiamo chiamato così dal momento che una possibilità che avete di strutturare la lettera di accompagnamento è quella di rispondere idealmente a tre perché. Il primo “perché” riguarda voi stessi: perché siete voi? Quali sono le motivazioni che vi hanno portato ad affrontare un certo percorso formativo o una certa carriera professionale? Provate ad illustrare il vostro profilo professionale non tanto con l’elenco di titoli od esperienze (quelli si vedono sul cv!) ma dando qualche spunto sui motivi per i quali avete scelto una certa direzione professioanle. Il secondo perché riguarda invece la professione per la quale vi candidate: perché volete ricoprire quell’incarico? Cosa vi spinge a pensare che sapreste svolgere bene quel lavoro? Cosa potrebbe essere determinante, tra le vostre competenze, per il buon raggiungimento degli obiettivi che quella professione prevede? Cercate in poche righe di descrivere il valore aggiunto che esprimete e i bisognid ell’azienda che volete e potete soddisfare. Il terzo perché riguarda invece proprio l’azienda/organizzazione destinataria della vostra candidatura: perché avete scritto a quell’azienda? Cosa vi spinge a preferirla ad altri suoi competitor? Cosa ha in comune con voi rispetto a progetti, filosofia aziendale, vision? Dovreste riuscire a mettere in piedi in due righe almeno una buona motivazione in questo senso che possa ottenere due effetti: far capire che non state scrivendo la stessa lettera di presentazione all’ennesima azienda e testimoniare il vostro apprezzamento per il loro lavoro (i complimenti, a patto che siano sinceri, sono sempre apprezzati). Se riuscite a rispondere a ciascuna di  queste domande con un breve paragrafo che non contenga errori grammaticali né di battitura avrete tra le mani una lettera di presentazione che può essere utilizzata con profitto. Non sarà una formalità sbrigata ma una vera e propria presentazione di voi stessi. Rileggetela, integratela e modificatela in modo che possa piacervi. Come dicono bene nel blog Tramplinodilancio la lettera d’accompagnamento è un involucro che permette al vostro cv di arrivare nelle mani di chi vi deve giudicare:  può essere uno stupendo incarto piegato con cura giapponese o un foglio di carta da regalo evidentemente riciclato. A voi la scelta.

Next week

write-out-of-the-boxLa prossima settimana ci sono due eventi diversi, ma ugualmente interessanti, a cui vorremmo invitarvi. Il primo riguarda la conoscenza delle lingue e come e quanto le conoscete. In collaborazione con la scuola di lingue IIK parleremo di certificazione IELTS e soprattutto di come prepararsi per sostenere l’esame. IELTS (International English Language Testing System) è un test appositamente progettato per chi vuole studiare o lavorare in un Paese di lingua inglese. È ufficialmente riconosciuto in Regno Unito, Australia, Canada, Irlanda, Sudafrica, Nuova Zelanda e Stati Uniti come verifica linguistica per l’ammissione ai corsi universitari o per l’immigrazione. In Italia è gestito dal British Council.

Durante il laboratorio, pensato come una sorta di overture su diversi aspetti della certificazione (da chi non sa che cosa sia a chi ha già messo in cantiere la certificazione), avrete la possibilità di conoscere tutti i particolari dell’esame ed anche affrontare un laboratorio pratico per rendervi maggiormente conto di che cosa si tratta. Perché lo facciamo? Innanzitutto perché come abbiamo più volte scritto (e detto praticamente a tutti quelli che entrano qui) secondo noi la conoscenza dell’inglese non è più un requisito aggiuntivo, è essenziale. Anche se non volete lasciare l’Italia, lo sarà sempre di più e non basterà dichiarare una conoscenza sperando che la verifica della stessa sia una cosa affrontabile. Presto i datori di lavoro o chi selezionerà personale richiederà che la vostra conoscenza delle lingue sia certificata: meglio cominciare a prepararsi a questo passo e questa è un’occasione per farlo. Quindi, prenotate fin da adesso il vostro ticket gratuito per martedì 3 marzo alle 17.30 (i posti sono limitati!)

La seconda opportunità che vi offriamo è quella di dedicare un po’ del vostro tempo non ad una abilità tecnica specifica, ma di mettere alla prova e stimolare la vostra capacità di pensare in maniera creativa. Crazylab, il workshop con aperitivo che abbiamo organizzato per il prossimo giovedì 5 marzo dalle 17.30, ha lo scopo di mostrare a tutti, in modo semplice e immediato, alcune tecniche per sviluppare un sistema per pensare fuori dagli schemi. Pensare fuori dagli schemi vuol dire avere la capacità di affrontare ogni evento della vita con “leggerezza” ossia risolvere, magari in modo non convenzionale, ogni problema o situazione per noi nuova o inusuale da affrontare. Attivare un modo di pensare non convenzionale è facile: basta usare parti del cervello che normalmente non si usano per abitudine o per insegnamenti ricevuti da bambini. In un mondo “liquido”, dove le mutazioni sono continue, pensare in modo non convenzionale ci dà la giusta flessibilità per vivere una vita dinamica a ogni età. Il workshop con aperitivo è organizzato in collaborazione con Anna Masturzo e Alessandro Deiana, consulenti e trainer che lavorano da alcuni anni sulle risorse umane nel campo dell’innovazione aziendale
Il loro intento è condividere con tutti alcune semplici tecniche del pensiero creativo, sistemi che possono essere applicati in qualunque situazione, banale o difficile, del lavoro e della vita quotidiana. Anche qui per partecipare basta prenotare il posto a questo indirizzo (sarà richiesto un contributo di 7 euro per l’aperitivo).

Darsi delle occasioni per approfondire, acquisire competenze o semplicemente conoscere cose e persone nuove è forse uno dei regali più grandi che possiamo farci. Vi aspettiamo next week 😉

Il lavoro non è un posto in cui stare

man asleep deskGià ora ed ancora di più nei prossimi anni, ciò che maggiormente conterà non saranno qualifiche e titoli per “stare” in un certo posto di lavoro. Ma, più realisticamente, capacità e competenze espresse durante il lavoro. Le due cose non sono uguali e non ho nemmeno scontato che la seconda sia diretta conseguenza della prima. Vista da un altro punto di vista potremmo dire che l’epoca del posto che dura tutta la vita è finita, ma la nostra impiegabilità ha ancora qualche chance. Che cos’è l’impiegabilità? Non è un concetto nuovo e nemmeno troppo sconosciuto, solo che rappresenta un concetto che fa fatica ad entrare nella nostra cultura e nel nostro modo di vedere e valutare il lavoro.

L’impiegabilità (od occupabilità) la potremmo definire come quell’insieme di competenze e capacità di un lavoratore che che ne fanno un soggetto in grado di soddisfare bisogni ed esigenze di un potenziale datore di lavoro, che lo rendono appetibile, se non addirittura necessario. Questo vuol dire che quell’insieme di capacità e competenze hanno alcune caratteristiche: sono adeguate al mercato, sono utili per risolvere problemi reali delle imprese e delle organizzazioni del mercato, sono aggiornate. E, per finire, non è detto che questo insieme sia fatto sempre dagli stessi elementi (quindi capacità e competenze cambiano con il tempo ed il cambiare del mercato).

Ora capite che in un sistema come quello italiano in cui il lavoro è un posto che si conquista e poi si mantiene per tutta la vita a prescindere, questo concetto di mutevolezza e aggiornamento non sempre suona bene: cambiare ed aggiornarsi significa mettersi in discussione, imparare cose nuove, sviluppare un certo percorso ma anche fare più fatica, impegnarsi maggiormente, superare esami, risolvere problemi, superare difficoltà. Un abella sfida ma forse, per qualcuno, anche una bella scocciatura. Unito a questi aspetti ce ne è anche un altro: in futuro saranno apprezzati non soltanto coloro che avranno nozioni consistenti, ma anche chi saprà mettere a frutto in campo professionale doti come la perspicacia, la creatività, l’empatia. Carl Benedikt Frey che ad Oxford lavora come ricercatore sul tema dell’impatto della tecnologia sul lavoro, afferma che “i lavori che vedranno una crescita costante sono quelli che si basano  in gran parte sull’intelligenza sociale e creativa”. Questa è una buona notizia per due motivi.

Il primo motivo è che queste doti le possiamo acquisire tutti a prescindere dal tipo di studio, percorso formativo che abbiamo intrapreso o dalle esperienze che hanno segnato la nostra professionalità. Il secondo motivo è che il suddetto ricercatore oxfordiano ha anche individuato quelli che ha definito “colli di bottiglia”, ovvero aree e competenze nelle quali la tecnologia fa fatica a raggiungere e stare al passo con il lavoro umano. I colli di bottiglia sono tre: l’intelligenza personale, la creatività e la manipolazione di precisione che le macchine ancora non sanno fare bene. I lavori che richiedono un alto livello di competenze sociali e di creatività sono difficilmente automatizzabili. Per fare un esempio pratico ci spostiamo nel campo della medicina. L’elaborazione di algoritmi sempre più complessi col tempo riesce a diminuire drasticamente il lavoro di diagnosi di un dottore, ma intensifica sempre di più il suo ruolo di dispensatore empatico di cure. Per trovare lavoro, quindi, la strategia non deve essere più quella di cercare e conquistare un posto in cui “sedersi”, ma quella di sviluppare una serie di competenze da distribuire.

Qualche consiglio non fa mai male

arbre/mainsQuanti di voi dopo l’invio di un curriculum aspettano una risposta che non arriva mai? Nemmeno a dirlo questa è un’esperienza che è toccata a tutti e che, regolarmente, continua a capitare a molti. Per questa cosa essenzialmente ci sono due ordini di spiegazioni: potrebbe essere che la maggior parte delle aziende e dei loro responsabili siano maleducati ed in generale non rispondo a nessuno; oppure potrebbe essere che alcuni nostri curriculum non siano esattamente adeguati o forse non sono nemmeno troppo efficaci. Entrambe le spiegazioni hanno un riscontro nella realtà: in effetti ci sono aziende che ritengono una buona reputazione nei confronti di potenziali candidati un surplus di cui poter fare tranquillamente a meno. Ma ci sono anche casi in cui abbiamo spedito un curriculum senza rileggerlo, con errori grammaticali, importanti omissioni e quant’altro. Con l’aiuto di un simpatico post di scritto da Osvaldo Danzi su Wired proviamo a vedere insieme quali sono gli errori più comuni da evitare.

Innanzitutto i dati anagrafici: controlliamo sempre che siano completi (sì, anche l’età perché nasconderla è un trucco che usano quelli più “grandi” ed ormai tutti lo sanno)) ed evidenziamo quelli essenziali per farci trovare (avete messo i recapiti bene in vista o bisogna cercarli con la lente?). Poi: che lavoro vogliamo fare? Senza tanti giri di parole scriviamo esattamente e per parole chiave limitate e stringenti quello che vogliamo fare, la nostra mansione e il tipo di attività e compiti che siamo in grado di svolgere. In questo vale sempre e su tutto il principio della chiarezza. Con tutta l’esperienza che avete… rischiate di non trovare lavoro! Soprattutto se decidete di raccontarla tutta nel cv. Il curriculum deve essere un documento tendenzialmente breve (due pagine sono un limite insuperabile) anche se esaustivo: per questo è opportuno scegliere che cosa mettere e come metterlo. Scrivere che 15 anni fa avete fatto i gelatai per pagarvi l’università non è forse necessario se nel frattempo avete fatto ben altro. Il criterio che noi suggeriamo in questi casi è quello della scelta coerente: Scrivete e tenete per voi un curriculum “master” con tutte le esperienze fatte nella vostra vita lavorativa: quando si tratterà di fare un invio andate a togliere, soprattutto tra le esperienze più vecchie, quelle che non sono coerenti con il profilo per il quale vi state candidando. Attenzione che per coerenza intendiamo il fatto che l’esperienza svolta vi ha fatto sviluppare competenze utili per quella desiderata (ad esempio aver fatto il cameriere potrebbe essere coerente con un ruolo commerciale).

Infine inviate il curriculum e tracciate le vostre spedizioni (come se foste Amazon): calibratelo di volta in volta rispetto al destinatario, tenete traccia in un appunto o agenda di quando e a chi lo avete mandato. E non fatevi cogliere impreparati: se ricevete una telefonata da qualcuno che ha ricevuto il vostro curriculum evitate nella maniera più assoluta di mostrare che non vi ricordate a chi lo avete inviato. Quel contatto che stabilite è molto importante ed è necessario non fare una brutta impressione già dal primo contatto telefonico. Vi sembra un lavoro faticoso e per il quale serve un minimo di organizzazione? Esatto, è proprio così. E per evitarlo oggi non avete neppure più la scusa del tempo o delle risorse perchè gli strumenti tecnologici a disposizione sono tanti e spesso gratuiti: utilizzateli!

Il lavoro che si trova

il lavoro che si trovaSu circa 950mila annunci di lavoro comparsi on line (ma ci sono ancora annunci che viaggiano solo off line?) più o meno la metà sono annunci che riguardano l’innovazione, l’alta tecnologia: appartengono a settori in cui queste componenti sono il motore dello sviluppo. Quanti candidati sono pronti a rispondere a simili offerte? La risposta a questa domanda è piuttosto deludente, perché il problema è che probabilmente spesso capita che non ci siano profili adeguati.

Fatta la tara degli annunci che riguardano posizioni altisonanti solo a parole, ci sono però una serie di profili che difficilmente si riescono a trovare. Eppure sarebbe semplice: basterebbe prevedere quali sono le professioni più richieste, formare i giovani a questi profili… et voilà, il gioco è fatto, domanda ed offerta si potrebbero incontrare facilmente. Le cose però non stanno così per una serie di motivi. Il primo è che in realtà, per una serie di motivi culturali, le previsioni che non ci piacciono tendiamo a far finta di non vederle. Come quelle annunciate nella ricerca di qualche tempo fa degli studiosi  Frey e Osborne (Il futuro del lavoro: quanto sono sensibili all’innovazione tecnologica le professioni) in cui di profila un futuro in cui alcune professioni saranno destinate a scomparire perché sostituite dall’automazione. Così potrebbe accadere (e, crediamo, accadrà davvero) che chi ha competenze di medio livello, per esempio legate alla catalogazione e alla organizzazione dell’informazione come un assistente di studio legale, o abilità manuali, rischia di trovarsi rapidamente disoccupato.L’anticipazione di questo processo la possiamo vedere anche negli annunci che sono pubblicati oggi: più di un terzo delle posizioni aperte sono rivolte a chi non ha solo una competenza ma riesce a portare un contributo intellettuale per fare innovazione (che è qualcosa in più di saper fare bene una cosa).

Messe così le cose potremmo fare un’amara scoperta: le posizioni che le aziende non riescono a coprire non sono quelle per lavori che gli italiani non vogliono fare (il/la badante) ma quelli che gli italiani non sanno fare (perché non si sono formati appositamente). Oggi quando un giovane è davanti alla scelta del percorso formativo che potrebbe lanciarlo nel mondo del lavoro ha davanti due “istituzioni” ad indicargli la strada. Una è la scuola/università che nella maggior parte dei casi è ancora dell’idea che quelle tecnologiche siano ancora competenze specifiche di un settore (mentre oggi sono assolutamente trasversali). L’altra sono i genitori che, oltre a non essere nativi digitali, spesso non frequentano la rete in maniera assidua, consapevole, competente. Diciamo che, forse, in questa epoca non sono i consiglieri migliori per il proprio futuro. In realtà ci sono percorsi formativi che possono portare a percorsi di carriera davvero interessanti, basta solo provare ad allargare l’orizzonte della ricerca e lo spettro dei consiglieri. Per esempio le cose scritte in questo post le abbiamo lette sull’ultimo numero della rivista Wired che ha messo on line anche un sito dedicato al mondo del lavoro innovativo: all’indirizzo jobs.wired.it ci sono annunci, articoli, informazioni per trovare lavoro ma anche per rendersi conto di quanto e come sta cambiando il mondo del lavoro. Buona navigazione!

A cosa serve studiare

un momento della nostra presentazione all'Università Politecnica delle Marche

un momento della nostra presentazione all’Università Politecnica delle Marche

In questi giorni siamo presenti alle Giornate di orientamento dell’Università Politecnica delle Marche per illustrare alcuni dei nostri servizi. Le giornate, dedicate alle scuole superiori (classi quinte) di tutta le Marche, hanno il titolo di “Progetta il tuo futuro”: si può ancora progettare il proprio futuro partendo dallo studio? In un contesto in cui le competenze stentato a farsi riconoscere ed essere valorizzate ha ancora senso investire nella propria istruzione, nel miglioramento delle proprie competenze e conoscenze, nello sviluppo di una professionalità basata su cultura, nozioni, apprendimento? A cosa serve studiare?

Probabilmente se rispondiamo guardando gli annunci di lavoro o il sentimento comune la risposta che ci viene da dare è: assolutamente no! So no molti i suggerimenti che ci farebbero scoraggiare un investimento nello studio: la cosiddetta fuga dei cervelli, l’esperienza di lavoratori neolaureati sottopagati, quella di giovani con un elevato livello di studio che si arrangiano in mansioni decisamente umili, la platea di giovani che hanno abbandonato percorsi di formazione nei quali non riuscivano a trovare un’utilità. Però esistono anche altri aspetti che vale la pena sottolineare per valutare in maniera ponderata (non necessariamente positiva). Di questi aspetti se ne è occupato anche l’OCSE, l’organismo internazionale per la cooperazione e lo sviluppo. In un suo rapporto sull’istruzione dice che “l’istruzione non solo aiuta gli individui ad avere migliori prestazioni nel mercato del lavoro, ma migliora anche la salute complessiva, promuove la cittadinanza attiva e contiene la violenza“.

Annamaria Testa, nel suo blog, illustra anche gli altri aspetti della validità e la convenienza di investire nello studio. Ne riportiamo alcuni per darvi magari modo di riflettere durante il week end. Il primo è che l’istruzione allunga la vita, e nemmeno di pochissimo: “un uomo istruito che lavora nel terziario ha un’aspettativa di vita di otto anni superiore a quella di un uomo che non ha completato l’educazione secondaria“. Il secondo è che l’istruzione ci rende più consapevoli: riuscire a comprendere fatti e questioni più complesse grazie ad un insieme di mozioni più approfondite ci aiuta anche a renderci meglio conto di quel che ci accade. “Le persone più istruite fanno più volontariato. Si interessano di più di politica. Sviluppano una maggiore fiducia interpersonale (quindi sono più portate ad avere comportamenti cooperativi, a mantenere gli impegni, a valorizzare l’integrità e il sostegno reciproco)“.Maggiore istruzione  vuol dire anche maggiore soddisfazione: vuoi mettere il gusto che si prova ad esprimersi in maniera corretta, a dimostrare di conoscere fatti scientifici o riuscire a citare passi di letteratura classica? Ma al di là di quest piccole soddisfazioni del tutto personali in realtà l’OCSE dichiara che “la differenza di soddisfazione per la propria vita tra persone molto e poco istruite consiste in 18 punti percentuali […] Oltre a garantire redditi mediamente più alti, l’istruzione migliora le capacità cognitive, sociali, relazionali, emozionali: per questo le persone più istruite risultano più soddisfatte anche a prescindere dalla loro condizione economica“.

A noi sembrano tutti buoni motivi per scegliere di studiare. Come abbiamo detto e diremo ai ragazzi che si accingono a scegliere il loro percorso universitario, se ci chiedessero “a cosa serve studiare?”  molto semplicemente potremmo rispondere “ad avere una vita migliore”.