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Privacy sì o privacy no?

“Autorizzo il trattamento dei dati…”: questo è l’inizio di una frase che avremo letto (senza farci attenzione) un sacco di volte. E, se stiamo cercando lavoro, l’avremo anche scritta un sacco di volte. O, meglio, copiata e incollata nel nostro cv ogni volta.
Da qualche tempo (perdonateci ma non sapremmo dire al momento, nel groviglio di commi e articoli di legge, quando di preciso) questa formula non è più necessaria. Anzi, a dire (e scrivere) la verità (quella perlomeno che abbiamo capito noi) potrebbe essere anche “fuori legge” inserire la formula nel cv che inviamo.

Il presupposto è che l’attuale normativa sulla privacy (quella che legislatore e principali media, per allenare le nostre capacità linguistiche, hanno chiamato GDPR) impone a chi riceve i nostri dati, e non a noi che li mandiamo, il rispetto di certe procedure. Come a dire: caro candidato, mandalo pure il tuo cv, è chi lo riceve che deve preoccuparsi di farti sapere come utilizzerà i dati che ci sono contenuti.

Questo accade sia nel caso in cui stiamo mandando il cv per autocandidarci (cioè, non abbiamo letto alcun annuncio, ma proviamo a farci prendere in considerazione sfoggiando le nostre competenze ben scritte sul curriculum), sia nel caso in cui stiamo rispondendo a un annuncio.

Che poi, in questo secondo caso, i più attenti si saranno accorti che già da un po’ di tempo, i portali in cui carichiamo i nostri dati sono muniti di una propria dicitura per il trattamento dei dati (i disclaimer che facciamo finta di leggere prima di cliccare sul quadratino con il consenso).

Questa la situazione. Nella teoria. Dovrebbe coincidere anche con la pratica, ma in questi casi, da queste parti, è sempre meglio anche dimostrare di conoscere bene l’ambiente. E l’ambiente in molti casi è fatto di piccole realtà imprenditoriali, datori di lavoro che non sempre sono così aggiornati su questioni che, diciamolo, non attengono e non influiscono sul loro business. Per cui può capitare che sono rimasti fermi alla necessità che nel cv ci sia la dicitura sulla privacy e vi potrebbero chiedere il perché della sua assenza? E, siate sinceri, vorreste davvero trovarvi nella situazione di dare una lezione di diritto a qualcuno che vi ha appena preso in considerazione per farvi (forse) lavorare? Oggettivamente ne sareste sicuramente titolati, ma strategicamente sarebbe una pessima idea.

Per cui il nostro consiglio è questo: focalizzate l’attenzione su chi è il destinatario del vostro cv e poi decidete. Tendenzialmente se si tratta di una realtà medio grande saranno aggiornati e la dicitura potete saltarla. Per realtà più piccole inseritela e assecondate quella che per molti è una prassi, almeno per qualche mese ancora. In ogni caso nessuna ansia: per fortuna (o purtroppo) non sarà questo a determinare la conquista del vostro lavoro.

PS: per chi è appassionat* di legge, curios* o interessat* ai dettagli, in questo post ci sono tutti i particolari

Ora che sai tutto di me, dimenticami!

dimenticamiC’è una questione legata al nostro modo di vivere nell’era digitale: la questione si chiama privacy. Senza che ce ne accorgiamo (forse) stiamo mano a mano, con il passare del tempo, regalando pezzetti della nostra vita e importanti informazioni su di noi ad aziende più o meno grandi. La leva con la quale siamo così disponibili a concedere informazioni che ci riguardano sono servizi che noi possiamo utilizzare; solitamente sono servizi gratuiti che un tempo nemmeno ci saremmo immaginati che qualcuno potesse concederci. Nell’era digitale a spiarci o a cercare di fare soldi con le nostre informazioni sono anche le smart TV, o le automobili futuristiche; in futuro ogni dispositivo avrà infatti la capacità di ascoltare le nostre conversazioni e fare ricerca dati in tempo reale. La privacy, che un tempo era un diritto, ora non è più nemmeno una buona condotta.

Ma che cos’è la privacy e a che cosa ci serve? La definizione che riteniamo maggiormente descrittiva è quella che deriva un saggio molto studiato scritto da Warren e Brandeis per la Harvard Law Review nel 1890. Il saggio si concentrava sui difetti dei media di allora (pieni di gossip, pettegolezzi e “fotografie di persone comuni pubblicate senza autorizzazione”) e cercava di porre rimedio a quei problemi definendo la privacy “il diritto ad essere lasciati in pace”. Praticamente l’esatto contrario di una normale condotta odierna: grazie (o a causa) dei social media praticamente oggi (quasi) tutti noi abbiamo una foto che ci ritrae in un momento personale (non necessariamente intimo) e che può essere visibile a persone che nemmeno consociamo (anche se abbiamo settato in maniera restrittiva le nostre impostazioni sulla privacy, appunto). La differenza oggi è che invece di volere essere “lasciati in pace”, oggi vogliamo sentirci parte di una comunità. I nostri dati non vengono utilizzati soltanto e banalmente per conoscere delle cose su di noi e utilizzarle nel momento più opportuno. In maniera più pervasiva, contorta e decisamente complessa il set di informazioni di ciascun individuo che utilizza strumenti digitali è alla base di un intero business, di una grande fetta dell’economia.

Il fatto è che la privacy, come l’ingrediente segreto di una ricetta di successo, è una cosa che va dosata con una certa maestria e nel modo migliore per avere il giusto mix di benefici e rispetto personale. Così come essere molto flessibili e dimenticarsi della privacy può avere effetti eccessivamente invasivi sulla nostra vita, allo stesso modo c’è da considerare che dando eccessiva importanza alla privacy, la società finisce per tendere verso l’estremo della segretezza, cosa che non porta vantaggio a nessuno. E, soprattutto, è un fatto storico che una società poco aperta si sviluppa di meno e peggio. Facciamo un esempio: la raccolta dati relativa al tema della salute può servire a raggiungere grandi risultati in termini di ricerca e possibilità di guarigione e prevenzione. Ora la domanda è: stiamo andando verso un’epoca nella quale la privacy non avrà più alcuna importanza come è accaduto per alcune norme comportamentali del MedioEvo che oggi risultano impraticabili? In un futuro magari non troppo lontano ma nemmeno dietro l’angolo potrebbe essere così.

Ma c’è anche chi sostiene il contrario e si fa sentire. “Una recente decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che alcuni utenti possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere risultati relativi a query che includono il loro nome, qualora tali risultati siano inadeguati, irrilevanti o non più rilevanti, o eccessivi in relazione agli scopi per cui sono stati pubblicati.” Recita così un documento di Google (forse l’azienda che ha il possesso del più alto contenuto di informazioni al mondo) messo on line qualche tempo fa. E da lì le richieste sono partite: un flusso anomalo di istanze, quasi sette al minuto, che ha avuto inizio il giorno in cui Google ha messo in rete il modulo corrispondente. È possibile ipotizzare che molti utenti, per interesse reale o per semplice curiosità, abbiano cominciato a “googlare” il proprio nome alla ricerca di qualsiasi link o contenuto che li riguardasse e che, stando sempre ai numeri diffusi dalla società, qualcuno di loro abbia ritenuto necessario compilare il modulo. Più di qualcuno in effetti, perché soltanto il primo giorno il form è stato compilato da 12mila persone.

Anche se la cosa più facile da dire è che siamo dalla parte della privacy, in realtà poi se il tema non è portato sotto la nostra attenzione siamo più che disponibili a cedere pezzi importanti di informazioni che ci riguardano, senza nemmeno accorgerci (per esempio semplicemente utilizzando in maniera banale e quotidiana uno smartphone). Sarebbe però importante avere sempre la consapevolezza di quello che stiamo facendo e di quanto stiamo pagando (in termini di dati) quello che otteniamo.