Sessismo e parità di genere, a che punto siamo?
A cosa serve la Giornata internazionale dei diritti della donna? Perché è importante che ci sia, e che non venga scambiata per una festa?
La risposta ce la danno i numeri, ma non solo.
Chiunque è in grado di trovarsi i numeri delle donne vittime di femminicidio (cioè uccise in quanto donne), che nel 2021 sono già state 12 solo in Italia (due alla settimana).
Su questo aspetto, solo per dire quanto non stiamo facendo passi avanti, a partire già dal linguaggio, sono stati realizzati, tra molti altri, due progetti, diffusi da Repubblica, realizzati uno nel 2016 dal fotografo Pietro Baroni, che si chiama “Parole d’amore” e uno, inconsapevolmente gemello, realizzato in preparazione all’8 marzo di quest’anno dalla scrittrice Michela Murgia, dal titolo “Stai zitta, e tutte le frasi che non vogliamo più sentire”.
A questi fatti si aggiunge una cultura (purtroppo molto diffusa, anche vicino a noi) ancora carente, arretrata e discriminatoria nei confronti di tutte le donne, che, andrebbe forse ricordato, non sono una minoranza fragile da difendere, ma sono la metà del genere umano, ancora poco o per niente rappresentata nei luoghi che contano.
Per considerare altri ambiti, comunque connessi, tutti abbiamo sentito la notizia della percentuale di posti di lavoro persi nell’ultimo anno a causa della pandemia, che sono per il 70 per cento donne.
Si parla da un po’ proprio di gender gap, o divario di genere, cioè della disparità tra uomo e donna in molti ambiti (lavorativo, educativo, sanitario, istituzionale, artistico) e che ha origine nella concezione per cui la donna è una sottocategoria (e quindi inferiore) all’uomo, preso a misura di tutte le cose.
Solo per fare degli esempi pratici, ad oggi le donne sono molto spesso escluse dai premi letterari e artistici; dalla direzione di giornali, delle università; sono scarsamente presenti nei ruoli importanti della politica a tutti i livelli, e raramente chiamate a parlare come relatrici nei panel di esperti (di qualsiasi argomento si tratti).
Sappiamo che troppo spesso le donne, a parità di ruolo e di risultati vengono pagate meno degli uomini (fenomeno conosciuto come gender pay gap), perché si parte da un dislivello culturale, cioè la percezione che il lavoro delle donne sia di qualità più bassa e che possa essere retribuito in maniera diversa.
Ma sappiamo anche che le ragazze, già a scuola, fanno meglio dei loro compagni maschi, e si laureano di più e più in fretta. Come mai poi non arrivano ai ruoli di responsabilità e prestigio che spetterebbero loro?
Per dare risposta a questa domanda, sono vari gli aspetti da considerare e sui quali c’è ancora parecchio da lavorare.
Il primo riguarda il fatto che l’autorevolezza, necessaria a vedersi assegnati ruoli di una certa importanza, va sì costruita, ma poi va anche riconosciuta dagli altri, e se questo non avviene a causa del genere, è un problema di sistema (questione che si interseca con quella del merito).
L’altro aspetto ha a che fare con l’educazione, e in particolare con le differenze di messaggi che vengono inviati, più o meno consapevolmente, ai bambini, già a partire dai primi anni. Si va dal banale e già molto discusso “giochi per le femmine” e “giochi per i maschi”, a un livello molto più sottile e pervasivo, rispetto a quello che è appropriato per una ragazza e quello che non lo è (mentre provate a pensare che cosa non è appropriato per un ragazzo: non vi viene in mente niente? Ecco).
Da secoli le bambine e le ragazze vengono educate ad essere obbedienti, disciplinate, controllate, responsabili, e addirittura docili, remissive, umili e rispettose. E questa è in parte la ragione per cui a scuola, un luogo organizzato da regole e prove uguali per tutti, se la cavano meglio. Ai ragazzi invece viene passato, in maniera più o meno consapevole, il messaggio opposto: anche quando disobbediscono e trasgrediscono, è facile che vengano più o meno apertamente giustificati, perché va bene che abbiano carattere, che prendano le loro decisioni, che siano determinati, che si impongano, insomma.
Qual’è il risultato di anni di questo tipo di educazione, basata su una cultura che, volenti o no, si ritrova in molti modelli familiari ma anche e soprattutto nei messaggi che continuamente ci arrivano dai media, dalle pubblicità, e a volte perfino dalle istituzioni? Il risultato è di crescere ragazzi e ragazze come persone educate, in sostanza, i primi a comandare e le seconde ad obbedire, per cui si verifica anche una minore propensione a ricoprire ruoli di responsabilità e comando, da parte delle donne.
Aggiungiamo a tutto questo il problema del carico di responsabilità delle categorie non autosufficienti della famiglia (figli, anziani, disabili, invalidi, e spesso, diciamolo, anche gli uomini di casa), che ancora troppo spesso vengono considerate di pertinenza delle donne, sempre secondo la cultura arretrata di cui sopra.
Dovremmo ricordarci che questi sono problemi che riguardano tutta la società e non solo le donne, e sono di carattere sia sociale che economico. Infatti da un lato hanno a che fare anche con la diffusione di modelli tossici di mascolinità e di rapporti tra i sessi, e dall’altro sappiamo che un paese che si priva del lavoro delle donne è un paese che non cresce.
La giornata internazionale dei diritti della donna ci aiuta a portare l’attenzione su questo enorme problema, al di là delle pagine di cronaca nera, come un parametro fondamentale di civiltà di tutti i paesi.
Cambiare atteggiamento e linguaggio è un percorso che dobbiamo fare tutti, quotidianamente, non solo l’8 marzo. Poi è necessario anche fare pressione perché questo cambiamento avvenga a tutti livelli, tra cui quello istituzionale.
Una cosa da fare subito, ad esempio, è firmare la petizione dell’UNICEF, per chiedere il rinnovo del piano nazionale antiviolenza.