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ICDL o EIPASS: quale scegliere?

ICDL o EIPASS: quale scegliere?

ICDL ed EIPASS sono due certificazioni informatiche che dimostrano le proprie competenze digitali.

In una realtà, come quella attuale e come sarà sempre più quella futura, dove le tecnologie digitali sono sempre più diffuse e rendono tutto più veloce, non si può più prescindere dalle tecnologie digitali sia nella scuola che nel mondo del lavoro, dal saper usare in modo appropriato il PC, i dispositivi mobili e il web.

Molti credono di saperli usare ma in effetti hanno solo una conoscenza superficiale di ciò che veramente serve, come ha dimostrato ampiamente il periodo di pandemia COVID-19 che stiamo ancora vivendo.

Secondo gli studi effettuati dalla Commissione Europea, 9 posti di lavoro su 10 richiedono oggi competenze d’uso di queste tecnologie, almeno a livello basilare.

Certamente è possibile autocertificare la propria competenza digitale ma sicuramente riportare sul proprio curriculum vitae il possesso di certificazioni (siano esse informatiche, linguistiche, ecc.) ha sempre un certo valore aggiunto.

Quanto alle certificazioni informatiche, molti si chiedono quale sia meglio conseguire tra l’ICDL e l’EIPASS.

L’ICDL (International Certification of Digital Literacy), che ha sostituito la nota ECDL (European Computer Driving Licence), è un attestato che “certifica il possesso di competenze informatiche e digitali sino al raggiungimento della piena padronanza d’uso nonché dell’utilizzo consapevole e adeguato degli strumenti digitali e delle loro applicazioni.”

La certificazione ICDL ha carattere internazionale ed è disponibile in più di cento Paesi in tutto il mondo, non solo in Europa ma anche in America, Asia e Africa e viene erogata tramite una rete di oltre 20mila Test center.

Per conseguire l’ICDL si deve essere in possesso della “skills card“, che non ha scadenza, e sostenere un esame in uno dei test center accreditati da AICA (Associazione Italiana per l’Informatica e il Calcolo Automatico), membro dell’organismo internazionale ECDL Foundation, e garante per l’Italia del programma ICDL.

L’EIPASS (European Informatics Passport), ovvero Passaporto Europeo d’Informatica, è una certificazione che si può conseguire soltanto presso gli Ei-center accreditati e che è ufficialmente riconosciuta a livello europeo. Le competenze informatiche certificate con questo Passaporto possono essere utilizzate sia nel campo lavorativo che didattico.

Entrambe le certificazioni possono essere conseguite dagli studenti per aumentare i loro crediti formativi, da chi vuole accedere a concorsi pubblici, ma anche da docenti che vogliono incrementare la loro professionalità; infatti il MIUR, con il D.M. n. 59 del 26 giugno 2008 Prot. 10834, ha riconosciuto sia l’ECDL (ora ICDL) sia l’EIPASS come attestati di addestramento professionale.

Sia l’ICDL che l’EIPASS sono ufficialmente riconosciute dall’Unione Europea.

In conclusione, ICDL ed EIPASS sono certificazioni entrambe valide e quindi non resta che scegliere in base alle proprie esigenze.

 

(articolo aggiornato in data 28/06/2021)

Le competenze informatiche sono essenziali

Solitamente ormai si danno per scontate, ma le abilità nell’utilizzo del pc non sono un patrimonio comune. E, soprattutto, bisogna intendersi su che cosa significhi oggi sapere e potere utilizzare in maniera adeguata un computer. Se leggete questo post, quantomeno avete la padronanza minima della navigazione in internet e siete arrivati in qualche maniera a visualizzare queste righe. In Italia questa capacità non ce l’hanno tutti ed il problema non è tanto e solo di spendibilità nel mercato del lavoro ma anche di accesso alle opportunità. Significa che chi non sa utilizzare un computer non solo ha meno possibilità di trovare un lavoro dignitoso ma già oggi non è nella condizione di poter fare alcun lavoro.

Per dare un’idea un po’ più precisa di quello che accade oggi in Italia, riprendiamo da un articolo del giornale on line Linkiesta alcuni dati relativi alla diffusione di internet nel nostro Paese. Il dibattito italiano, solitamente, si ferma alla poca diffusione della banda larga nelle case degli italiani. Questa mancanza si porta dietro anche una serie di correlazioni e conseguenze, non ultima quella delle poche opportunità che ci sono di progredire in tema di diffusione della cultura informatica nella popolazione. In sostanza il pensiero è che siccome le infrastrutture esistenti sono poco sviluppate, ne consegue che sono poche anche le persone che le sanno utilizzare. Sicuramente questo è un dato veritiero, sostenuto anche da ricerche ed analisi di carattere scientifico. Per farci meglio capire, è come se dicessimo che in un dato luogo non ci va nessuno perché non c’è nessuna strada o collegamento che lo raggiunge.

Per l’informatica vale la pena però prendere in considerazione anche un altro fattore, se non altro per rifuggire da un atteggiamento attendista che è un po’ tipico italiano (della serie: non utilizzo il pc/web fintanto che non c’è una struttura adatta). In questo senso un dato che noi definiamo allarmante è quello che indica che a fronte di un aumento delle connessioni in banda larga di circa quaranta punti percentuali in meno di dieci anni, le abilità informatiche della popolazione italiana sono rimaste sostanzialmente al palo. Se è vero che il web veloce facilita l’accesso e l’utilizzo questo non dovrebbe accadere. Forse potrebbe essere utile un po’ di istruzione? Magari l’utilizzo e l’acquisizione di competenze informatiche cresce anche grazie a processi in cui si cerca di alfabetizzare le persone che dovranno utilizzarlo.

Sempre Linkiesta riporta che “l’implementazione di politiche per la diminuzione dell’analfabetismo informatico potrebbe essere una buona leva per far crescere il mercato delle vendite online, perlomeno in relazione all’Italia. Un Paese, forse vale la pena di ricordarlo, in cui il 39% della popolazione non ha mai navigato su internet. L’esempio da seguire, in quest’ambito, è quello dei paesi scandinavi”. Insomma sarebbe necessario tornare un po’ sui “banchi” o, meglio, sui PC di scuola per imparare ad utilizzare il computer. L’alfabetizzazione digitale, come viene chiamata, aiuterebbe non soltanto a far progredire il singolo, ma anche l’intera comunità in termini di ricchezza di opportunità, sviluppo di nuovi mercati, consapevolezza e cultura generale. Insomma, un vero progresso. Che stiamo aspettando?

 

Nel nostro piccolo, niente! Infatti certi che questa cosa fosse utile abbiamo fatto partire qualche tempo fa il minicorso “ABC per il PC” che in tre moduli insegna a chi proprio non ne sa nulla che cosa fa e a che cosa serve il computer. Ci piace dirlo: è stato un successone! Talmente elevato che abbiamo deciso di riaprire le iscrizioni. Se conoscete qualcuno che non saprebbe raggiungere questo articolo per leggerlo è il momento giusto per fargli un regalo: ditegli di iscriversi ad ABC per il PC, lo aspettiamo!

Coding

Coding (ovvero la logica si impara da piccoli)

Sabato prossimo, il 7 novembre, ospitiamo il terzo appuntamento ad Ancona di Coderdojo, organizzato in collaborazione con l’associazione CoderDojo Ancona. Che cosa è un Coderdojo ve lo abbiamo spiegato già in un post di qualche tempo fa. Oggi vorremmo spiegarvi perché, secondo noi, è così importante. Ed anche così poco legato solo all’informatica.

Occuparsi di programmazione significa avere a che fare con cifre, numeri, matematica: tutti d’accordo? Ok. E poi: chi sa destreggiarsi meglio con le parole e le materie umanistiche è decisamente negato per una materia così scientifica come l’informatica: giusto? Non troppo. La matematica e l’informatica vanno sicuramente a braccetto ma ciò che le lega non è un’approfondita conoscenza di numeri, quanto una assoluta aderenza a un metodo, a un modo di procedere. E questo modo di procedere si chiama logica. La logica non è materia esclusiva di matematici, fisici e quanti altri hanno fatto degli studi algebrici la loro priorità. La logica può appartenere a tutti. lo racconta bene una giornalista americana il cui racconto è stato ripreso qualche tempo fa dalla rivista Internazionale.

Victoria Fine, questo il nome della giornalista, si era convinta che per stare al passo coi tempi era necessario per lei imparare bene l’informatica: per usare la meglio le nuove tecnologie, aprire un sito web, districarsi tra gli strumenti di diffusione on line dei contenuti che produceva (articoli, post, dossier). Ma Victoria era assolutamente spaventata dalla matematica, materia che fin dalla tenera età non riusciva a digerire. Quello che non sapeva era che la matematica non le sarebbe servita più di tanto. Imparate alcune regole fondamentali della programmazione, il resto è stata una questione di metodo che seguiva sostanzialmente due principi. Il primo: vedere quello che facevano altri e tentare di imitarli; non solo altri studenti di un corso a cui era iscritta, ama anche altri programmatori che postavano cose su internet (facilmente reperibili attraverso Google). Il secondo: non era questione di numeri e di parole; l’HTML (un codice di programmazione) è. come dice la parola stessa, un linguaggio di programmazione. Per questo impararlo è più una questione legata alla nostra capacità di imparare una lingua diversa, piuttosto che a quella di avere abilità con i numeri.

Certo, funziona per un livello base ma la cosa bella è anche che quello base può essere il primo di una serie di gradini che piano piano possiamo scalare imparando dagli errori che si fanno nella codificazione informatica. L’informatica è, sostanzialmente, imparare facendo.  Dice Victoria:”imparare a programmare non ha fatto di me una programmatrice, ma ha cambiato il mio atteggiamento quando devo imparare cose nuove“. In questa conclusione della giornalista americana c’è l’essenza del coding e anche del Coderdojo: l’obiettivo non è diventare prigrammatori informatici, ma cominciare ausare la testa, la logica. E magari lo facessimo tutti!

La tecnologia fa perdere posti di lavoro (è una bugia)

tecnologia lavoroSe tra chi legge questo blog c’è qualcuno esperto o amante di storia forse ha già capito dove vogliamo andare a parare. Sicuramente saprà che cosa si intende per rivoluzione industriale e che cosa questa ha comportato nella storia dell’intero pianeta nel quale viviamo. C’è chi afferma che in questi anni stiamo vivendo una rivoluzione simile, grazie all’informatica e alle tecnologie digitali. Quando utilizziamo il termine rivoluzione intendiamo qualcosa che, anche se lentamente, stravolge completamente il mondo (e il modo) in cui siamo abituati a vivere. Per intenderci, la rivoluzione industriale ha avuto come effetti, tra gli altri, la possibilità di avere la corrente elettrica nelle case (immaginate oggi di poterne fare a meno?) e di trasformare il mondo produttivo (negli Stati Uniti gli occupati nell’agricoltura sono passati dal 90% al 2%). Che cosa sta accadendo oggi? E che effetti potrebbe avere quella attuale se fosse una vera rivoluzione tecnologica?

Nel numero di Internazionale di questa settimana c’è un dossier (quello di copertina) che racconta in qualche modo proprio questa storia. Il titolo dell’articolo è “Il capitalismo dei robot” e la questione che vi è raccontata potremmo riassumerla in questa semplice domanda: la tecnologia sta togliendo posti di lavoro? Per trovare una risposta a questa domanda senza essere banali e frettolosi bisogna analizzare un po’ meglio la questione. Prima di tutto l’informatica ha un grande potenziale perché è in grado di auto-apprendere grazie alla sua incredibile capacità di fare calcoli e, soprattutto, di farli in maniera sempre più veloce (provate a leggere, se non la conoscete, la teoria detta legge di Moore). La conseguenza è che grazie a questa “abilità” il processo di sostituzione macchina/uomo riguarda con una certa facilità tutti i processi che sono ripetitivi ed ancor di più se si tratta di lavori faticosi e logoranti per i quali l’uomo ha come limite la propria resistenza. Il terzo punto riguarda l’automazione: grazie alla potenza di calcolo sempre più grande le “macchine” riescono a fare lavori sempre più complessi. A guardare  questo video sui robot Kiva nei magazzini di Amazon ci si rende subito conto di come possa essere importante l’influenza dei robot nel lavoro: quello che queste macchine fanno in maniera del tutto automatica non più di 10 anni fa era il lavoro di operai in un numero di almeno 5 volte superiore. Operazioni semplici, faticose, ripetitive: il massimo per un robot comandato da un computer.

La sostituzione riguarda soltanto i lavori manuali? Non si direbbe: i bancomat e le casse automatizzate hanno sostituito gran parte dei cassieri di banca e ci sono una serie di strumenti tecnologici (con relative applicazioni) che possono sostituire con una certa facilità il lavoro di una segreteria organizzata (chi ha più bisogno di una segretaria che gestisce gli appuntamenti quando esiste GoogleCalendar?). Considerato che la potenza di calcolo che 30 anni fa aveva un calcolatore dal costo di milioni di dollari grande come un magazzino oggi ce l’ha una PlayStation3, ci sarebbe da scommettere che nei prossimi lustri (pochi) le macchine avranno sostituito completamente gli uomini (e le donne) nella stragrande maggioranza dei lavori. Ora sta tutto nel decidere se questa è una bella o brutta notizia.

Per prendere questa decisione bisogna fare ancora un passo indietro (la storia spesso aiuta sia la scienza che l’economia). Quando negli Stati Uniti l’agricoltura ha perso la maggior parte dei suoi addetti che cosa è successo? La popolazione è diminuita drasticamente? C’è stata una disoccupazione epica? Non è andata così. Quello che è successo è che le persone hanno dovuto imparare a fare lavori nuovi e al contempo sono nati nuovi settori, nuove professioni, nuovi impieghi. Il problema è che la faccenda non è stata automatica e nemmeno immediata. Secondo J.M. Keynes in queste epoche di passaggio in cui l’innovazione tecnologica ha trasformato la società e l’economia, l’adeguamento delle “risorse umane”non ha viaggiato alla stessa velocità, è stato più lento. Questa asimmetria, tra la velocità del progresso e quella dell’adeguamento della popolazione, genera situazioni di mancato equilibrio ed anche un certo senso di smarrimento in chi vive durante il passaggio. Ci sembra che sia un po’ quello che ci sta capitando oggi: non possiamo dire che la tecnologia non sia utile e benefica, ma al contempo facciamo fatica a crederlo quando ci accorgiamo che è anche la causa della perdita di posti di lavoro. Il consiglio che la storia ci regala è che in questi frangenti ci sono solo un paio di cose che tendenzialmente sembrano giuste da fare: la prima è quella di interessarsi, conoscere e imparare a utilizzare la tecnologia; l’altra è di evitare di pensare che le cose che sono andate sempre in una certa maniera continueranno a funzionare sempre così. Questa rigidità, soprattutto se applicata alle scelte che ci riguardano da vicino come quella di un percorso professionale, potrebbe risultare pericolosa. Come facciamo ad accorgercene? Per esempio, se qualcuno di voi sogna ancora di fare il cassiere di banca forse è bene che prenda in considerazione qualche altra prospettiva 🙂

Cosa c'è da imparare oggi (per domani)

codingL’epoca che stiamo vivendo, da un punto di vista professionale, richiede un continuo aggiornamento delle nostre capacità e delle nostre competenze. Non si tratta solo di frequentare corsi di formazione in continuo (che, diciamolo, a volte sono anche ridondanti). Piuttosto sempre più spesso viene richiesto un grado di adattabilità, di mutazione, di “improvvisazione” o prontezza a situazioni nuove e diverse: alcuni la chiamano flessibilità, ma così facendo il termine viene troppo spesso confuso con precarietà. Forse quello che potremmo intendere per flessibilità è la nostra capacità di adattare le nostre conoscenze a contesti diversi, la possibilità che abbiamo di apprendere non soltanto conoscenze tecniche ed operative ma anche saperi funzionali. Qualcosa che possiamo poi adattare a situazioni e contesti variegati. Una volta avrebbero detto “le basi”. Oggi, certamente, queste “basi” non son più quelle di una volta (come le stagioni 😉 ) e dobbiamo forse aggiornarci e registrare la nostra formazione su altri parametri.

In questo senso pensiamo che un esempio di quel che intendiamo possa essere rappresentato dai corsi di programmazione informatica. In gergo si chiama coding (da code, codice in inglese) ed è la competenza di riuscire a programmare un software affinché possa poi svolgere le funzioni che immaginiamo. Volendo fare un po’ di filosofia il coding è in qualche modo un atto creativo (in senso letterale) perchè spesso in informatica immaginare una cosa significa poi, quasi direttamente, poterla realizzare. Per molti esperti è una materia sempre più necessaria per chi è nato in questo millennio, al pari dell’inglese. Un docente dell’Università di Urbino, Alessandro Bogliolo, sostiene che “imparare a programmare non serve solo a creare futuri programmatori, il salto di qualità si fa quando si inizia a pensare che il coding debba diventare materia di studio. Non comprate un nuovo videogioco, fatene uno. Non scaricate l’ultima app, disegnatela.

Il concetto che sta alla base del linguaggio informatico è il pensiero computazionale, ovvero la capacità che possiamo acquisire di pensare in maniera algoritmica ovvero trovare una soluzione e svilupparla alle esigenze ed ai problemi che ci si presentano, che decidiamo di affrontare. Ammesso che questa cosa sia importante quando bisogna iniziare ad imparare il “linguaggio della macchina”? La risposta è la stessa che diamo alla domanda “quando è meglio imparare una lingua straniera?”. Presto, prestissimo, già da bambini. Per tanti motivi. Il coding dà ai bambini una forma mentis che permetterà loro di affrontare problemi complessi quando saranno più grandi. Imparare a programmare apre la mente. Per questo si può cominciare già in tenera età. Anche per uscire da un equivoco, quello secondo cui i cosiddetti «nativi digitali» siano bravissimi con le nuove tecnologie (è un luogo comune): i minuti e le ore passate davanti ad un dispositivo digitale rischiano di essere una fruizione passiva, anche se è uno svago che può assorbire tempo ed energie. Quando i bambini si avvicinano al coding, invece, diventano soggetti attivi della tecnologia. I risultati sono immediati. In poco più di un’ora si può creare un piccolo videogioco, funzionante (per farlo partendo da zero il MIT di Boston ha creato un’applicazione apposita, che si chiama Scratch). Un responsabile didattico del coding afferma che “I ragazzi che approcciano il coding via via maturano una presa di coscienza: quando lavorano per il loro videogame vogliono che sia difficile, per renderlo più avvincente e divertente; iniziano a vedere le cose da una prospettiva diversa”.

Ecco, forse proprio di questo abbiamo bisogno, di trasformare e leggere la flessibilità come una prospettiva diversa. Ma la possiamo adottare solo se abbiamo gli strumenti e le conoscenze per vederla.