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Quanti K vuoi fare? L’illusione del lavoro da ricchi

Sono convinto che se frequenti i social media e scorri tra i video che l’algoritmo propone avrai incontrato anche tu un qualche “guru” che, in poco tempo, promette di farti realizzare guadagni milionari (anzi, come va di moda dire ora, una certa quantità di “kappa” dove con “k” si intende il simbolo che sta a indicare le migliaia). C’è da fidarsi? Anzi: sono promesse che possono essere mantenute? La risposta semplice (ma vera) è: no, a entrambe le domande.

Internet prima e i social media poi, hanno sicuramente arricchito le potenzialità del mercato del lavoro e aumentato anche le opportunità. Ma in questo tripudio di occasioni è diventato sempre più difficile riconoscere quelle che lo sono veramente da quelle che invece rappresentano solo una perdita di tempo se non una truffa. Forse qualcun* avrà sentito la parola (neologismo) “fuffaguru” che intende definire tutti quei soggetti che fanno della “fuffa” (chiacchiericcio e paccottiglia di varia natura) l’ingrediente principale della propria offerta: spesso (se non sempre) si tratta di non-lavori. Attività di formazione, creazione di imprese (sempre promettenti!), vendita facile, supporto alle imprese per le loro vendite, business (non meglio identificati) online, criptovalute. Quello che manca, sempre, è la competenza (sia posseduta che richiesta)  perchè, a quanto pare, non è ingrediente necessario: basta la voglia di fare (che, come abbiamo scritto, non è una competenza).

Come fare a riconoscere quali sono queste opportunità che rischiano di farci sentire degli allocchi quando le accettiamo?

Il linguaggio, le parole. “Quello che vuoi nella vita”, “profitto”, “pensare in grande” , “da 3 a 10 k in un mese” (migliaia di euro chiaramente). Sono alcune parole che denotano un linguaggio sempre molto spocchioso, ricco di esagerazioni, che fa leva spesso su una presunta forza personale quasi illimitata e su un atteggiamento molto aggressivo (che, diciamolo, non è sempre quello che serve nel mondo del lavoro). L’idea che vogliono tramettere i fuffaguru è quella che ciascuno di noi è potenzialmente un uomo/ una donna di successo che finora non ha sviluppato il proprio potenziale; possiamo essere tutti miliardari, solo che nessuno ce lo ha detto prima. Questo semplicemente non è vero. E non è vero nemmeno se ci “accontentiamo” di 1k anziché 10, perché, semplicemente, queste scalate di successo non esistono con questi presupposti.

Come funziona. Il meccanismo con cui il “lavoro” che dovrebbe renderci milionari si sviluppa spesso non è molto chiaro. La proposta è quella di diventare, quando va bene, bravi venditori (anche se questa parola non viene mai usata). Al termine in italiano è però sostituito da  qualche inglesismo, tipo “closer“, che sta indicare una sorta di specialista di chiusura delle trattative: di fatto si tratta di qualcosa molto vicino al telemarketing più assillante (tipo quelle telefonate fastidiose per luce, telefonia, gas, bitcoin, ecc.). Ma se lo chiami “closer” e aggiungi qualche “k” guadagna molto fascino (ma nessuna sostanza). La cosa non si palesa subito, perché prima di arrivare al dunque bisogna passare per la visione di video (motivazionali o ricchi a loro dire di segreti), il download di ebook eccezionali, eventuali interviste o questionari da compilare. Si tratta di una tecnica di marketing, applicata in maniera un po’ grezza ed aggressiva, che si chiama imbuto del marketing (marketing funnel): ad ogni fase quello che viene richiesto (e quello che si offre) è sempre un po’ di più rispetto al passaggio precedente. Così facendo chi sta organizzando la cosa tasta la nostra determinazione, noi ci sentiamo sempre più “presi” e coinvolti in modo da arrivare emotivamente predisposti al passaggio finale. Questo è, sempre, un acquisto di qualche genere (che ci permetterà solo poi di avere tutti gli strumenti per diventare ricchi… ma veramente?). Per non rimanere sul vago ecco qui qualche esempio: questo promette entrate extra on line non si sa bene con cosa; questo ha scritto quello che definisce l’anti-libro (pare l’unico che dovremmo leggere); ma c’è anche chi riesce (pagando) a finire sui quotidiani nazionali (pollice giù anche per i giornali in questo caso); c’è poi il fenomeno del momento e una sorta di evergreen del settore finanziario (peraltro con un libro il cui titolo è emblematico). L’elenco è solo esemplificativo e non esaustivo. Piccola nota: non cliccate e non compilate form nei link che ho messo

Una regola generale. Come avevamo scritto nel nostro articolo “Annunci di lavoro, offerte ingannevoli e avvertenze varie” (peraltro molto letto),  non si può e non si deve pagare per lavorare. Vale anche nel caso che la cosa non sia così diretta ma legata alla possibilità di entrare in un circolo, in un’associazione, far parte di un team e cose simili. Anche perché, a volte, il business è di tipo piramidale (tu compri qualcosa che ti serve per farlo vedere e poi rivenderlo a qualcun altro che poi a sua volta lo rivende a un’altra persona e così via, a costruire una piramide in cui al vertice arrivano percentuali di guadagno dalle attività degli altri).

Oltre il male, però, qualche volta c’è anche la cura, l’antidoto. Uno di questi, online, può essere il gruppo Facebook Fufflix  con il relativo sito web Fuffapedia dedicato alla condivisone di storie, esperienze e suggerimenti su questo mondo e queste “opportunità”. L’altro, forse più vicino e concreto, è l’Informagiovani di Ancona (o altri servizi come il nostro): chiunque si trovi davanti a un’offerta di lavoro, qualsiasi, può sempre chiederci un parere e un consiglio: è tutto gratis! 

 

 

La piramide si aggiorna

Chi non conosce la piramide di Maslow? Lo psicologo statunitense ipotizzò un modello motivazionale dello sviluppo umano basato su una gerarchia di bisogni, disposti a piramide appunto, in base alla quale la soddisfazione di quelli più elementari è condizione necessaria per fare emergere quelli di ordine superiore.
Pensiamo alle nostre abitudini di oggi e a quale sia il primo pensiero, o l’ultimo, della giornata: il cellulare è carico? Ho linea? Beh, non sarà così per tutti, ma per tanti è quasi diventata un’ossessione. Le attività quotidiane sono cadenzate da notifiche sonore o da emozionanti “vibrazioni” che ci dicono che qualcuno ci ha letto, ci ha scritto, ci ha dato un like o ci ha taggato. Sono certezze che si ricercano costantemente e che ci regalano una sorta di confortevole sensazione, ci raccontano che ci siamo e che siamo social-mente attivi.
Può capitare, in alcuni casi, di assumere addirittura identità virtuali parallele per compiere azioni, tenere atteggiamenti, usare parole molto distanti da ciò che siamo; forse proprio perché non abbiamo le energie di cambiare le cose, di trasformarci, di uscire dagli schemi convenzionali della reale vita sociale. Si tratta di un vero e proprio rifugio ideale che ci conforta e ci rilassa.
Ma poi, quale è la “vera” realtà? I nativi digitali, forse, considerano la rete il luogo in cui si vive realmente, in cui la socialità è viva e in cui si sviluppano idee, progetti e comunità. È un ambiente da abitare, un’estensione della mente umana, un mondo che si intreccia con il mondo reale determinando vere e proprie ristrutturazioni cognitive, emotive e sociali dell’esperienza.
La scelta del titolo di questo articolo è stata fatta proprio per questo, perché, per certi versi, le teorie sui bisogni dell’uomo, studiati e classificati da Maslow, sono un po’ messe in crisi; potremmo pensare che lo schema proposto dallo psicologo possa essere un po’ modificato e che alla base della piramide possa esserci la batteria o il wi-fi (ad esempio), prima dei bisogni elementari?
Leggiamola un po’ come una provocazione che ci aiuti a riflettere sul giusto atteggiamento che dovremmo avere nei confronti di un modo di vivere ormai influenzato dalla nuova tecnologia, che ci aiuta sì, che ci rende “smart” ma che ci può rendere anche un po’ schiavi se non ne abbiamo la giusta consapevolezza .
E allora basta leggere questo articolo, via, mettiamo in tasca lo smartphone, spegniamo il computer e andiamo a farci una passeggiata!

Crescere in digitale: opportunità per giovani e aziende

Nel mese di settembre riparte Crescere in digitale, il Progetto attuato da Unioncamere in partnership con Google e promosso da ANPAL, volto a promuovere, attraverso l’acquisizione di competenze digitali, l’occupabilità di giovani che non studiano e non lavorano (c.d. NEET) e investire sulle loro competenze per accompagnare le imprese nel mondo di Internet.

Crescere in Digitale offre ai ragazzi tra i 16 e i 29 anni (fuori da percorsi di studio e mondo del lavoro) iscritti al programma Garanzia Giovani corsi formativi, laboratori e tirocini aziendali retribuiti. I giovani saranno coinvolti in percorsi formativi per acquisire competenze digitali e in tirocini in cui affiancheranno gli imprenditori nello sviluppo della propria azienda su web.

I giovani potranno seguire un training on line di 50 ore, offerto da Google, sulle tematiche del web per il business, alla fine del quale dovranno sostenere un test volto a verificare le conoscenze acquisite e per il quale sarà rilasciata una certificazione.

I giovani che supereranno il test finale saranno convocati ai laboratori di formazione e di orientamento dove incontreranno le imprese del territorio. Durante questi laboratori i giovani sosterranno uno o più colloqui di lavoro con le imprese selezionate.

I laboratori prevedono delle sessioni di formazione di gruppo organizzate mensilmente presso le sedi provinciali delle Camere di Commercio delle Marche e volte a migliorare le conoscenze tecniche e relazionali e delle sessioni di formazione individuale, volte a favorire il matching fra giovane e impresa.

In caso di esito positivo dei colloqui, la Camera di Commercio attiverà tirocini formativi extracurricolari della durata di 6 mesi, rimborsati 500,00 euro al mese, con i fondi del Programma Garanzia Giovani.

Attraverso i tirocini, il giovane NEET potrà sperimentare le nozioni acquisite nel corso “Crescere in digitale” nel contesto operativo dell’impresa ospitante. Il tirocinante può supportare l’azienda nell’analisi della presenza on line, nell’implementazione e aggiornamento del posizionamento on line, nell’implementazione e aggiornamento della promozione on line, nell’analisi dei risultati e nell’utilizzo dei social media.

Le imprese potranno ospitare uno o più tirocinanti, senza dover coprire alcun costo di rimborso ai giovani. Per ogni tirocinante le uniche spese a carico dell’impresa saranno quelle legate al costo delle assicurazioni obbligatorie (INAIL e Responsabilità civile contro terzi).

Per iscriversi al progetto, i giovani NEET e le aziende dovranno collegarsi alla piattaforma crescere in digitale.

Nelle Marche i primi a iniziare con i laboratori di gruppo saranno i giovani della provincia di Ancona, il 25 settembre, e a seguire le altre province secondo il calendario stabilito dalla Camera di Commercio e consultabile a questo link.

A cosa serve la tecnologia?

Come utilizziamo la tecnologia che abbiamo a disposizione? Personalmente credo di abusarne. La cosa dipende dal fatto che sono appassionato di oggetti tecnologici e di come questi riescano a semplificare cose semplici. Ammetto però anche che non sempre è così. Qualche volta accade che sono affascinato dalle “magie” che un oggetto tecnologico riesce a fare: pagare avvicinando lo schermo dello smartphone, trovare un’automobile nelle vicinanze da utilizzare al volo (come è permesso dai servizi di car sharing nelle grandi città), misurare il benessere fisico attraverso un semplice braccialetto di gomma. Queste tecnologie a volte alternano l’utilità pratica alla spettacolarità con la quale la raggiungono e questo mi (ci, immagino) conquista!

La tecnologia serve a migliorarci la vita nella maggior parte dei casi, ma siccome è parecchio connessa con meccanismi di marketing a volte scivola nel lezioso. E quindi nel poco utile. La domanda “A cosa serve la tecnologia?” messa a titolo di questo post l’ho presa da un articolo apparso su The Atlantic e ripreso nel numero 1278 di Internazionale. Nell’articolo si paventa l’ipotesi che un giorno tutti avremo un microchip impiantato sottopelle perché questa è la “naturale” evoluzione di quello che sta accadendo. D’altra parte la tendenza a modificare, in maniera più o meno incisiva, il nostro corpo l’abbiamo sempre avuta: pacemaker, protesi, stimolatori interni e anche le semplici lenti a contatto sono tutti strumenti tecnologici con i quali abbiamo accettato di modificare il nostro corpo perché ci sembrava potesse essere utile (se non addirittura vitale). Finora la maggior parte delle persone non ha un microchip sottopelle perché ancora non ci sono sufficienti motivi di utilità per averlo. Ma se le aziende che li costruiscono li trovassero?

Forse non sarà un trucco delle aziende che li producono a farci accettare un livello di tecnologia ancora più invasivo di quanto non sia lo smartphone attuale, ma la nostra graduale routine che renderà familiari oggetti che ci sembrano alieni. Questi scenari futuristici (nemmeno troppo, stiamo parlando di tecnologie che sono in campo da quasi 20 anni) dovrebbero farci però riflettere anche sull’attuale utilizzo della tecnologia, anche quella che ci risulta più facile. Non possiamo più cambiare il fatto che per prenotare un aereo bastano pochi clic sull’applicazione della compagnia che abbiamo nello smartphone (e possiamo farlo in ogni istante!), però magari possiamo evitare di consultare il nostro amico digitale ogni volta che abbiamo una curiosità, un’incertezza, un’esitazione o semplicemente non sappiamo cosa fare. La domanda è: in questi momenti la tecnologia ci serve davvero a qualcosa? Stiamo rendendo la nostra vita quotidiana più semplice e, vorrei dire più felice, o magari siamo vittime di un automatismo inconsapevole? Nel secondo caso magari può essere utile provare a imporsi abitudini diverse: avere il microchip sottopelle è davvero molto più bello se nel frattempo avremo guadagnato in consapevolezza. Dal mio punto di vista la consapevolezza ci aiuta anche a utilizzare meglio gli strumenti che abbiamo, a trarne il maggior vantaggio e scegliere quelle che ci sono utili scartando quelle che non ci servono (con buona pace delle mode passeggere o delle tendenze).

ICDL o EIPASS: quale scegliere?

ICDL o EIPASS: quale scegliere?

ICDL ed EIPASS sono due certificazioni informatiche che dimostrano le proprie competenze digitali.

In una realtà, come quella attuale e come sarà sempre più quella futura, dove le tecnologie digitali sono sempre più diffuse e rendono tutto più veloce, non si può più prescindere dalle tecnologie digitali sia nella scuola che nel mondo del lavoro, dal saper usare in modo appropriato il PC, i dispositivi mobili e il web.

Molti credono di saperli usare ma in effetti hanno solo una conoscenza superficiale di ciò che veramente serve, come ha dimostrato ampiamente il periodo di pandemia COVID-19 che stiamo ancora vivendo.

Secondo gli studi effettuati dalla Commissione Europea, 9 posti di lavoro su 10 richiedono oggi competenze d’uso di queste tecnologie, almeno a livello basilare.

Certamente è possibile autocertificare la propria competenza digitale ma sicuramente riportare sul proprio curriculum vitae il possesso di certificazioni (siano esse informatiche, linguistiche, ecc.) ha sempre un certo valore aggiunto.

Quanto alle certificazioni informatiche, molti si chiedono quale sia meglio conseguire tra l’ICDL e l’EIPASS.

L’ICDL (International Certification of Digital Literacy), che ha sostituito la nota ECDL (European Computer Driving Licence), è un attestato che “certifica il possesso di competenze informatiche e digitali sino al raggiungimento della piena padronanza d’uso nonché dell’utilizzo consapevole e adeguato degli strumenti digitali e delle loro applicazioni.”

La certificazione ICDL ha carattere internazionale ed è disponibile in più di cento Paesi in tutto il mondo, non solo in Europa ma anche in America, Asia e Africa e viene erogata tramite una rete di oltre 20mila Test center.

Per conseguire l’ICDL si deve essere in possesso della “skills card“, che non ha scadenza, e sostenere un esame in uno dei test center accreditati da AICA (Associazione Italiana per l’Informatica e il Calcolo Automatico), membro dell’organismo internazionale ECDL Foundation, e garante per l’Italia del programma ICDL.

L’EIPASS (European Informatics Passport), ovvero Passaporto Europeo d’Informatica, è una certificazione che si può conseguire soltanto presso gli Ei-center accreditati e che è ufficialmente riconosciuta a livello europeo. Le competenze informatiche certificate con questo Passaporto possono essere utilizzate sia nel campo lavorativo che didattico.

Entrambe le certificazioni possono essere conseguite dagli studenti per aumentare i loro crediti formativi, da chi vuole accedere a concorsi pubblici, ma anche da docenti che vogliono incrementare la loro professionalità; infatti il MIUR, con il D.M. n. 59 del 26 giugno 2008 Prot. 10834, ha riconosciuto sia l’ECDL (ora ICDL) sia l’EIPASS come attestati di addestramento professionale.

Sia l’ICDL che l’EIPASS sono ufficialmente riconosciute dall’Unione Europea.

In conclusione, ICDL ed EIPASS sono certificazioni entrambe valide e quindi non resta che scegliere in base alle proprie esigenze.

 

(articolo aggiornato in data 28/06/2021)

Tecnologia attraente

La tecnologia, soprattutto quella digitale, sta giocando un ruolo da vera protagonista della nostra epoca ed è la cosa più attraente con cui abbiamo avuto a che fare negli ultimi anni. Credo che sia un dato che accomuna i presunti “millenials” e chi si è ritrovato ad averne a che fare in età già adulta: per i primi è un’attrazione quasi connaturata, per i secondi un fascino irresistibile accompagnato spesso dalla sorpresa relativa al confronto con il passato (la sensazione è quella del tipo “wow! niente più fila in banca per fare un bonifco!”).

Questa tesi, semplice e banale, è anche supportata da qualche dato. Per esempio quello sulle spese effettuate dagli italiani che sono quelli che spendono maggiormente in Europa per l’acquisto di device tecnologici: siamo i primi (almeno in questo) con una spesa che è doppia rispetto a quella di inglesi e francesi e supera di un terzo quella di spagnoli e tedeschi. Ora, la domanda che mi faccio è: ma tanto “affetto” è ricambiato? Il nostro amore per la tecnologia è corrisposto?

La tecnologia digitale in molti casi ci ha semplificato la vita, ci ha permesso di velocizzare molte attività e raggiungere distanze (anche in senso metaforico) a cui prima non potevamo arrivare. Da un certo punto di vista è stato come mettere il turbo, un’energica spinta alle nostre vite. Alla accelerazioni bisogna però essere preparati e noi non sempre lo siamo stati: siamo diventati un po’ più soli (che non è la solitudine classica, è più un modus vivendi molto autonomo, forse troppo), più distratti (e per questo meno informati nonostante la enorme disponibilità di notizie), più superficiali.

Forse talmente tanto che se ne è accorto anche uno che con la tecnologia è diventato miliardario: Mark Zuckerberg. La notizia di oggi è che, riporto i giornali, “Facebook ci vuole più felici”: Ora, io lo so che questo annuncio è una trovata pubblicitaria, una frase ad effetto (semplice) per garantire l’immagine di un’azienda che vuol dimostrare di avere e sentire una responsabilità sociale. Però se Facebook, siccome “gli utenti che sono attivi sui social network si sentono meglio al termine della loro esperienza online, rispetto a quelli che si limitano a osservare che cosa condividono gli altri“, decide che questa cosa va incoraggiata è perché il nostro livello di disattenzione (che poi è più che altro una certa incapacità di assorbire e comprendere i contenuti) è talmente elevato che rischia di incidere sull’efficacia del social network (e quindi sulla sua redditività). La questione, dal mio punto di vista, è che rischiamo di essere affascinati più dal come le cose accadono, che dalle cose che accadono e dal perché accadono. Del tipo: “che figo, dal mio smartphone posso vedere il video della bomba che esplode”. Ma quella è una bomba! Che esplode! Lo stesso meccanismo che avviene per la diffusione delle bufale (fake news): la velocità e l’enfasi (grande nemica di questi tempi a mio modo di vedere) con cui ci arrivano, bloccano le nostre capacità critiche, la possibilità che avremmo di ragionare prima di diventare noi stessi distributori di stupidaggini.

Non voglio dire che la colpa è della tecnologia, sarebbe talmente banale da essere sbagliato. Ma quell’attrazione che proviamo, ogni tanto, forse dovremmo metterla in discussione e capire se non possiamo diventare, soprattutto, un po’ più consapevoli.

(Photo by rawpixel.com on Unsplash)

futuro-lavoro

Lavoro autonomo: il futuro è laggiù?

Darwin docet: sopravvive solo chi si adatta meglio all’ambiente e ai suoi cambiamenti. Ovviamente, questo vale anche per il multiforme ecosistema del lavoro.

Al netto di quei mestieri che vanno scomparendo in quanto poco appetibili per le nuove generazioni (tra questi ci sono impieghi perlopiù artigianali, come quello di produttore di poltrone e divani, pellicciaio e falegname) ce ne sono molti altri che la tecnologia ha cancellato o modificato al punto da farli diventare irriconoscibili, e non tutti siamo pronti a quello che si sta prospettando sempre più chiaramente nel futuro. Una cosa è certa, soprattutto secondo il  World Economic Forum: il 65% dei bambini che frequentano oggi le scuole elementari svolgeranno lavori che oggi non esistono, alcuni dei quali non riusciamo nemmeno a prevederli.

Ma cos’è che si vede all’orizzonte? Poche ma fondamentali certezze.

Punto primo, già ampiamente dibattuto: il lavoro da dipendente a tempo indeterminato, quello alla Fantozzi fatto di cartellini e fughe da centometrista all’orario di uscita, sarà solo un ricordo per le nuove generazioni; il futuro ci vede come soggetti sempre più attivi e impegnati, più formati e qualificati, ma soprattutto sempre più competitivi. Sembra una prospettiva angosciante, ma in realtà ci viene chiesto solo di essere più consapevoli, in poche parole, meno dipendenti e più autonomi.

E una delle chiavi sembra stare proprio qui: il fatto che sempre più aziende preferiscano avvalersi, invece che dei classici dipendenti, di consulenti esterni, ha fatto sì che molte delle nuove professioni stiano fiorendo proprio nel contesto del lavoro autonomo, in alcuni ambiti più che in altri.
Uno su tutti è ovviamente quello del digitale: quasi superfluo nominarlo, in quanto può essere paragonato al cavallo che traina la carrozza del futuro e quindi del futuro del lavoro; l’infiltrazione sempre più importante della tecnologia nelle nostre vite e in quella delle imprese richiederà un numero sempre maggiore di figure in grado di gestire non solo “il mettere in rete” di un’azienda (dove per “mettere in rete” si intende una moltitudine di cose: dall’avvio di un e-commerce alla gestione efficace dei social, dalla creazione di materiale pubblicitario che sfrutti tutte le potenzialità dell’on-line allo spostare alcuni dei servizi in modalità cloud) ma anche il loro restarci in modo efficace, senza perdersi nell’insidioso oceano del web.
IT security manager, sviluppatore di app, community manager ed esperto di SEO saranno alcune delle figure lavorative più richieste e molte di queste lavoreranno in modo autonomo; al momento per voi sono parole che significano niente? Allora date un’ occhiata qui.

Il progresso tecnologico di questi decenni ha ovviamente “aggredito” tutti o quasi gli ambiti lavorativi, trascinandoli in quella che può essere tranquillamente definita come la quarta rivoluzione industriale; quindi è del tutto ovvio ritenere che la tendenza della sostituzione della tecnologia alla manodopera nei processi produttivi (e non solo) non farà che accrescersi, spazzando via entro pochissimi anni, ben 5 milioni di posti di lavoro tra le prime 15 economie del pianeta.

Di fianco ai nuovi mestieri che nascono nel grembo dell’ Information Tecnology e che volenti o nolenti, saranno tra i pochi a salvare le nuove generazioni dalla disoccupazione, cammina un altro modo di lavorare, che non si deve fare l’errore di pensare sia in contrasto con l’avanzata del digitale: quello dei mestieri artigianali, una nicchia di lavoro (quasi sempre autonomo, per l’appunto) in cui si possono esprimere competenze legate alla creatività e a un “saper fare” che molto difficilmente potranno essere sostituite dalle macchine. Pasticcere, falegname, meccanico, orafo, sono solo alcuni dei lavori di cui stiamo parlando e che spesso vengono messi in secondo piano soprattutto dai giovanissimi (o forse dalle loro famiglie?) credendo siano poco redditizi, mentre un altro dei segreti del lavoro del futuro è quello della nicchia di mercato e della specializzazione, caratteristiche che, nemmeno a dirlo, vanno molto d’accordo con il mestiere artigiano.

Se, oltre a ciò che abbiamo appena presentato, si unisce il fatto che il lavoro autonomo e/o imprenditoriale sta fra le prime scelte dei Millenials che vedono nel diventare imprenditori una delle soluzioni per affrontare il mondo del lavoro esprimendo le proprie competenze e specializzazioni (e titoli di studio), è facile provare a intuire che questo potrebbe essere il modo di lavorare del futuro.

Anche se accostare le parole lavoro e futuro, in questo periodo di transizione tra due modi quasi opposti di intendere il lavoro, getta addosso alle spalle una copertina di ansia, è importante tenere sempre in mente che quasi tutti abbiamo le potenzialità per rinnovarci e se necessario ricostruirci, sempre sfruttando e facendo tesoro del percorso che ci ha portato a sviluppare alcune abilità e caratteristiche.

Potreste cominciare, per esempio, scoprendo cosa offre il mondo della formazione!

 

 

Abitudini, comodità e marketing

Quanto la tecnologia possa aver cambiato il nostro modo di lavorare o fare acquisti è chiaro a tutti: gestiamo i nostri appuntamenti attraverso calendari e reminder del telefono, ordiniamo su internet una parte sempre più consistente delle cose che acquistiamo. La tecnologia digitale, da questo punto di vista ci ha aiuta a fare meglio di un tempo anche cose semplici. Ciò di cui ci accorgiamo con meno facilità sono le mutazioni che la tecnologia applica alle nostre abitudini, le azioni che compiamo ripetutamente e che facciamo non perché ogni volta analizziamo che quello sia il modo migliore di farlo o perché “istintivamente” facciamo così. Le abitudini ci aiutano a (non) fare scelte su questioni che ormai abbiamo valutato una volta per tutte, sono potenti perché creano dipendenza. Le abitudini possono essere difficili da contrastare e, qualche volta, anche da cambiare leggermente.

Chi lavora nel mondo digitale questa cosa la sa bene credo. Se ci abituiamo a utilizzare Facebook per rimanere aggiornati su ciò che accade attorno a noi, faremo fatica a privarcene; se ci abituiamo a camminare con lo sguardo fisso sullo smartphone, sarà poi difficile alzare gli occhi al cielo; se per comunicare utilizziamo WhatsApp anzichè fare una telefonata quello diventerà il nsotro principale modo di interagire con gli altri. Gradualmente con il tempo le abitudini cambieranno anche le nostre capacità: scommettiamo che tra qualche tempo aumenteranno i problemi di disgrafia (ammesso che continueremo ancora per molto a scrivere anche con penne e matite)? Per altri versi, e ahimè in maniera tragica, lo hanno già fatto: chattare mentre sei alla guida è davvero un comportamento che può avere conseguenze mortali.

Le abitudini non sono una cosa cattiva in assoluto, basti pensare alle buone abitudini come quelle di fare esercizio fisico, mangiare sano, leggere un libro. Le abitudini attecchiscono laddove trovano la nostra comodità: questa è la parola magica con la quale anche la tecnologia attuale riesce a cambiare molte delle nostre abitudini. Fare acquisti mentre siamo seduti sul divano è più comodo che andare in un negozio negli orari stabiliti in mezzo alla gente (e magari fare la coda in cassa o in auto). Ora la domanda è: come si fa ad indovinare quando una comodità può far innescare un’abitudine?

La risposta la conoscono bene aziende come Amazon o Google che hanno fatto della conoscenza delle nostre abitudini il loro core business. Eh già perché raccogliendo nel tempo (e nemmeno troppo) una serie di dati sui nostri comportamenti in rete (i famosi big data) ci conoscono ogni giorno di più e possono utilizzare il marketing, la scienza della persuasione, in una maniera molto più sofisticata (subdola direbbe qualcuno) di un tempo. Gli slogan di un tempo, sparati in TV e a grandi lettere sui giornali, hanno lasciato il campo al tracking, la registrazione dei nostri comportamenti minuto per minuto, di quello che accade nel mondo che viviamo metro per metro. Ecco allora che quando cerchiamo il prezzo più conveniente nei nostri e-commerce preferiti, comodi sul divano,  quello che troviamo è, e sarà sempre più spesso, il prezzo migliore per il nostro status di consumatori in quel momento e in quel luogo, non quello più basso in assoluto (sapete che ci sono negli Stati Uniti distributori automatici di bibite il cui prezzo cambia in base alla temperatura esterna?). Lo scambio implicito è: informazioni contro comodità e convenienza. Chi non accetterebbe?

Questione di opinioni

La tecnologia in generale e quella digitale in particolare ha un difetto (tra gli altri potrebbe dire qualcuno) che è anche un handicap per il suo sviluppo ulteriore (non è mai abbastanza!). Il difetto è questo: essere, tendenzialmente, ripetitiva e ciclica. Mi spiego meglio: le macchine apprendono attraverso un processo matematico, estremamente e rigidamente logico. Uno o zero, positivo o negativo, vero o falso, bianco o nero. E con questo principio poi apprendono tutto il resto (in maniera vertiginosamente veloce).

La questione è che non sempre, per noi umani, una sequenza vero/falso è “educativa”. Per intenderci non è detto che, per esempio, quando sbagliamo, vogliamo la volta successiva cambiare comportamento e viceversa. Faccio un esempio che aiuta anche a capire dove voglio arrivare. Se oggi compro un libro giallo non è detto che vorrò leggere libri gialli per il resto della mia vita solo perché il primo che ho letto mi è piaciuto. Potrei voler cambiare per una serie di motivi (o anche solo uno) che non dipendono dalla verifica logica della precedente esperienza. Anche voi adesso, come me, state pensando a quello che accade con i logaritmi di Amazon? 🙂

Ma la questione è valida anche quando navighiamo senza acquistare nulla, ma semplicemente stiamo leggendo i post sui social network o “googoliamo” alla ricerca di qualcosa che ci interessa. Dall’altra parte una macchina analizza il nostro comportamento cercando poi di prevedere o suggerirci il futuro. Se da una parte questo ci aiuta a trovare più facilmente quello che cerchiamo ed essere vicini agli “amici” che maggiormente apprezziamo, dall’altra limita un po’ troppo il nostro orizzonte. Questa costrizione è stata chiamata bolla: viviamo, cioè, all’interno di un contesto limitato dai logaritmi che studiano il nostro comportamento e che ci costringono sostanzialmente a trovare sempre e soltanto conferma alle nostre opinioni, a rafforzare le nostre convinzioni, inasprire i nostri pregiudizi.

Voi direte che, però, su Facebook è molto presente la polemica, la discussione aspra ed anche il forte contrasto; che, insomma, quella è una specie di piazza in cui ognuno può dire quello che vuole. In realtà però anche il contrasto di opinioni, se mal post, ci fa rimanere nella stessa bolla. “Studi psicologici hanno dimostrato che le persone manifestano un “pregiudizio di conferma”: significa che se hanno un’opinione su una certa tematica, questa loro convinzione sarà rafforzata dalle argomentazioni faziose provenienti da entrambe le parti del dibattitoscrive Tyler Cowen in un interessante articolo riportato da Il Post.

Come facciamo ad uscire da questa bolla? Nello stesso articolo Tyler propone una soluzione: “Bryan Caplan della George Mason University ha elaborato quello che chiama “il test di Turing ideologico”. Il test di Turing originale serve a verificare se le risposte date da un computer sono indistinguibili da quelle di un essere umano. L’obiettivo di un test di Turing ideologico è vedere se siete in grado di scrivere l’argomentazione di un sostenitore di Trump o Clinton, o comunque di un punto di vista contrario al vostro, in un modo che risulti indistinguibile da quello dei loro veri sostenitori.” E voi, sareste in grado si sostenere una posizione a voi contrario per mettere alla prova la vostra capacità critica?

sociale

Biglietto o abbonamento bus a portata di un click

Quante volte vi sarà capitato di non avere a disposizione l’auto e quindi dover prendere l’autobus ad Ancona e dintorni. Ma prima di partire, all’ultimo minuto, vi siete accorti di non aver acquistato il biglietto o aver finito il carnet comprato qualche tempo fa. Il tempo è poco non potete andare in edicola o tabaccheria, magari non avete i soldi in moneta per acquistare il biglietto una volta saliti sul bus.

Il rischio è di perdere l’autobus o viaggiare incorrendo in una salata multa (speriamo non scegliate l’opzione di viaggiare senza biglietto)!

Da qualche mese tutto questo è possibile evitarlo grazie a Conerobus che ha attivato un nuovo servizioInvia un sms e Sali a bordo”. 

Nell’era digitale per usufruire del servizio non è necessario neanche scaricare una App o iscriversi a un sito internet, basta inviare un SMS al numero 4880883 con testo “ATMA”, scritto sia in maiuscolo che in minuscolo. Dopo pochi istanti si riceve un SMS di risposta. Si sale sul bus facendo attenzione a conservare l’SMS che va esibito in fase di controllo. In tal modo si acquista un biglietto urbano al costo di 1,50€, importo scalato dal conto e/o credito telefonico, a cui si aggiunge sempre il costo dell’ SMS che varia a seconda del proprio operatore telefonico. Il biglietto ha validità 100 minuti dalla ricezione dell’SMS.

Se invece state pianificando il vostro tragitto e non vi è comodo andare in rivendita per acquistare il biglietto, potete ricorrere all’app “MyCicero” scaricabile gratuitamente.

È prevista la possibilità di cercare gli orari e le fermate vicine indicando un indirizzo di partenza e di arrivo. Dall’apposita sezione ‘Trasporto’ – ‘Biglietteria’, oppure direttamente dalla soluzione di viaggio scelta acquistate il biglietto.

Si paga contestualmente all’acquisto con Carta di Credito (circuiti Visa e Mastercard), con Bemoov, Satispay oppure utilizzando un borsellino ricaricabile.

Il biglietto acquistato viene scaricato all’interno dell’app nella sezione Trasporto e va obliterato prima di salire a bordo, premendo il bottone ‘Attiva’ nella app oppure inquadrando il Qrcode presente all’ingresso del bus o al suo interno.

Infine anche chi usufruisce dell’abbonamento può risparmiare tempo comprandolo on line. Infatti è possibile acquistare tutti i tipi di abbonamenti, ordinari e studenti, urbano ed extraurbano di durata da 30 giorni a 360 giorni, dal sito Conerobus.

Se sei uno studente nella procedura d’acquisto dovrai obbligatoriamente compilare anche l’autocertificazione on-line, condizione vincolante al buon fine della transazione. Se sei al tuo primo abbonamento puoi caricare i tuoi dati anagrafici e procedere all’acquisto. Riceverai a casa la tessera, alla quale dovrai inserire la tua foto, unitamente all’abbonamento.

L’abbonamento verrà spedito con posta prioritaria all’indirizzo da te indicato nella tessera entro sette gorni. Durante l’attesa è possibile utilizzare la ricevuta di pagamento on-line, spedita immediatamente all’indirizzo e-mail fornito.

Il pagamento avviene, esclusivamente, con carta di credito (VISA o MASTERCARD) e non sono previsti costi aggiuntivi, spese di spedizione sono a carico della Conerobus S.p.A. Per qualsiasi dubbio o disguido è possibile contattare la Conerobus.

Per viaggiare con serenità bastano veramente pochi click prima di avere a portata di mano un biglietto o abbonamento!

Carta d’identità elettronica, via la carta!

Nella vita quotidiana, molto più spesso del previsto, ci viene richiesta un’attestazione, un riconoscimento della nostra identità, pensiamo alle varie operazioni che ogni giorno svolgiamo: in banca, alle poste, per un acquisto con carta di credito, per viaggiare, ecc…

Il documento d’identità per eccellenza di cui si parla è la carta d’identità, poi esistono documenti di riconoscimento equipollenti come ad esempio: il passaporto e la patente di guida.

Ma che cos’è la carta d’identità? E’ un documento di identità, munito di fotografia, rilasciato dallo Stato tramite i Comuni, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, con la finalità di dimostrare l’identità personale del titolare.

Grazie al possesso della carta di identità la persona può circolare liberamente all’interno dello stato italiano e dei paesi membri dell’Unione europea e nei Paesi con cui lo stato italiano ha accordi, motivo per cui ogni persona è tenuta ad avere sempre con sé questo documento.

Dal luglio 2016 il Comune di Ancona ha avviato l’emissione della nuova Carta di Identità Elettronica (CIE) , infatti l’amministrazione è stata selezionata dal Ministero dell’interno, come ente di sperimentazione di questo procedimento.

La carta d’identità elettronica è l’evoluzione della cartacea, ha le dimensioni di una carta di credito, è realizzata in materiale plastico ed è dotata di sofisticati elementi di sicurezza e di un microchip che memorizza i dati del titolare.

La durata varia secondo le fasce d’età di appartenenza: 3 anni per i minori di età inferiore, 5 anni per i minori di età compresa tra i 3 e i 18 anni, 10 anni per i maggiorenni

A seguito della sperimentazione sono cambiate le modalità di emissione, vediamo in che modo.

Il cittadino deve recarsi nel Comune di residenza, all’ufficio Servizio Carta d’identità elettronica, munito di una sola foto-tessera, in formato cartaceo od elettronico, su un supporto USB e fornire i propri dati firmando un modulo di riepilogo degli stessi.

In caso di primo rilascio si deve esibire all’operatore Comunale un altro documento di identità in corso di validità. In caso di rinnovo o deterioramento del vecchio documento quest’ultimo deve essere consegnato all’operatore. Inoltre il cittadino ha la facoltà di fornire il consenso o il diniego o astenersi rispetto alla scelta della donazione degli organi. Ai maggiori di dodici anni vengono acquisite anche le impronte digitali.

Il documento viene spedito a domicilio dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, entro sei giorni lavorativi oppure può essere ritirato presso il Comune, ma non viene più rilasciato contestualmente al momento della richiesta.

La nuova CIE costa 22,21 euro, che vanno pagati allo sportello comunale prima di avviare la pratica di rilascio.

Chi è in possesso della carta d’identità cartacea non deve far nulla, i documenti rimangono validi fino alla loro naturale scadenza. Tutte le nuove emissioni sono elettroniche visto che garantiscono standard di sicurezza maggiori rispetto al documento utilizzato fino ad oggi.

Le competenze informatiche sono essenziali

Solitamente ormai si danno per scontate, ma le abilità nell’utilizzo del pc non sono un patrimonio comune. E, soprattutto, bisogna intendersi su che cosa significhi oggi sapere e potere utilizzare in maniera adeguata un computer. Se leggete questo post, quantomeno avete la padronanza minima della navigazione in internet e siete arrivati in qualche maniera a visualizzare queste righe. In Italia questa capacità non ce l’hanno tutti ed il problema non è tanto e solo di spendibilità nel mercato del lavoro ma anche di accesso alle opportunità. Significa che chi non sa utilizzare un computer non solo ha meno possibilità di trovare un lavoro dignitoso ma già oggi non è nella condizione di poter fare alcun lavoro.

Per dare un’idea un po’ più precisa di quello che accade oggi in Italia, riprendiamo da un articolo del giornale on line Linkiesta alcuni dati relativi alla diffusione di internet nel nostro Paese. Il dibattito italiano, solitamente, si ferma alla poca diffusione della banda larga nelle case degli italiani. Questa mancanza si porta dietro anche una serie di correlazioni e conseguenze, non ultima quella delle poche opportunità che ci sono di progredire in tema di diffusione della cultura informatica nella popolazione. In sostanza il pensiero è che siccome le infrastrutture esistenti sono poco sviluppate, ne consegue che sono poche anche le persone che le sanno utilizzare. Sicuramente questo è un dato veritiero, sostenuto anche da ricerche ed analisi di carattere scientifico. Per farci meglio capire, è come se dicessimo che in un dato luogo non ci va nessuno perché non c’è nessuna strada o collegamento che lo raggiunge.

Per l’informatica vale la pena però prendere in considerazione anche un altro fattore, se non altro per rifuggire da un atteggiamento attendista che è un po’ tipico italiano (della serie: non utilizzo il pc/web fintanto che non c’è una struttura adatta). In questo senso un dato che noi definiamo allarmante è quello che indica che a fronte di un aumento delle connessioni in banda larga di circa quaranta punti percentuali in meno di dieci anni, le abilità informatiche della popolazione italiana sono rimaste sostanzialmente al palo. Se è vero che il web veloce facilita l’accesso e l’utilizzo questo non dovrebbe accadere. Forse potrebbe essere utile un po’ di istruzione? Magari l’utilizzo e l’acquisizione di competenze informatiche cresce anche grazie a processi in cui si cerca di alfabetizzare le persone che dovranno utilizzarlo.

Sempre Linkiesta riporta che “l’implementazione di politiche per la diminuzione dell’analfabetismo informatico potrebbe essere una buona leva per far crescere il mercato delle vendite online, perlomeno in relazione all’Italia. Un Paese, forse vale la pena di ricordarlo, in cui il 39% della popolazione non ha mai navigato su internet. L’esempio da seguire, in quest’ambito, è quello dei paesi scandinavi”. Insomma sarebbe necessario tornare un po’ sui “banchi” o, meglio, sui PC di scuola per imparare ad utilizzare il computer. L’alfabetizzazione digitale, come viene chiamata, aiuterebbe non soltanto a far progredire il singolo, ma anche l’intera comunità in termini di ricchezza di opportunità, sviluppo di nuovi mercati, consapevolezza e cultura generale. Insomma, un vero progresso. Che stiamo aspettando?

 

Nel nostro piccolo, niente! Infatti certi che questa cosa fosse utile abbiamo fatto partire qualche tempo fa il minicorso “ABC per il PC” che in tre moduli insegna a chi proprio non ne sa nulla che cosa fa e a che cosa serve il computer. Ci piace dirlo: è stato un successone! Talmente elevato che abbiamo deciso di riaprire le iscrizioni. Se conoscete qualcuno che non saprebbe raggiungere questo articolo per leggerlo è il momento giusto per fargli un regalo: ditegli di iscriversi ad ABC per il PC, lo aspettiamo!

Farsi assumere da un algoritmo

“Non mi ha scelto perché gli stavo antipatico”. Questa frase, a volte un po’ assolutoria, viene da dirla quasi spontaneamente ogni volta che non superiamo un test di selezione, un esame o una qualunque prova nella quale dobbiamo confrontarci con qualcuno che deve giudicarci. Il rapporto personale, approfondito o superficiale, è un fattore spesso determinante per valutare e poi eventualmente scegliere una persona, Dalla prima impressione fino ad arrivare ad una relazione che dura da tempo, sono molte le sfaccettature con le quali le nostre emozioni interpretano i rapporti con gli altri. Il fenomeno è anche alla base della costruzione dei network, anche quelli che si fondano su relazioni digitali (social media in testa). Ma quanto possono e devono influire queste variabili nella scelta di un collaboratore, di un professionista?

Uno studio americano mette in dubbio, con un metodo scientifico, l’efficacia delle relazioni personali per individuare le figure professionali più adatte nei percorsi di selezione. In un articolo apparso su Internazionale di questa settimana infatti, si spiega come si è arrivati a questa ipotesi. In un percorso di selezione per profili medio/bassi sono stati utilizzati due modalità di scelta diverse: la prima basata sulla somministrazione di test analitici (fondati su un algoritmo di decifrazione), la seconda sulle osservazioni di un gruppo di selezionatori. Il risultato è stato che i candidati assunti tramite test hanno mantenuto il posto più a lungo di quelli assunti tramite un processo di selezione “umana”.

Questo vorrebbe forse dire che affidarsi ad un sistema di selezione totalmente scientifico è la soluzione migliore? E che quindi in futuro dovremmo imparare a farci assumere attraverso un algoritmo) In realtà non è proprio così. La selezione fatta secondo parametri scientifici porta in sostanza a definire gruppi di lavoratori uniformi, con lo stesso livello di competenze, la medesima gamma di interessi e via dicendo. Una omogeneità che, in realtà, non fa bene alle aziende che, per mantenere un posto nel mercato hanno capito che la soluzione è puntare sulla diversificazione, anche interna.

In definitiva le relazioni personali ci aiutano a definire (o a mettere insieme) un sistema complesso in grado di soddisfare esigenze diverse, a volte contrapposte. Non solo: il fattore emotivo è anche il valore aggiunto che entra in gioco in caso di imprevisti escogitando soluzioni originali. Un computer (un test, un algoritmo) sono in grado di individuare il migliore secondo un criterio scientifico e oggettivo: solo che non sempre è la soluzione migliore.

Quello che i social media non dicono

I social network servono a trovare lavoro? Se sì, quali piattaforme? E con quali risultati? Immaginiamo che le risposte a queste tre domande possano essere diverse in base alle esperienze avute nei primi contatti con il mondo del lavoro o con quello dei social network. Proviamo a rispondere anche noi. Si può trovare lavoro con un social media? La risposta è senz’altro affermativa. Ma, chiaramente, non è uno strumento diretto di assunzione. Avere un profilo su un social network significa esporsi, presentarsi, rendere pubblica una parte della nostra vita. Questo vale anche se settiamo in maniera restrittiva e vincolata i parametri della privacy. Il motivo è semplice: supponiamo che abbiate deciso di utilizzare Facebook solo per i vostri amici e al contempo siete in una fase della vostra vita in cui state cercando lavoro; come fate ad essere sicuri che nessuno dei vostri contatti intimi e stretti non possa essere il punto di collegamento con una opportunità di lavoro? Non potete esserlo ed è per questo che il solo fatto di iscriversi ad un social network è già un primo, piccolo, passo della vostra presentazione professionale.

Quali piattaforme di social networking sono adatte per la ricerca? Al momento, in Italia, c’è una piattaforma che più di altre è dedicata ai contatti professionali, Linkedin. Ma questo non vuol dire che possiamo e dobbiamo utilizzare solo quella quando siamo alla ricerca di opportunità professionali. Come detto poco sopra anche un social network generalista come Facebook può essere una importante vetrina per le nostre competenze. Quello che dobbiamo fare è imparare a considerare la nostra presenza on line anche in termini di visibilità, promozione di noi stessi, reputazione, affidabilità e considerazione da parte di un pubblico selezionato. Per questo motivo i social non possono, a nostro modo di vedere, soltanto essere un posto per il “cazzeggio”. Perlomeno abbiamo visto che utilizzarli anche per comunicare temi professionali può essere importante così come trascurare questo aspetto può essere dannoso e controproducente.

Questo significa (terza domanda) che i risultati possono essere buoni ma anche irrimediabilmente cattivi? In un articolo di Wired comparso qualche tempo fa veniva riportata l’ultima ricerca di Adecco insieme all’università Cattolica di Milano battezzata Work trends study. La sostanza? Il 35% dei recruiter (selezioantori) intervistati per il mercato italiano, circa 143, ha ammesso “di aver escluso potenziali candidati dalla selezione in seguito alla pubblicazione di contenuti o foto improprie sui profili social”. Capito? Nell’articolo, per essere chiari, si ribadisce anche che  “la web reputationnon è un giochino per fissati del web né un campo riservato ai brand o a una manciata di personaggi popolari: è l’altro lato della nostra presenza pubblica. Che potrebbe anche riservarci sgraditissime sorprese. Anzi, neanche quelle visto che non sapremo mai perché quella e-mail o quella telefonata non sono  arrivate“.

Per concludere, il nostro consiglio è abbastanza semplice. Attivate un profilo su di un social network, studiatene funzionalità e impostazioni nella maniera più precisa possibile, datevi una strategia per il suo utilizzo e, ogni volta che pubblicate qualcosa pensate: chi potrebbe leggere quello che sto scrivendo e come potrebbe interpretarlo?

La parola dell’anno non è una parola

Ogni anno l’Oxford Dictionary sceglie una parola simbolo: un termine, un lemma, un’espressione che sintetizzi in qualche modo quel che si è detto e scritto durante i mesi precedenti. Chiaramente le fonti sono giornali, media e, più che mai, il web con tutto il suo contorno. La notizia è che per il 2015 la parola scelta non è una parola. Oxford ha scelto di rappresentare il 2015 con un emoji (emoticon), in particolare con al faccina che ride.

Probabilmente la scelta è dovuta soprattutto all’utilizzo massiccio e alla diffusione capillare di servizi di chat (WhatsApp e simili) che hanno dato il via libera alla messaggistica istantanea e veloce. Così noi utenti abbiamo in qualche maniera approfittato. Quante volte vi è capitato di esprimere con una faccina un pensiero anziché articolarlo con una o più parole? E quante faccine (simboli, pupetti, oggettini più o meno simpatici) ricevete sul vostro smartphone? Probabilmente frequentando le chat, se vi metteste a contarle supererebbero le parole. Forse però esagerare in questo senso non ci fa bene.

Non che sia una malattia, però l’utilizzo delle faccine ci permette di utilizzare una scorciatoia: non ci mettiamo a pensare a quali parole utilizzare, a come potremmo dirlo meglio o in maniera più efficace, a riflettere sulla sensazione che certi vocaboli possono suscitare. La faccina è veloce, sbrigativa, semplificatrice. A volte anche trattabile, che forse è la cosa che qualche volta ce la fa scegliere per evitare complicazioni. Così facendo però corriamo il rischio di non soffermarci sulle discussioni, di tralasciare i particolari, di non approfondire le relazioni. Le faccine non tolgono spazio alle parole ma anche alle nostre emozioni: riassunto in una pallina gialla che ride o che piange, uguale per tutti e in ogni occasione quello che proviamo rimane nel nostro cuore e nel nostro cervello soltanto un istante e non abbiamo tempo per rielaborarlo nè per capirlo. Accade che un po’ tutto ci sfugge. Lo scrive meglio di noi Paolo Iabichino in questo post su Medium: “Non è facile affidare alle parole un’emozione. Scrivere “sono felice”, “mi fai piangere dal ridere”, “mi fai incazzare, sai?”, “sono preoccupato”. Non è la stessa cosa che affidarsi a un comando breve per dirlo con una faccina.

Se vogliamo tralasciare la parte emotiva della faccenda c’è anche un’altra questione: siamo proprio sicuri che il comunicare per emoji sia davvero universalmente comprensibile? Immaginiamo di dover raccontare quello che sappiamo fare o, meglio, la nostra idea sulla professione che svolgiamo o che vogliamo fare attraverso le faccine? Avrebbe lo stesso effetto su chi ci ascolta? Sarebbe davvero un modo affascinante di attirare l’attenzione, magari in un ambito professionale? Anche se qualche volta non ce ne rendiamo conto, diamo forma a ciò che siamo anche attraverso il nostro scrivere. Proviamo a prenderci del tempo per farlo, affinché possiamo recuperare familiarità con l’ascolto di ciò che proviamo.

Creduloni!

La rete (internet) è sicuramente una trovata fantastica per le mille opportunità che è in grado di offrire. Nasconde però anche qualche trappola e qualche inganno a cui bisogna fare attenzione. Forse un aspetto negativo tra i più diffusi è quello legato alla diffusione di notizie false che oggi, grazie ai social media, riescono a raggiungere dimensioni e ampiezza di “contagio” molto ampli. Ne è un esempio il post diventato virale di qualche giorno fa su Facebook secondo il quale la nota casa automobilistica Volkswagen regalava auto: scritto qui così è fin troppo evidente che suona come una vera bufala, ma su Facebook a condividere la notizia (seriamente, senza quindi battute o commenti che facessero intuire ironia) sono stati molti (troppi, a nostro giudizio).

Sarebbe troppo facile liquidare la faccenda con una generica accusa alle nuove tecnologie o, ancor peggio, con il deprecabile adagio “si stava meglio quando si stava peggio”. La realtà è che la questione dell’informazione e dell’informazione corretta, veritiera e affidabile coinvolge diversi aspetti della persona e non solo il suo rapporto con la tecnologia (che comunque rappresenta una leva importante).

C’è per esempio un giornalista del Washington Post che cura una rubrica settimanale nella quale ogni volta smaschera una bufala portando a conoscenza del pubblico, con l’evidenza dei fatti, le bugie raccontate attraverso la rete. In un recente post ha però raccontato la sua delusione: le persone che credono in una notizia flsa non cambiano idea davanti all’evidenza dei fatti.

Lo ha spiegato anche, con un’apposita ricerca, uno studioso di scienze computazionali di Lucca (Walter Quattrociocchi), che spiega”contesti come Facebook permettono alle persone di modellare quello che leggono in base ai loro gusti. Quelle persone sono quindi sempre più esposte a notizie che – scrivono i ricercatori – sono «allineate con quello in cui credono». Quattrociocchi prova anche ad andare alla radice del problema e spiega: “Se si prendono le bufale e si cerca di smontarle, si vede che sono fatte da un misto di errori, analfabetismo funzionale e sfiducia nelle istituzioni: non proprio problemi facilmente risolvibili.”

Quindi per tornare all’inizio la risposta alla domanda “perché crediamo alle bufale?”, la risposta non è da cercare tanto negli strumenti che utilizziamo per informarci ma quanto nella modalità con cui li utilizziamo, nell’educazione che (non) abbiamo ricevuto per utilizzarli e nella capacità critica che (non) abbiamo più sviluppato. La cosa strana è che internet, i social media e tutto il mondo che gira nella rete sono una grande opportunità per colmare questi gap: basterebbe saperli utilizzare meglio.

Il tuo lavoro è sicuro?

Già in altre occasioni abbiamo parlato di come e quanto le tecnologie possono aver modificato la nostra vita lavorativa. Non si tratta solo di avere oggi la possibilità di utilizzare il computer per scrivere e trattare documenti che ci riguardano in maniera più snella e veloce.  L’avvento dell’ICT (information and communication technology) nella nostra vita quotidiana ha cambiato radicalmente e per sempre non solo le nostre abitudini ma anche il nostro modo di pensare. Molto probabilmente, per esempio, molti di noi farebbero fatica a immaginare di vivere senza internet (alcuni, forse, farebbero fatica anche a rimanere senza per un giorno). Non si tratta di un vizio o di una pessima abitudine ma semplicemente di un mondo che è cambiato anche epr cose molto operative e utili: comprare un viaggio, fare un’operazione bancaria, trasmettere un documento di lavoro, informarsi per fare qualche esempio generico.

In alcuni casi, come nel settore del lavoro, internet e l’automazione offerta dai computer ha creato qualche paura. La domanda o, meglio, l’istanza più frequente in tal senso è: l’informatica di ruba o ci toglie il lavoro? Vengono alla mente le catene di montaggio (l’industria automobilistica Tesla non ha operai in catena) oppure le spedizioni delle lettere (mail e posta certificata stanno “mangiando” terreno ai portalettere). E il vostro lavoro, attuale o prossimo,  è sicuro? Oppure siete tra le figure che verranno messe a repentaglio dalle tecnologie?

La domanda corretta però è un’altra: quanto utilizziamo le tecnologie e quanto ne siamo utilizzati? Perché la paura, come sempre accade, è spesso figlia dell’ignoranza e della disinformazione. Così, anche su questo versante, conoscere aiuta a prevenire. Si può partire anche da piccole cose che sono già un segnale di quanto e come siamo nel giusto mood con la tecnologia. Per esempio, tra di voi chi sta cercando lavoro e utilizza i social network per promuovere le proprie competenze? Chi ha un profilo Linkedin aggiornato’ Chi invece non sa nemmeno che cosa sia Linkedin? Quanto conoscete le opportunità offerte dalle nuove tecnologie? Se impariamo ad utilizzare questi semplici strumenti significa che stiamo già facendo un passo nella direzione della scoperta anziché in quella chiusura al cambiamento.

Se volete una risposta alla domanda del titolo “il tuo lavoro è sicuro?” potete anche fare la prova utilizzando questo simpatico strumento messo a disposizione dalla BBC (riferito al mercato inglese). Chiaramente è solo un test anche se corredato da dati e statistiche. Se invece volete curarvi della prevenzione della vostra carriera professionale proviamo a darvi un consiglio: a essere messi in discussione saranno i lavori ripetitivi per i quali il contributo umano è scarso o nullo. Basta quindi dedicarsi a una professione per la quale non è richiesta solo routine e automatismi ma anche un po’ di creatività, intelligenza, spirito di iniziativa. Tutte cose che si possono imparare, studiando 🙂

Coding

Coding (ovvero la logica si impara da piccoli)

Sabato prossimo, il 7 novembre, ospitiamo il terzo appuntamento ad Ancona di Coderdojo, organizzato in collaborazione con l’associazione CoderDojo Ancona. Che cosa è un Coderdojo ve lo abbiamo spiegato già in un post di qualche tempo fa. Oggi vorremmo spiegarvi perché, secondo noi, è così importante. Ed anche così poco legato solo all’informatica.

Occuparsi di programmazione significa avere a che fare con cifre, numeri, matematica: tutti d’accordo? Ok. E poi: chi sa destreggiarsi meglio con le parole e le materie umanistiche è decisamente negato per una materia così scientifica come l’informatica: giusto? Non troppo. La matematica e l’informatica vanno sicuramente a braccetto ma ciò che le lega non è un’approfondita conoscenza di numeri, quanto una assoluta aderenza a un metodo, a un modo di procedere. E questo modo di procedere si chiama logica. La logica non è materia esclusiva di matematici, fisici e quanti altri hanno fatto degli studi algebrici la loro priorità. La logica può appartenere a tutti. lo racconta bene una giornalista americana il cui racconto è stato ripreso qualche tempo fa dalla rivista Internazionale.

Victoria Fine, questo il nome della giornalista, si era convinta che per stare al passo coi tempi era necessario per lei imparare bene l’informatica: per usare la meglio le nuove tecnologie, aprire un sito web, districarsi tra gli strumenti di diffusione on line dei contenuti che produceva (articoli, post, dossier). Ma Victoria era assolutamente spaventata dalla matematica, materia che fin dalla tenera età non riusciva a digerire. Quello che non sapeva era che la matematica non le sarebbe servita più di tanto. Imparate alcune regole fondamentali della programmazione, il resto è stata una questione di metodo che seguiva sostanzialmente due principi. Il primo: vedere quello che facevano altri e tentare di imitarli; non solo altri studenti di un corso a cui era iscritta, ama anche altri programmatori che postavano cose su internet (facilmente reperibili attraverso Google). Il secondo: non era questione di numeri e di parole; l’HTML (un codice di programmazione) è. come dice la parola stessa, un linguaggio di programmazione. Per questo impararlo è più una questione legata alla nostra capacità di imparare una lingua diversa, piuttosto che a quella di avere abilità con i numeri.

Certo, funziona per un livello base ma la cosa bella è anche che quello base può essere il primo di una serie di gradini che piano piano possiamo scalare imparando dagli errori che si fanno nella codificazione informatica. L’informatica è, sostanzialmente, imparare facendo.  Dice Victoria:”imparare a programmare non ha fatto di me una programmatrice, ma ha cambiato il mio atteggiamento quando devo imparare cose nuove“. In questa conclusione della giornalista americana c’è l’essenza del coding e anche del Coderdojo: l’obiettivo non è diventare prigrammatori informatici, ma cominciare ausare la testa, la logica. E magari lo facessimo tutti!