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Dovremmo uscire da Facebook?

Quello che scrivo oggi lo raccolgo da una suggestione condivisa da Luca Conti, un esperto di media digitali, marketing e nuovi orizzonti della comunicazione on-line (che ho la fortuna di avere anche come amico). L’altro giorno Luca ha condiviso un articolo del New York Times il cui titolo aveva questa domanda: “Hai il dovere morale di abbandonare Facebook?“. Non è la prima volta che si leggono cose che riguardano il social network blu (è diventato talmente presente e nominato che la ricerca dei sinonimi per chiamarlo è quasi leziosa), ma stavolta il giornalista americano propone un tema meno pratico e più legato al nostro stile di vita, a quello che decidiamo di fare della nostra vita e all’idea che abbiamo del mondo in cui vogliamo vivere.

Una prospettiva interessante perché, credo, mai come in questa epoca l’evoluzione tecnologica è talmente veloce, pervasiva e per certi versi incomprensibile che non è più questione che ci sta cambiando la vita nel modo di fare le cose, nella pratica. In un un tempo poco più lungo dell’immediato, mai come in altre epoche, la tecnologia sta cambiando il nostro modo di pensare, ragionare, immaginare e costruire il nostro futuro. L’articolo del NYT pone l’accento sul fatto che Facebook, da questo punto di vista, gioca un ruolo importante: raccoglie circa 2 miliardi di iscritti, le persone ci trascorrono (noi ci trascorriamo) un sacco di tempo, lo utilizziamo come fonte di informazione (lo abbiamo sostituito ai giornali, non vi pare?). Ma come lo gioca questo ruolo?

Secondo il filosofo ce ha scritto l’articolo del NYT decisamente male. Facebook è stato usato (o, forse, per come la si può intendere, si è fatto usare) per fare propagande politiche che sminuiscono il valore della democrazia (in tutti quei casi in cui questo social media è diventato un canale di diffusione anche di voci razziste o sessiste per esempio), è stato usato (si è fatto usare) per diffondere l’odio tra le persone (il cyberbullismo vi dice niente?), è stato usato (o si è fatto usare) per divulgare notizie false o culture che rimettono in discussione studi scientifici o elementari conoscenze di base (in primis nel campo della salute). La prima osservazione che viene in mente é: ma Facebook che c’entra? Sono le persone che sbagliano e utilizzano il media in modo sbagliato. In parte questo è vero, manca l’educazione all’utilizzo. In aula ultimamente faccio questo esempio: ho fatto lo scout e avevo, anche in tenera età, sempre con me un coltellino svizzero; non mi è mai venuto in mente di utilizzarlo per offendere qualcuno grazie al fatto che ho avuto un contenitore (lo scoutismo) che mi ha insegnato come utilizzarlo senza offendere. Non voglio esagerare dicendo che FB è un’arma, ma se è vero che può essere utilizzato in maniera pericolosa, è altrettanto vero che non c’è nessun contenitore “culturale” che ne insegni l’uso corretto (non solo come principi ma anche come tecniche). D’altro canto però non credo che Facebook possa legittimamente sentirsi senza colpe, soprattutto perché ci ha costruito un business. Ancora una volta, non voglio esagerare ma, sinceramente, è credibile che i produttori di armi non abbiano nessun ruolo sullo sviluppo delle guerre?

Chiaramente la faccenda con Facebook non è così drammatica, non è una guerra insomma. E capisco anche che è un ragionamento comprensibile quello di chi afferma che “ma io lo uso solo per postare le foto dei miei gatti o di quello che mangio”. Però la semplice fruizione del mezzo dovrebbe comunque farci sentire qualche responsabilità: siamo comunque dentro, condizioniamo altri ad entrarci, siamo “dati” che alimentano il business, possiamo essere utilizzati per fare esperimenti (digitali chiaramente). Tutto questo forse dovrebbe farci sorgere qualche domanda sulla nostra permanenza su Facebook. Personalmente me la sono posta e, unitamente alle analisi profonde sul senso dell’iscrizione a Facebook, mi sono chiesto anche che tipo di vantaggio (pratico e intellettuale) possa avere rimanere lì dentro. La mia risposta è che i vantaggi sono davvero pochi e, piano piano, nella mia personalissima scala valoriale sono superati da una serie di altri svantaggi (come quello di perdere tempo togliendolo non tanto al lavoro quanto ad attività, come lo sport e la lettura, che mi fanno sentire meglio). E voi, ve la siete fatta una domanda? E che risposta avete da condividere?

 

Tecnologia attraente

La tecnologia, soprattutto quella digitale, sta giocando un ruolo da vera protagonista della nostra epoca ed è la cosa più attraente con cui abbiamo avuto a che fare negli ultimi anni. Credo che sia un dato che accomuna i presunti “millenials” e chi si è ritrovato ad averne a che fare in età già adulta: per i primi è un’attrazione quasi connaturata, per i secondi un fascino irresistibile accompagnato spesso dalla sorpresa relativa al confronto con il passato (la sensazione è quella del tipo “wow! niente più fila in banca per fare un bonifco!”).

Questa tesi, semplice e banale, è anche supportata da qualche dato. Per esempio quello sulle spese effettuate dagli italiani che sono quelli che spendono maggiormente in Europa per l’acquisto di device tecnologici: siamo i primi (almeno in questo) con una spesa che è doppia rispetto a quella di inglesi e francesi e supera di un terzo quella di spagnoli e tedeschi. Ora, la domanda che mi faccio è: ma tanto “affetto” è ricambiato? Il nostro amore per la tecnologia è corrisposto?

La tecnologia digitale in molti casi ci ha semplificato la vita, ci ha permesso di velocizzare molte attività e raggiungere distanze (anche in senso metaforico) a cui prima non potevamo arrivare. Da un certo punto di vista è stato come mettere il turbo, un’energica spinta alle nostre vite. Alla accelerazioni bisogna però essere preparati e noi non sempre lo siamo stati: siamo diventati un po’ più soli (che non è la solitudine classica, è più un modus vivendi molto autonomo, forse troppo), più distratti (e per questo meno informati nonostante la enorme disponibilità di notizie), più superficiali.

Forse talmente tanto che se ne è accorto anche uno che con la tecnologia è diventato miliardario: Mark Zuckerberg. La notizia di oggi è che, riporto i giornali, “Facebook ci vuole più felici”: Ora, io lo so che questo annuncio è una trovata pubblicitaria, una frase ad effetto (semplice) per garantire l’immagine di un’azienda che vuol dimostrare di avere e sentire una responsabilità sociale. Però se Facebook, siccome “gli utenti che sono attivi sui social network si sentono meglio al termine della loro esperienza online, rispetto a quelli che si limitano a osservare che cosa condividono gli altri“, decide che questa cosa va incoraggiata è perché il nostro livello di disattenzione (che poi è più che altro una certa incapacità di assorbire e comprendere i contenuti) è talmente elevato che rischia di incidere sull’efficacia del social network (e quindi sulla sua redditività). La questione, dal mio punto di vista, è che rischiamo di essere affascinati più dal come le cose accadono, che dalle cose che accadono e dal perché accadono. Del tipo: “che figo, dal mio smartphone posso vedere il video della bomba che esplode”. Ma quella è una bomba! Che esplode! Lo stesso meccanismo che avviene per la diffusione delle bufale (fake news): la velocità e l’enfasi (grande nemica di questi tempi a mio modo di vedere) con cui ci arrivano, bloccano le nostre capacità critiche, la possibilità che avremmo di ragionare prima di diventare noi stessi distributori di stupidaggini.

Non voglio dire che la colpa è della tecnologia, sarebbe talmente banale da essere sbagliato. Ma quell’attrazione che proviamo, ogni tanto, forse dovremmo metterla in discussione e capire se non possiamo diventare, soprattutto, un po’ più consapevoli.

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