passione

Quando una passione diventa un lavoro di successo!

Ebbene sì, può succedere! È possibile vedere una grande passione che coltiviamo fin da bambini trasformarsi in un lavoro. Certo, direte voi, nulla di strano. Che so, magari fin da piccoli giocavate al dottore con il bambolotto e poi da grandi avete studiato medicina, oppure vi piaceva fare il cuoco con le pentole di mamma e ora lavorate in un ristorante. Un po’ più complicato per chi voleva fare il supereroe, o per chi, che ne so, aveva come passione quella di riordinare tutto. Perché i supereroi non esistono, così come non esistono i bambini che amano mettere in ordine direte voi. E qui vi sbagliate: Marie Kondo era una bambina che amava più di ogni altra cosa mettere in ordine la casa.

Ogni giorno trovava un modo nuovo per riordinare, studiava tutte le riviste sull’argomento, passava ore e ore catalogando ogni sorta di oggetto. No, non è diventata una massaia con disturbo ossessivo compulsivo per l’ordine, ma una donna di successo. E il suo successo nasce proprio da quella sua strana passione! Ora iniziate a capire anche voi. Avrete sentito parlare del best seller “Il magico potere del riordino”. Un libro ormai venduto e tradotto in tutto il mondo. C’è da ammetterlo, è una lettura interessante, che vede la capacità di riordinare un po’ come uno stile di vita. Riordinare la casa è come mettere a posto la propria esistenza, lasciando andare ciò di cui non abbiamo bisogno, e accogliendo ciò che fa parte del nostro presente, che ci emoziona e ci fa stare bene nel “qui e ora”.

Questa passione per il riordino si è trasformata in qualcosa di più profondo: la capacità di trasmettere agli altri un metodo per migliorare la propria vita. Ci sono persone che dopo aver riordinato da cima a fondo la casa (e da cima a fondo può richiedere anche mesi di meticolosa attività) hanno cambiato lavoro, partner, abitudini. E ringraziano con gioia la loro maestra di riordino. E cosa c’entra una casa ordinata con un nuovo lavoro? O una nuova visione della vita? Beh a sentire Marie Kondo, tutto. Perché è quando impariamo a capire cosa davvero ci piace e ci fa stare bene e ad eliminare ciò che non fa per noi che iniziamo a vivere davvero. E Marie evidentemente aveva chiaro fin da piccola ciò che le piaceva fare! A furia di leggere, tentare, creare e ricreare metodi diversi, Marie ha strutturato un metodo tutto suo in cui è, in effetti,  maestra indiscussa.

Questo l’ha resa famosa in tutto il mondo!!  Il suo libro ci da molte lezioni interessanti, e una di queste secondo me sta proprio nel fatto che se uniamo una grande passione alla costanza, alla creatività, al coraggio di sperimentare, alla tenacia… possiamo andare davvero molto lontano. Quando questa passione aiuta noi e gli altri a stare meglio, ad essere felici il risultato non può che essere un grande successo.

Gli ITS: percorsi formativi post diploma

Nell’arco della loro carriera scolastica, i ragazzi sono chiamati a compiere delle scelte importanti per il loro futuro, sia scolastico sia professionale. La prima scelta importante viene richiesta già al terzo anno della scuola secondaria di primo grado, quando i ragazzi devono scegliere a quale scuola secondaria di secondo grado iscriversi. In questo le scuole si sono “attrezzate” prevedendo giornate di visita alle scuole superiori allo scopo di far conoscere ai ragazzi l’offerta del proprio territorio. La seconda scelta importante viene affrontata all’ultimo anno delle scuole secondarie di secondo grado; anche per i ragazzi di questa età le scuole prevedono visite di orientamento alle università locali volte a fornire una panoramica il più possibile completa dell’offerta formativa accademica.

L’università, però, non rappresenta l’unica possibilità formativa per i neo diplomati; infatti il panorama formativo contempla anche gli ITS Istituti Tecnici Superiori – che rappresentano un canale formativo post secondario parallelo ai percorsi accademici.

Gli ITS sono scuole di alta tecnologia che hanno lo scopo di formare tecnici superiori in aree tecnologiche strategiche del sistema economico -produttivo del Paese, quali la mobilità sostenibile, l’efficienza energetica, il made in Italy, le nuove tecnologie per i beni culturali e il turismo, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Queste scuole sono costituite nella forma di fondazioni formate da scuole, università e imprese per dare vita ad un’autentica integrazione tra istruzione, formazione e lavoro.

I corsi ITS, che sono gratuiti ma prevedono una compartecipazione alle spese didattiche,  hanno una durata biennale per un totale di 1800 ore, suddivise tra ore di attività in aula e in laboratorio e ore di stage in azienda; lo stage è obbligatorio per almeno il 30% del monte ore complessivo ed è prevista la possibilità di effettuare il tirocinio anche all’estero. Il 50% dei docenti proviene dal mondo del lavoro e delle professioni.

Il titolo rilasciato è un Diploma di tecnico superiore con l’indicazione dell’area tecnologica e della figura nazionale di riferimento, corrispondente al V livello del Quadro Europeo delle qualifiche – EQF.

Accedono ai percorsi, previa selezione, i giovani in possesso del diploma di istruzione tecnica (scuola secondaria superiore), coerente con l’area tecnologica di riferimento; è consentito l’accesso ai candidati in possesso di altri tipi di diploma, previa frequenza di moduli di specifica preparazione, finalizzati a “riallineare” le competenze tecniche specifiche mancanti. Requisiti indispensabili sono una buona conoscenza in informatica e dell’inglese.

Se volete sapere quali corsi ITS sono in partenza in ambito regionale, potete l’elenco corsi gratuiti sul sito dell’Informagiovani alla pagina dedicata.

Zona di comfort

La zona di comfort

Per trovare lavoro, per realizzare degli obiettivi, oggi è necessario uscire dalla propria “zona di comfort”. Sono quasi certa che anche tu, caro lettore, avrai sentito dire questa frase almeno una volta nella vita. Anzi negli ultimi anni, da quando finalmente ci siamo modernizzati,  i corsi si chiamano workshop, l’immagine personale si chiama brand e ci sentiamo tutti un po’ più internazionali.

I disoccupati purtroppo si chiamano ancora disoccupati, ma è perché si ostinano a non uscire dalla propria zona di confort.  Quella famosa zona, di cui magari avrai sentito parlare all’ultimo workshop sull’empowerment delle skills personali. No, non era un corso in inglese, come hai pensato per tutta la prima ora, era in italiano. Ma tu  hai perso la metà dei contenuti perché ti ostini a non studiare il vocabolario di oggi, a non modernizzarti. Sei ancora nella tua zona di confort. E quindi scommetto che sei tornato a casa con la decisa intenzione di uscire finalmente da quella stramaledetta e confortevole zona in cui sei rimasto seduto per anni. E hai iniziato ad analizzarla. Quella “zona” del tuo quotidiano, in cui non hai lavoro, vivi ancora con i tuoi, sei nella tua confortevole cameretta di quando avevi 12 anni, litighi ogni giorno con tua madre perché questa casa non è un albergo, mangi vegano perché i tuoi sono più alla moda di te e invece della bistecca cucinano veggy burger.

A una prima analisi non ti sembra esattamente una zona di comfort. E ti senti un po’ preso in giro da quel formatore che parlava tutto strano. In effetti, pensi, sei stato abbastanza eroico per sopportare tutto quel “confort” fino ad oggi. Ma non ti scoraggi, accendi il pc ed inizi a navigare alla ricerca delle piattaforme di formazione, di auto promozione, corsi, informazioni: tutto quello che potrebbe portarti fuori da quella “confortevole” zona morta. Lui, il formatore sapiente e trilingue, non sa che anche dentro la più buia delle zone comfort può nascondersi il più grande dei guerrieri, il più spavaldo degli esploratori. Con un sorriso di sfida pensi che sei pronto ad informarti su tutto l’iperuranio, ad esplorare ogni galassia lavorativa, a studiare anche di notte, a tampinare (stalkerare anzi) ogni possibile datore di lavoro con i mezzi più sofisticati… ce la farai. Ma a fare cosa, esattamente??

Improvvisamente, con la testa piena di informazioni prese dal mare di internet, ti guardi allo specchio, con gli occhi sgranati e l’espressione pesantemente sconfortata. Una vocina dentro di te ti dice che quell’uscita dalla zona comfort è molto più sconfortante del previsto. Quella vocina forse non ha tutti i torti, ma se l’ascolti meglio forse ti dirà anche da dove cominciare. Per esempio dal cercare prima dentro di te quali sono i tuoi desideri profondi. A chiederti chi sei e cosa ti fa stare bene, prima di chiederti cosa sia vendibile oggi. A conoscerti meglio e darti fiducia, per poi iniziare a cercare la tua strada fidandoti anche del tuo istinto. Insomma, in poche parole, quella vocina potrebbe dirti come costruire dentro di te una reale zona di comfort, come farla crescere e renderla ogni giorno più forte, riempirla delle tue passioni, delle tue convinzioni, di ciò che è importante e portarla sempre con te. Quella zona sarà un ottimo alleato, con cui potrai esplorare e sperimentare luoghi e attività nuove senza paura.  E se vorrai potrai comunque darle un nome in inglese, che fa sempre scena. Se la custodirai a dovere sarà una zona in cui far crescere tante skill. O, più “banalmente”, l’amore per te stesso e la tua autostima. Un brand a prova di bomba!

eat me 1 ottobre

Eat me

Torna il nostro appuntamento con #atuttoschermo, i film visti da noi. Il film di ottobre, che vi presenteremo già il prossimo sabato 1 ottobre, è il documentario sui disturbii alimentari Eat Me realizzato curato dal centro Heta, realtà di riferimento nel panorama regionale sul tema dell’alimentazione. Per questa occasione abbiamo organizzato un duplice appuntamento.

Alle 17 verranno presentate le attività dell’Associazione per la stagione 2016-17 e la fitta rete di collaborazioni attivate per studiare e affrontare da più versanti e in più ambiti la problematica, ormai epidemica, dei Disturbi del Comportamento Alimentare (ormai 40000 donne colpite nelle sole Marche; ancora solo il 40/50% degli affetti intraprende, in Italia, un percorso terapeutico).

Nelle scorse settimane, il Centro Heta ha stipulato convenzioni e accordi volti a sviluppare progetti di ricerca, prevenzione e cura con soggetti pubblici, come Unicam, Ateneo di spicco nell’ambito delle ricerche biologiche e nutrizionali, e privati come Co.Gi.To., consorzio di cooperative di servizi assistenziali sorto nel 2015, e Happiness Group, circuito marchigiano di fitness club tra i più rilevanti in Italia. In collaborazione con questi diversi attori, con la consulenza dello staff di strutture di eccellenza nella cura dei DCA come Villa Miralago (Varese), l’Associazione intende ampliare le prospettive di intervento e dare consistenza a una vera e propria rete.

Nell’incontro, verranno presentate le iniziative di prossimo avviamento: la proposta avanzata al Tavolo Tecnico Regionale sui DCA dal Centro Heta, in collaborazione con Unicam e Co.Gi.To., per costituire una comunità terapeutica in tempi brevissimi sul territorio regionale, in località Esanatoglia (MC); i progetti di ricerca clinica ed epidemiologica formulati con Unicam e Villa Miralago; la nuova campagna di prevenzione e informazione Eat Me 2016-2017, che anche quest’anno toccherà numerose località e aggiungerà al docufilm omonimo, in ultimazione, altri materiali di spunto ricavati dal lavoro clinico quotidiano svolto a Heta e in altri centri nazionali, e vedrà il lancio di un contest video rivolto alle scuole secondarie di primo e secondo grado, con premiazione in occasione della prossima Giornata del Fiocchetto Lilla; la convenzione con Happiness Group e il progetto di elaborazione di protocolli volti a monitorare e accreditare quelle realtà nei cui contesti spesso si ha una maggiore incidenza del disturbo, come palestre, consorzi sportivi, club; le attività di formazione del centro che quest’anno coinvolgeranno enti privati e pubblici e culmineranno in un’occasione di formazione intensiva per operatori nel marzo 2017.

Parteciperanno rappresentanze delle autorità cittadine, e dei partner in collaborazione con Heta: Fanpia Onlus e il Centro Oltre, Cooperativa Co.Gi.To., Unicam, Happiness Group, Tornaconto & C, Fideuram, Idea Psicologia. Modererà Giovanni Iannelli, Direttore Rai Marche
Alle 18 sarà la volta di “Eat Me” il docufilm pensato con l’obiettivo di offrire uno scorcio diretto ma non spettacolarizzato sui disturbi del comportamento alimentare. Un tentativo di abbandonare la retorica del dolore per addentrarsi nelle fitte dinamiche del problema. Una narrazione intima e profonda in cui ciascun protagonista ha potuto raccontarsi e raccontare. Work-in-progress nato seguendo le storie di soggetti sofferenti di un Disturbo del Comportamento Alimentare, giunto ormai vicino alla versione definitiva grazie al successo della campagna crowdfunding terminata lo scorso giugno, in questa occasione verrà presentato arricchito di ultimissimi materiali. Saranno presenti i registi Ruben Lagattolla e Filippo Biagianti. Il film sarà introdotto da Luca Pierucci, Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Regione Marche.

L’ingresso è gratuito, alla fine verrà offerto un buffet e voi siete tutti invitati!

formazione

Scegliere un corso di formazione

Quale corso di formazione posso scegliere? Qual’è il corso più adatto a me?: queste sono alcune delle domande più frequenti che gli operatori di orientamento si sentono rivolgere.

In un mondo del lavoro in continua evoluzione, è naturale che evolvano anche i bisogni delle aziende; vengono richieste sempre nuove competenze e di conseguenza cambiano anche i fabbisogni formativi. Il titolo di studio (diploma o laurea) non è più sufficiente a garantire l’immediato inserimento nel mondo del lavoro ma sempre più spesso deve essere integrato da un percorso formativo in grado di fornire conoscenze più pratiche e specialistiche. Diviene quindi fondamentale scegliere corsi di formazione in grado di fornire tutte le competenze di cui una figura professionale ha bisogno.

L’impresa non è sicuramente semplice dal momento che l’offerta formativa presente sul mercato è vastissima. Tuttavia è possibile seguire alcune indicazioni utili ad una scelta consapevole.

Il primo passo da compiere è cercare di individuare le professioni che il mercato richiede maggiormente senza però prescindere dai propri interessi, dalle proprie inclinazioni, dalle ambizioni personali e dalla passione che farà da filo conduttore a tutta la carriera professionale.

Una volta individuati i propri interessi, è necessario scegliere anche in base alla tipologia di corso, alle caratteristiche dell’ente organizzatore e alla durata del corso stesso.

I corsi di formazione possono, infatti, essere gratuiti o pagamento. Quelli gratuiti possono essere finanziati dal Fondo Sociale Europeo (FSE); quelli a pagamento possono essere autorizzati dalla Provincia. Per ottenere il finanziamento o l’autorizzazione, i corsi vengono sottoposti a valutazione da parte dell’ente Provincia sulla base di criteri di qualità.

Non solo i progetti formativi ma anche gli enti di formazione devono sottostare a criteri di qualità per ottenere il finanziamento o l’autorizzazione del proprio corso. Solo gli enti che rispondono a questi criteri vengono accreditati.

Solo i corsi di formazione organizzati da enti accreditati possono rilasciare qualifiche professionali o diplomi di specializzazione e quindi titoli riconosciuti sul mercato del lavoro.

Sulla scelta di un corso inciderà quindi anche il titolo rilasciato dal corso stesso. In base alla durata del corso, i titoli che si possono ottenere sono: attestato di partecipazione (durata corso: almeno 36 ore), qualifica professionale (durata corso: almeno  400 ore) e diploma di specializzazione (durata corso: almeno 300 ore).

Se state cercando un corso di formazione in ambito regionale, consultate i nostri elenchi alla pagina corsi e concorsi.

Nuovo lavoro? Come superare i primi giorni da neoassunto

Trovare “IL” lavoro è senza dubbio una delle esperienze più impegnative da affrontare. Dovrebbe essere noto che la ricetta per trovare l’impiego dei nostri sogni (più o meno) è una intricata formula alchemica in cui si mescolano in parti non uguali l’adeguatezza delle competenze e delle capacità al ruolo per il quale ci stiamo candidando (in primis), il saper comunicare noi stessi e le nostre aspirazioni nel modo migliore, un modo di presentarsi adatto e anche, ultimo ma discretamente importante, un pizzico di “fattore c”.

Posto quindi di aver messo in campo con successo tutto quello che serve per l’ottenimento del tanto sospirato contratto, arriva il momento di fronteggiare la situazione che più fa tremare i polsi dei neoassunti: quella dei primi giorni nel nuovo luogo di lavoro.
Se credete che con questo si intenda semplicemente la normale eccitazione che ci coglie quando siamo alle prese con delle novità importanti vi sbagliate di grosso: secondo Michael Watkins, ex professore della Harvard Buisness School e uno dei maggiori esperti sulla formazione dei ruoli di leadership nel lavoro, nonché autore di:I primi 90 giorni. Strategie di esordio vincenti per leader a ogni livello, sono i primi tre mesi a determinare il successo o il fallimento della propria carriera in un’azienda ed è quindi all’inizio che bisogna fare in modo di mostrare il meglio di sé, il che non vuol dire imparare tutto lo scibile sul proprio ruolo in questo ristretto periodo di tempo, ma mostrare quella commistione di intenzioni, atteggiamenti e potenzialità che possano confermare di essere la “persona giusta”.

Dello stesso parere è Russell Johnson, managing director dell’EPR Career Management il quale, come riportato in un articolo pieno di buoni consigli del blog Italians in fuga, afferma che: ”[…] una volta raggiunti i primi 90 giorni, o vi siete affermati oppure siete in crisi. E’ molto semplice: i vostri colleghi stanno formando le loro prime impressioni su di voi e queste sono molto difficili da modificare. […]”.

Premettendo che ogni situazione lavorativa è un mondo a sé, ci sono alcuni suggerimenti che sicuramente valgono in linea generale:

Prima di tutto, informarsi!
Ovviamente, diamo per scontato il procedimento di ricerca (sul web, tramite passaparola o recandosi di persona) di informazioni sull’azienda fatto al momento dell’invio della propria candidatura: una volta che si è diventati parte di quella realtà lavorativa, si deve fare un passo in più e studiarne da dentro la mission e lo stile, così da potersi, pian piano, uniformare.
Ma non solo: cercare di conoscere il prima possibile la disposizione degli ambienti fisici (bagni, zone ristoro, ambienti con determinate strumentazioni, uffici dei colleghi coi quali ci si dovrà rapportare maggiormente) contribuirà ad aumentare la propria professionalità e a rendersi indipendenti in meno tempo; in sostanza, a migliorare l’opinione che il restante gruppo di lavoro ha di noi. L’imperativo è quindi tenere ben aperti occhi ed orecchie e dedicarsi, almeno all’inizio, all’ascolto e al sempreverde “imparare con gli occhi” (e se c’è una mappa dei locali di lavoro, ricordarsi di studiarla!).

Non vergognarsi di non sapere.
Al contrario, fingere di avere la risposta a tutto e mostrarsi come qualcuno che non ha nulla da imparare può mostrarsi molto controproducente non solo per la formazione in azienda, ma anche e soprattutto per la costruzione del rapporto con i colleghi.
Bisogna mettere quindi in campo tutta la curiosità, l’interesse e la voglia di apprendere, magari organizzando un elenco di domande da porre durante questo primo periodo; è auspicabile appuntare tutti questi dettagli e informazioni da qualche parte, così da mostrarsi coinvolti e organizzare meglio le proprie mansioni (e magari evitare di chiedere ripetutamente le stesse cose).

Iniziare subito a costruire il rapporto con i colleghi.
Di importanza fondamentale durante questo primo periodo: essere sorridenti e positivi, saper ascoltare, mostrarsi aperti alla collaborazione e al gioco di squadra piuttosto che all’individualismo, evitare per quanto possibile le competizioni, i conflitti o l’immergersi nelle diatribe tra colleghi (che ci saranno sempre!), sono alcune delle buone pratiche da seguire per costruire una buona immagine di sé e per mettere un’ipoteca sulla propria permanenza (oltre che per evitarsi molte situazioni stressanti). Anche saper regalare buonumore è molto importante: meglio non sottovalutare l’importanza dei piccoli gesti, come il volersi fermare per la pausa pranzo assieme ai colleghi, o l’offrire di tanto in tanto un caffè, ma anche l’evitare di sovrapporre le proprie esigenze a quelle dei colleghi presenti da più tempo (un esempio su tutti è quello dei periodi di ferie).
Chiudiamo questo punto con un’informazione: non è affatto raro che i periodi di prova per un nuovo lavoro si concludano in un nulla di fatto a causa della mancata integrazione del neoassunto nel team dei colleghi.

Non dire no!
Non c’è niente di strano nel sentirsi inadeguati alle proprie mansioni durante i primi giorni. Ma non bisogna scoraggiarsi e soprattutto, non bisogna farsi la nomea di qualcuno che rimanda o evita i lavori. Provare ad eseguire tutti i compiti che verranno proposti (nei limiti di quello che vi sembra lecito, ovviamente) e imparare “strada facendo” è sicuramente una strategia vincente. Mostrarsi intraprendenti (senza esagerare), disponibili e allegri lastricherà la vostra strada verso il successo.

Dal canto nostro, non stiamo con le mani in mano riguardo questi argomenti! L’Informagiovani offre tanti servizi legati al mondo del lavoro e se avete bisogno di consigli o consulenze sulla vostra situazione vi basta venire a trovarci durante i nostri orari di apertura. A proposito, con il mese di settembre arriva una carrellata di eventi dedicati ad una ricerca efficace del lavoro: restate sempre aggiornati dalla pagina dedicata!

Vuoi saperne di più sul mondo del lavoro? Ti aspettiamo il 16!

Clicca e scopri come partecipare gratuitamente

 

Un lavoro felice

Come vi sentite quando state lavorando? Siete contenti, felici ed eccitati oppure tristi, amareggiati e depressi? Alzarsi la mattina per andare a lavorare è uno sforzo sovrumano oppure una eccitante emozione ogni volta? Le due situazioni sono gli estremi comportamenti che forse nessuno di noi ha mai provato realmente. La sensazione che abbiamo quando andiamo a lavorare però non è da sottovalutare: lavorare forse non potrà essere il massimo della felicità ma non può nemmeno essere una tortura quotidiana; come e dove troviamo un giusto equilibrio? Quanto in questo conta una accurata scelta del lavoro che facciamo? Quanto la preparazione e le competenze che coltiviamo possono aiutarci a trovare un lavoro che ci rende felici?

L’equilibrio che stiamo cercando per un lavoro felice si trova lavorando su due aspetti: da una parte le aspettative e dall’altro le offerte e le reali proposte di lavoro. Su entrambi i fronti a essere coinvolti non sono soltanto i dipendenti e collaboratori, ma anche i datori di lavoro e gli imprenditori che vorrebbero avere le persone migliori nella propria azienda. Partiamo con le aspettative: un’analisi fatta negli Stati Uniti ha evidenziato che è in aumento il turnover dei lavoratori in azienda (si tratta del tasso con i dipendenti lasciano un’azienda, ndr), conseguenza dle fatto che oggi i lavoratori si aspettano qualcosa in più di uno stipendio, seppur questo sia il motivo principale per cui lavoriamo. Per esempio una buona parte degli intervistati afferma di non voler lavorare per un’impresa che non ha assunto alcun impegno di carattere sociale o ambientale (e buona parte di questi si dice disposta a lavorare per un salario più basso a fronte di un impegno sociale e ambientale concreto ed evidente dell’azienda).  Un altro aspetto interessante, analizzato dalla società di consulenza Accenture, riguarda i motivi per cui i lavoratori si dicono infelici nel proprio posto di lavoro: mancanza di riconoscimenti, non condivisione alle politiche interne dell’azienda, mancanza di prospettive di sviluppo, problemi con il proprio superiore. Un ultimo dato riguarda chi un lavoro ce lo ha già: per la metà sono persone che mentre lavorano, stanno già cercando una nuovo opportunità. Non è certo l’atteggiamento di chi è felice del posto in cui lavora. Cosa possono fare coloro che si occupano di selezionare il personale per far ein modo che la persona giusta sia nel posto giusto con buona pace e felicità di tutti?

La risposta non è semplice ma abbiamo trovato on line due infografiche (che trovate qui sotto) che raccontano in sintesi quali possono essere le considerazioni da fare da una parte (chi cerca lavoro) e dall’altra (chi lo offre e seleziona il personale) per fare in modo che questi due “opposti” non solo si attirino ma al contempo si piacciano (le infografiche hanno il testo in inglese semplice; le abbiamo trovate qui)

 

 

Per quale professioni siete pronti

Per quale professione siete pronti?

Il mondo delle professioni non è mai stato così poco definito come oggi. Ci sono tanti professionisti che alla domanda “che lavoro fai?” non sanno realmente rispondere o non sanno farlo con un solo nome della loro professione. Il motivo è che attualmente le professioni è più facile descriverle come un insieme di competenze, piuttosto che come una mansione. Fino a qualche tempo fa la cosa non era così, anche contrattualmente: il mansionario, documento utilizzato all’interno delle organizzazioni lavorative, serviva proprio a definire chi faceva cosa e, di controverso, dire che professioni venivamo impiegate.

Le abilità richieste oggi negli ambienti di lavoro, soprattutto quelli meno classici, sono quelle che raccontano i problemi che sappiamo risolvere, gli obiettivi che sappiamo raggiungere e più in generale la nostra adattabilità e preparazione generica a stare in un luogo di lavoro. Questa terza categoria di abilità non è riservata solo ad alcune professioni ma riguarda un po’ tutti. Potremmo dire che sono le capacità che dicono se siamo realmente pronti per essere assunti. Per esempio: siamo in grado di essere puntuali? Sappiamo organizzare un lavoro semplice? Sappiamo gestire uno spazio di lavoro? Sembrano banali, ed alcune di queste lo sono, ma non tutte sono così scontate (se non ci credete provate a chiedere ad un datore di lavoro qualsiasi).

C’è un test da fare on line che si chiama “Skillage: sei pronto ad essere assunto?” con il quale ognuno può verificare se è realmente pronto per lavorare. Noi lo abbiamo fatto ed è stato pure divertente: vi raccontiamo un po’ che ce n’è parso.  Il test verte su 4 aree di competenze che sono “Idoneità a lavoro”, “Produttività”, “Comunicazione”, “Social Media”, “Gestione dei contenuti e sicurezza”. Prima osservazione: una buona aprte delle domande ha a che fare con le tecnologie e con internet in generale: non è più ammissibile che ci sia qualcuno che sta cercando lavoro e che di queste cose, anche poco, non sappia nulla. C’è una domanda che riguarda la fascia di età e, udite udite, da 16 a 24 anni siamo “cazzuti”, ma da 25 in poi siamo già “anziani” (una bella botta di realismo, anche se ironico). Per il resto le domande spaziano su competenze diverse: come utilizziamo i social network, con quali strumenti organizziamo banche dati e archivi, come gestiamo aspetti cruciali come quello della sicurezza e della riservatezze. Noi vi consigliamo di provarlo e verificare, con il report finale, quanto e cosa ancora dovete imparare.

serviziocivile

Un anno all’estero con il Servizio Civile Nazionale

Lo sapevi? Oltre a poter scegliere tra tanti progetti ed enti di accoglienza in Italia, grazie al bando del Servizio Civile Nazionale puoi andare all’estero, in Europa o fuori, a svolgere i 12 mesi di servizio civile.
I requisiti per partecipare sono gli stessi, e i posti previsti sono 708, distribuiti su Portogallo, Tanzania, Myanmar, Australia, Cuba, Tunisia, Brasile, Slovenia, Bosnia, Kenya, Kosovo, Mozambico, Senegal, Libano, Spagna, Bolivia, Madagascar… insomma, praticamente ovunque!

I settori nei quali è possibile svolgere il servizio civile sono assistenza e protezione civile, ma anche ambiente, educazione e promozione culturale, cooperazione internazionale, interventi di ricostruzione post conflitto o a seguito di calamità naturali, sostegno a comunità di italiani all’estero.

Per chi svolge il servizio civile all’estero, oltre all’assegno mensile di 433 euro, è prevista una quota giornaliera che va dai 13 ai 15 euro, a seconda del paese. Al volontario inoltre viene garantito vitto e alloggio, e il viaggio di andata e ritorno per e dal paese di realizzazione del progetto.

Anche per i volontari che vanno all’estero è prevista una prima fase di formazione e preparazione, che dura circa un mese e viene svolta in Italia: la formazione riguarda sia il servizio civile in generale (storia e funzione), che il contesto e le attività che si andranno a svolgere durante il servizio vero e proprio.

Per sapere quali sono i progetti tra cui scegliere, sia in Italia che all’estero, consulta la banca dati ufficiale, oppure approfitta di questa occasione:

Vieni a trovarci all’Informagiovani martedì 21: ci vediamo alle 11 per un incontro informativo dedicato

Potrai chiarire ogni dubbio sul bando del Servizio Civile Nazionale e Regionale, parlare con un esperto che ti darà brevemente le informazioni essenziali per poter partecipare, confrontarti e fare domande ai referenti dei progetti, conoscere l’esperienza di un volontario che è ancora in servizio. Non c’è bisogno di un’iscrizione e la partecipazione è gratuita. Ti aspettiamo!

Perché è importante scrivere bene (in italiano)

Scrivere bene in italiano è una competenza che spesso viene considerata scontata ma che nel tempo trova sempre meno adepti.

La conoscenza della lingua del proprio paese è, in teoria, un requisito fondamentale (l’italiano questo sconosciuto). Non solo per le attività professionali, ma anche per la vita di tutti i giorni. Allo stesso tempo però è altrettanto vero che alcune competenze linguistiche di base si indeboliscono: lo si può notare nella lingua parlata di tutti i giorni, negli articoli di giornale e, soprattutto oggi, nel brulicare di testi che ci sono su internet (compresi i post nei più diversi social network).

Di per sé questo, pur essendo un peccato per certi versi, non è un male in assoluto: le lingue sono vive, cambiamenti e trasformazioni fanno parte integrante del loro sviluppo (nel 2016 non utilizziamo le stese parole ed espressioni che venivano utilizzate nell’ottocento. Ciò che invece è decisamente più allarmante è l’aumento di errori grammaticali, anche per questioni linguistiche molto semplici: la “A” del verbo avere senza “H” che è decisamente grave. Ma ci sono anche altri errori oggi molto comuni : “po’” scritto con l’accento invece che la forma corretta “po’” con l’apostrofo; “qual’è” scritto con l’apostrofo mentre deve essere scritto senza; “davanti la casa” invece del corretto “davanti alla casa”; “fuori la porta” invece del corretto “fuori dalla porta”; le frasi introdotte da “malgrado che”, “a condizione che” prive di congiuntivo; le forme “sò” e “sà” del verbo “sapere” scritte con l’accento, mentre devono essere scritte senza; infine l’immancabile “piuttosto che” utilizzato come alternativa tra più opzioni invece di contrapposizione tra due soltanto (in altre parole è un sinonimo di “anziché” e non di “oppure”). La domanda di chi legge a questo punto potrebbe essere: a chi interessa tutto ciò?

La risposta a questa obiezione la lasciamo a due autori, Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, autore di un libro proprio sugli errori grammaticali (Senza neanche un errore, Sperling & Kupfer editore, 2016): “Oggi è più che mai importante esprimersi in un italiano corretto. Al tempo del web qualcuno pensa che ogni trasgressione linguistica sia lecita, in nome della libertà individuale a mettere in rete le proprie opinioni e i propri sfoghi. Ma nelle situazioni diverse dagli incontri nei social network si viene ancora giudicati in base alla lingua che si usa. L’italiano è il primo biglietto da visita di una persona: nelle interviste, nei colloqui di lavoro, nei contatti con chi non conosciamo, appena apriamo bocca o scriviamo una lettera o un curriculum, diamo di noi la rappresentazione più reale. Lo strafalcione, la costruzione sintattica zoppicante, la parola usata a sproposito rivelano immediatamente la mancanza di cultura, l’approssimazione, e perfino il poco rispetto nei confronti dell’interlocutore. Che cosa vuol dire, oggi, esprimersi in buon italiano? Significa, a nostro avviso, saper fare quattro cose: nel parlato, adattare il tono della lingua alla situazione; nello scritto, non trascurare gli aspetti formali; in entrambi, dominare le regole essenziali della grammatica e combinare le parole e le frasi in modo corretto“.

Più in generale dovremmo rifuggire dall’idea che se una espressione scorretta va bene per noi, possa andare bene anche per il pubblico che ci ascolta. Cosa può accadere con un errore grammaticale in una lettera di presentazione allegata ad un cv oppure dentro il cv stesso? Probabilmente ci preclude la possibilità di avere un’opportunità di lavoro. Direte voi: sì, vabbè, la sostanza però non cambia. E invece cambia eccome. Se sbagliate a scrivere in italiano (per ignoranza, sbadataggine, poca cura), che cosa potreste combinare con altre competenze che richiedono, si presume, un’abilità anche maggiore?

Emozioni in foto

Il prossimo 9 giugno torneremo a parlare di immagini, fotografia e di come queste possono diventare un potente strumento per rappresentare le proprie emozioni. Lo faremo ospitano Emanuele Maggini, fotografo anconetano che ha realizzato un interessante progetto con il carcere. In anteprima sul nostro blog un’intervista che gli abbiamo fatto per capire meglio che cosa è successo.
Il tuo progetto ha portato la fotografia in carcere: ci spieghi meglio di cosa si è trattato?

La mia esigenza in quanto fotografo è sempre stata quella di trasmettere sensazioni ed emozioni,con la fotografia si ha la possibilità di rendere tangibile ciò che abbiamo dentro. Ho sempre desiderato fare qualcosa di buono per gli altri con la mia passione e con il mio lavoro,quindi ho deciso di portare la fotografia in un contesto molto particolare,in un contesto,ovvero il carcere, dove la fotografia è totalmente assente. È stata una sfida anche con me stesso che poi ha portato a risultati eccezionali anche grazie alla presenza costante di mia sorella Alice dottoressa in scende e tecniche psicologiche che ha dato un contributo enorme alla realizzazione di questo progetto. Si è trattato di uno corso settimanale con lezioni di due ore, dove è stata insegnata l’importanza della fotografia come mezzo di comunicazione in tutti i suoi aspetti ( racconto autobiografico, mezzo pubblicitario e come portavoce di contenuti inconsci) il tutto accompagnato da slide con esempi di fotografie tipo. Si è poi proseguito con l’insegnare la tecnica base della fotografia (tempi, diaframma, regola dei terzi, luci). Tutto quello che è stato imparato al corso i detenuti lo hanno messo in pratica, realizzando foto da loro progettate che potessero esprimere i loro contenuti.

Come mai hai pensato alla realtà carceraria? Nella tua percezione che tipo di stimolo,valore poteva avere la fotografia in quel contesto?

La mia esperienza personale e professionale mi ha portato alla consapevolezza di quanto la fotografia possa essere un potente mezzo per poter comunicare molto più di quanto possa essere detto. Ha il potere di poter esprimere contenuti scomodi e dolorosi di chi fotografa con eleganza e meno sofferenza e al tempo stesso la capacità di richiamare emozioni proprie in chi la guarda. Ho così pensato che potesse essere un valido sostegno farla entrare nella realtà carceraria. E che potesse offrire un valido ponte per tirare fuori l emotività di un utenza che ero sicuro avesse molto da comunicare e che poi potesse riavvicinare la comunità libera alla penitenziaria, avvolte questi due mondi sono così distanziati da stereotipi e pregiudizi che creano le vere sbarre della reclusione. Va aggiunto che secondo la costituzione il carcere è un sistema rieducativo e non mi dispiace l’idea che dopo questo corso teorico e pratico al quale ho rilasciato anche un attestato, finita la detenzione, qualcuno decidesse di fare buon uso di questa esperienza, appassionarsi a questa arte, così da farne un lavoro a tutti gli effetti.

Come è stato accolto dai detenuti il tuo arrivo? E la tua proposta?

La prima lezione è stata una di quelle più particolari, si avvertiva l’emozione ambo le parti, da parte mia sebbene avessi già sostenuto corsi importanti entrare nel contesto carcerario mi dava un mix di alte aspettative e paura, i ragazzi dall’altra parte erano incuriositi da questo corso innovativo mai fatto prima non avevano mai affrontato la fotografia in un contesto carcerario,alcuni di loro prima, e non sapevano cosa aspettarsi, abbiamo da subito appreso che il sistema detentivo lascia poco spazio alla comunicazione e che si erano iscritti a questo corso alla ceca senza sapere di cosa so trattasse ne con che modalità, hanno quindi iniziato a riempirci di domande e questo a facilitato il momento della presentazione, da lì in poi abbiamo instaurato immediatamente un bellissimo rapporto insegnantei-alunni che ci ha portato a collaborare in maniera eccezionale e professionale.

La fotografia nel tuo caso è stata un’esperienza artistica più che tecnica: possiamo dire che l’arte riesce a liberare le persone? In questo caso non hai corso il rischio di acuire ancor più il senso di libertà? Se ce stato questo rischio come lo avete superato?

La parte tecnica è stata fondamentale nell’insegnare a loro come poter utilizzare questo mezzo di comunicazione in maniera idonea, poi effettivamente la parte artistica è stata prevalente e molto più stimolante dato che il fine principe del progetto era di tirare fuori emozioni ed imprimerle in uno scatto. Il percorso per creare una foto è: concentrarsi su un pensiero, riflettere a fondo su di esso e imprimerlo. Progettando il corso io ed Alice abbiamo più volte riflettuto sul pericolo effettivamente di acuire il senso di perdita della libertà e abbiamo fatto molta attenzione ad usare immagini e parole che limitassero quanto più possibile questo pericolo. Ma l’arte è sinonimo di libertà di pensiero non fisica, e offrire loro un percorso che potesse restituirgli un po’ della loro individualità persa con l’entrata in carcere e la possibilità di comunicare anche contenuti indicibili è stata una cosa molto apprezzata dai detenuti. Abbiamo da subito compreso che la vera condanna non è la reclusione fisica ma lo smarrimento della propria personalità. Esistono celle di ferro ma anche delle prigioni mentali, l’offrire l opportunità di tirare fuori quello che avevo dentro dentro positivo o negativo, e poterlo raccontare oltre le mura, li ha secondo me per una frazione di secondo resi, veramente liberi.

In questo percorso sei stato coadiuvato da un dottoressa in scienze e tecniche psicologiche: quale è stato il suo contributo e quale, se possibile, la sua analisi dei risultati ottenuti?

Maggini Alice dottoressa in scienze e tecniche psicologiche ha contributo prettamente alla parte emotiva del corso. Il suo ruolo è stato finalizzato alla spiegazione della fotografia come veicolo di contenuti emotivi che in questo particolare contesto può rivelarsi strumento portavoce di sentimenti anche scomodi e dolorosi, ma che sono inevitabilmente presenti, anche se non detti, come anche di elementi positivi che esistono anche se si fatica a vederli in un contesto così duro e restrittivo. Portando poi i detenuti a far emergere questi sentimenti e individuando con il gruppo gli oggetti che potessero rappresentarli. Oggetti che poi sono stati utilizzati nel set e che i detenuti hanno utilizzato per le foto prodotte in still-life.
Alle luce di quanto emerso dalle foto prodotte la Dott.ssa Maggini Alice ritiene che l’ obiettivo del progetto sia stato raggiunto a pieno, considerando l’evolversi delle dinamiche di gruppo nelle varie fasi del progetto. Partito con un utenza che se pur ben disposta e pronta al dialogo è risulta nelle prime fasi palesemente in difficoltà a fermarsi su certi contenuti emotivi e non abituata a lavori che coinvolgono l’ emotività e che alla fine ha prodotto foto che raccontano di temi importanti come il rimorso, la solidarietà, la nostalgia e tanto altro. Particolarmente importante risulta il lavoro sul “tempo che scorre” tematica che come si può ben immaginare ha creato non poco disagio nel gruppo (utenza che nella maggioranza ha 10 e più anni di reclusione da scontare), argomento tanto fastidioso da essere considerato in prima istanza tabu e che alla fine del progetto risulta essere l’elemento principe della maggior parte delle foto.
Hai realizzato un corso di fotografia e quindi avevi un’aula anche se del tutto particolare; come è stato il rapporto umano con questi alunni? Cosa hai notato di diverso dalle altre aule.

Come ti dicevo prima,ho insegnato in molto corsi,con tantissimi partecipanti,non è stato poi cosi diverso a parte la presenza delle telecamere e le regole restrittive in cui ho dovuto giostrarmi. Ho trovato nell’utenza molta educazione e disciplina e soprattutto interessata e collaborativa, il rapporto è stato sempre insegnante-alunno come sempre faccio,in questo caso a maggior ragione ma ovviamente non sono mancate risate e momenti meno impegnativi dove poter scambiare due parole in tranquillità. Non sono mancati anche momenti di tensione soprattutto quando si è andati a toccare le emozioni che solitamente sono tenute al di fuori delle mura carcerarie e che come ci hanno più volte spiegato i detenuti se e quando emergono sono in questo contesto amplificate. Io e Alice ci siamo sempre concessi un momento di restituzione alla fine del corso dove io e lei discutevamo insieme su ciò che era emerso nella lezione, sui contenuti emotivi che ci portavamo via e su quale strategie adottare nella prossima lezione, siamo così riusciti a fronteggiare il tutto al meglio creando un bellissimo rapporto con la classe tanto che a fine corso per i saluti finali ci sono stati momenti toccanti conclusi con un arrivederci. I detenuti hanno pensato di salutarci scrivendoci delle lettere di ringraziamento da come ricordo per quanto abbiamo fatto insieme. È stata una cosa molto emozionante.

Ci puoi dire se questa esperienza ha cambiato il tuo modo di vedere la realtà carceraria e se si in quali termini?

Ho sempre pensato che il carcere debba essere rieducativo e non prettamente punitivo ,per molti di loro come ci hanno detto tramite lettere la punizione più grande è dentro di loro,quella di dover convivere con rimorsi e sensi di colpa. È stata un’esperienza molto intensa che mi ha portato a ragionare a fondo sulle conseguenze delle nostre azioni di tutti i giorni,sia piccole che grandi,sia positive che negative. Mi hanno fatto capire l’importanza della vista ,della libertà,della possibilità di scegliere,l’importanza di una carezza e il peso di uno schiaffo.

In che modo invece pensi possa essere stato utile per i detenuti?

Prima di tutto,la nostra presenza li ha stimolati a conoscersi, confrontarsi,a interagire con noi che venivamo da oltre le mura, hanno inoltre imparato un mestiere,che ovviamente in caso in un futuro lavoro come fotografo andrà rinforzato ma alcuni di loro hanno lasciato questa porta aperta per quando usciranno…e cosa più importante sono riusciti a tirar fuori ciò che avevano dentro con loro sorpresa,sono loro che hanno preso la reflex,calcolato la luce,creato il set e fatto lo scatto….creando delle vere e proprie opere che raccontano di loro. Secondo me sono stati straordinari.

Ci dici quali saranno i prossimi passi e come altre persone posso avvicinarsi a questa esperienza anche solo per conoscerla? E per conoscere i lavori fatti?

Certamente, abbiamo in previsione diverse mostre in tutte le Marche, partendo da Ancona ovviamente per poi fare altre tappe a Senigallia, Jesi ed altre città. Non saranno solamente mostre dove verranno esposte le foto dei detenuti ma faremo anche degli incontri aperti al pubblico dove io e Alice parleremo di questa straordinaria esperienza (l’appuntamento ad Ancona è per il 16 giugno nella sala dell’Informagiovani, in piazza Roma; ndr)

Che obiettivi può avere nel tuo futuro questa esperienza? Possiamo dire che ci sarà un continuo?

Una delle cose che ho capito ancor prima di iniziare il corso è che niente è impossibile,nonostante molti dicevano che non ci sarei riuscito per molte ragioni,quindi continuerò a portare avanti questo programma facendo altri corsi in tutta italia,ci hanno già contattato altri carceri per organizzare mostre,corsi ed incontri. Ho fatto della fotografia la mia disciplina,il mio stile di vita,ne ho ulteriore avuto conferma dell’importanza, quindi poterò sicuramente avanti altri progetti come questo. La cosa straordinaria è che questa esperienza ha formato loro quanto noi e vorrei ricordare che senza la disponibilità del Carcere di Montacuto,senza la determinazione e la voglia di cominciare dei detenuti con le loro stupende foto, tutto questo non sarebbe mai potuto accadere. Quindi ringraziamo tutti loro.

Vorremo infine ringraziarvi per questa bellissima intervista che ci avete fatto, per noi è stato importante il lavoro che abbiamo fatto dentro al carcere quanto riuscire a portarlo all’esterno, grazie ancora.

Lo faccio domani (l’arte poco nobile di rimandare)

Vi è mai capitato di avere un sacco di cose da fare? E di decidere di farle un altro giorno? La frase “lo faccio domani” crediamo sia abbastanza diffusa sia tra chi di noi è meno efficace ed efficiente, sia tra chi ha invece un sacco di cose nella propria lista delle attività da fare. In altre parole rimandare è un vizio piuttosto facile da prendere. Così succede che dovremmo preparare una relazione, controllare un budget, scrivere (magari anche un post come questo) ma prima di iniziare ci concediamo una visita a Facebook, poi clicchiamo sul link che il nostro contatto ha condiviso e da lì partiamo per altri “lidi”. A quel punto la nostra testa non è più concentrata su quel che avremmo dovuto fare e si perde per altri rivoli, senza una meta.

Perché questo accade? Un po’ senz’altro per mancanza di disciplina. Alcuni ricercatori considerano la procrastinazione fondamentalmente come l’incapacità di sapersi organizzare, come succede per altre cattive abitudini legate alla mancanza di autocontrollo, come l’abuso di cibo, i problemi con il gioco d’azzardo o la tendenza a spendere troppo. Per altri, invece, non ha a che fare con la pigrizia o la cattiva gestione del tempo, come possono dimostrare molte persone brillanti che hanno risultati sopra le media e tendono comunque a procrastinare

Per alcuni psicologi rimandare è una sorta di autodifesa: evitiamo un compito perché ci mette ansia senza restituirci una sensazione positiva. Per intenderci non è l’ansia che potremmo avere prima di giocare una partita del nostro sport preferito: quel tipo di ansia la superiamo solitamente con la voglia di giocare, di stare insieme agli altri, di vincere. Si tratta invece dell’ansia che ci fa sentire in colpa e ci fa vergognare perché non siamo all’altezza del compito da svolgere oppure non abbiamo fatto quel che dovevamo.

Il meccanismo con il quale agisce chi rimanda a domani funziona più o meno così: siccome la paura o l’ansia per il compito che ci aspetta sono insopportabili, sostituiamo quel compito difficile con uno più facile, comodo e divertente. Il comportamento è reiterato fino a che l’incombenza è troppo urgente e importante per non essere affrontata; a quel punto però diventa anche di più difficile gestione e soluzione. Esempio: dovremmo fare un certo esercizio di matematica per la lezione che avremo fra 3 giorni; oggi non la affrontiamo perché ci sembra di avere ancora molto tempo; domani ci avviciniamo all’esercizio ma ci distraiamo con altro; il terzo giorno, con sorpresa, abbiamo anche poco tempo per finirlo. Come lo risolveremo secondo voi? Sicuramente non con la nostra migliore performance. Senza contare che per qualcuno è preferibile non presentarsi a scuola piuttosto che affrontare l’esercizio e risolverlo, aggravando così ancora di più la situazione. Ma questo circolo vizioso non è proprio solo della scuola, accade con una certa frequenza anche agli adulti nel posto di lavoro.

Gli psicologi concordano sul fatto che il problema dei procrastinatori è che, invece di rimanere concentrati sui loro obiettivi a lungo termine, sono tentati a cedere alle gratificazioni immediate, che innescano quella forma di sollievo istantaneo che gli psicologi definiscono  “piacere edonico”. Gli obiettivi importanti sono più difficili ma a lungo andare portano una sensazione di benessere e soddisfazione più durevole. Se cadiamo nel tranello di pensare soltanto all’immediato e non vedere un futuro, quello che possiamo fare è cominciare a essere più attenti alla nostra dimensione futura e allo stesso tempo provare a risolvere i nostri compiti un pezzo alla volta. C’è una famosa domanda che si fa nelle sessioni formative in cui si tratta della gestione del tempo e delle risorse: come si mangia un elefante intero? La risposta più banale ma anche più giusta è: un pezzo alla volta. Questo significa che se il compito che abbiamo ci appare troppo grande, possiamo sempre spezzettarlo in compiti più piccoli, in fasi, che possiamo affrontare con maggior tranquillità e più efficacia. Provate a pensare al vostro prossimo compito come ad un puzzle: prima o poi lo finirete, basta mettere insieme un pezzo alla volta.

 

Fermatevi un anno

Sapete che cosa è un “gap year“? Il “gap year” è il modo in cui gli anglosassoni chiamano l’anno in cui decidono di prendersi una pausa. Sì, esatto, un anno di pausa da qualsiasi attività professionale (intendendo con questo anche l’inizio della carriera universitaria). Forse la cosa potrà sembrare strana per la nostra cultura, soprattutto oggi che siamo portati a pensare che ogni minuto passato a non far nulla è tempo sprecato. In alcuni paesi esteri invece il “gap year” è una prassi conosciuta, in certi casi consolidata, qualche volta addirittura consigliata. Quale potrebbe essere il vantaggio di dedicare un anno all’ozio?

Innanzitutto non si tratta di ozio come generalmente viene inteso. Esiste l’ozio creativo, che è quella condizione nella quale lavoriamo (o comunque facciamo qualcosa di produttivo, per noi stessi o gli altri) anche se non ne abbiamo consapevolezza, coscienza e intenzione. Il sociologo che ne ha definito caratteristiche e confini lo ha fatto in un libro che si intitola proprio “L’ozio creativo” (Domenico De Masi, Ediesse 1995). Quindi, una prima questione è che anche quando decidiamo di non fare nulla, in realtà stiamo producendo: ideiamo progetti per il futuro, immaginiamo come potrà svilupparsi la nostra professionalità o la nostra vita, fantastichiamo su dove vorremmo andare o come vorremmo vivere, ci dedichiamo a un hobby, coltiviamo una passione e altre cose del genere. Attenzione: deve essere però una scelta, cioè deve essere intenzionale. Per intenderci, giocherellare e perdersi tra i post di Facebook non è ozio creativo :-).

A ogni modo il “gap year” non è solo ozio, anche se creativo. In realtà è un modo interessante e intelligente per scoprire veramente di che pasta siamo fatti. Per prima cosa il “gap year” è anche e fondamentalmente un anno trascorso a vivere esperienze originali, inconsuete, diverse dalla routine o dalla programmazione che la maggior parte delle persone fa della propria vita. Per prenderci un anno di pausa dobbiamo quindi decidere come utilizzeremo quel tempo e cosa decideremo di fare: dovrà essere un’esperienza che non è dettata dalla funzionalità o da un obiettivo utilitaristico. Molto semplicemente si tratta di scegliere di fare cose ci piacciono e che ci fanno stare bene senza necessariamente che questo ci porti un utile, in qualsiasi senso lo intendiamo.

Se avete modo di ascoltare il racconto di chi ha fatto questa esperienza, vi dirà sicuramente che il “gap year” è stato fondamentale (a questo link http://goo.gl/71WTb5 potete trovare il racconto di una di queste storie; in inglese): l’esperienza può essere il punto di svolta di una vita, aiuta ad aprire gli occhi sul mondo, a respirare aria nuova per fare scelte migliori per il proprio futuro sopratutto per gli studenti. Per esempio, dal racconto di chi lo ha fatto e che potete leggere la link che vi abbiamo segnalato, scopriamo che un anno trascorso a vivere esperienze originali aiuta a comprendere meglio la diversità delle persone e come l’interpretazione del mondo in cui viviamo possa essere molto diversa dalla propria, a migliorare le capacità di adattamento di una persona, a essere maggiormente indipendenti. Se poi un anno di pausa è un anno trascorso all’estero, l’esperienza diventa ancora più interessante perché si aggiungono la conoscenza di una lingua estera, quella di una cultura diversa, la possibilità di avere contatti internazionali. Un anno di pausa può insegnare molte più cose di 10 anni si scuola e formazione.

Il nostro consiglio? Se per esempio siete nell’anno della maturità e state per affrontare la scelta (se non l’avete già fatta) di che cosa fare nella vostra vita, prendete in considerazione il fatto che un “gap year” potrebbe essere per voi la vera svolta.

 

Come prendiamo le nostre decisioni?

Come mai alcune persone decidono di diventare imprenditori e altre no? Perché preferiamo rimandare (decisioni, lavori, impegni) piuttosto che fare quel che occorre? Come reagiscono le persone davanti a una perdita o a un guadagno? Cosa motiva in generale le persone? Come prendiamo le nostre decisioni? A queste domande e ad altre ancora cerca di rispondere una recente disciplina, chiamata neuroeconomia.

Il termine neuroeconomia deriva dall’unione di due discipline che possono sembrare distanti tra loro: la prima indica lo studio del cervello, del sistema nervoso e di come influenza ed è influenzato dall’ambiente che lo circonda. La seconda, invece, studia come due soggetti interagiscono tra loro, attraverso scelte più o meno razionali, utilizzando le risorse che possiedono o sono presenti nel loro ambiente.

L’obiettivo della neuroeconomia è capire come si comporta il cervello durante i processi di decisione. In particolare in quelli di decision making, quando nella scelta sono implicati fgattori economici: dalla semplice spesa in un supermercato, all’acquisto o vendita di un titolo azionario. Modi di agire che in linea di principio sono legati alla sfera economica, ma che effettivamente derivano da comportamenti spcifici del nostro cervello.

Questa disciplina si basa su strumenti, ormai sempre più diffusi, come il PET (Tomografia ad emissione di positroni https://it.wikipedia.org/wiki/Tomografia_a_emissione_di_positroni), la risonanza magnetica e altri strumenti di indagine del nostro cervello che permettono di capire come reagisce agli impulsi esterni.

Per esempio, sono stati realizzati alcuni studi su trader  professionisti e sulle emozioni che si scatenano durante le operazioni di borsa. È stato osservato che nei momenti cruciali delle decisioni si attivano nelle menti degli operatori due dinamiche di pensiero: quella emozionale e quella razionale. Spesso è la prima a predominare sulla seconda. Attraverso questi studi risulta chiaro che l’ansia è maggiore quando le variabili esterne sono impreviste. Prendere decisioni è sempre stata considerata un’attività razionale e consapevole, in cui l’individuo che decide agisce esclusivamente in base alla massimizzazione del proprio interesse. La neuroeconomia attraverso studi e ricerche mette questa convinzione in discussione, fornendo prova che nel momento in cui si prendono delle decisioni hanno molta importanza le esperienze, le emozioni e i processi mentali involontari.

Quante volte siete andati in ansia per una scelta difficile? Quante volte abbiamo pensato di fare la scelta sbagliata? Non preoccupatevi, rilassatevi: la neuroeconomia ci insegna che per quanti sforzi possiamo fare la nostra scelta non sarà mai perfettamente razionale.

(questo articolo è stato scritto da Ilaria Carrasso)

Volontariato, concime per la vita

La bella notizia è che il numero dei giovani che fanno volontariato è in crescita. In risposta a un’indagine Istat del 2010, che rivelava un aumento dei ragazzi cosiddetti “NEET” (inattivi), il CSVNET (Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato) ha riscontrato successivamente un netto aumento  di giovani volontari sia in Italia che in Europa.

Da ulteriori indagini è stato rilevato che più cresce l’età più ci si avvicina al volontariato: una ulteriore indagine rileva che i volontari in Italia sono più di 800mila ed il 22,1% di loro ha meno di trent’anni. Il dato è estremamente positivo ed incoraggiante, se pensiamo che ci troviamo in una società  caratterizzata da un profondo “individualismo”.

la sua parte forse l’ha fatta anche la politica europea che ha intitolato, per così dire,  il 2011 come l’anno europeo  del volontariato: l’intenzione era quella di promuovere il volontariato come integratore di coesione sociale e motore di sviluppo della  democrazia.

A distanza di cinque anni, sulla scia di quell’esperienza positiva, l’Unione Europea ha rafforzato il messaggio ponendosi altri obbiettivi su come migliorare le condizioni del volontariato: ci sono allo studio misure per  favorire il riconoscimento del lavoro dei volontari, sensibilizzare i cittadini sull’importanza ed il valore del volontariato, insistere sulla promozione partendo dalle scuole e dai centri di aggregazione giovanile.

Come per altre politiche ed azioni europee, il risultato auspicabile è quello di creare una sorta di una “spirale benefica”. L’idea è quella di accendere i riflettori su questo fondamentale concime per la società, attraverso campagne di informazione e promozione, la divulgazione, lo scambio di esperienze, l’organizzazione di eventi, convegni, manifestazioni.

In un momento di forte crisi, non solo materiale ma forse anche personale, di perdita di valori e fiducia in se stessi, il volontariato si presenta come una pietra preziosa su cui fondare la ricostruzione e il rilancio della società: perché favorisce la trasmissione di valori fondamentali, perché offre una risposta concreta ai problemi, perché stimola la crescita degli individui, perché rappresenta un incredibile aiuto per il prossimo.

Se questi temi hanno acceso un po’ del vostro interesse ma soprattutto trovano anche un po’ della vostra passione, all’Informagiovani potete muovere i primi passi: tra le cose che potete trovare nel materiale a vostra disposizione ci sono elenchi di associazioni e organizzazioni locali e internazionali, attività e servizi da svolgere, programmi di volontariato europeo, iniziative pensate appositamente per chi vuole dedicare tempo ed energie per aiutare gli altri. E forse anche se stesso. Che aspettate? Magari scoprite una porta che vi apre un mondo nuovo.

(questo articolo è stato scritto con il contributo di Edy Paccapeli)

Mamma, voglio diventare Youtuber!

Secondo la rivista americana “Variety”, gli Youtuber sono amati dagli adolescenti più delle star di Hollywood. I teen-ager e in generale i nativi digitali costituiscono la fetta maggiore di frequentatori del web. Quindi non è difficile intuire che con Youtube (e altri social) è possibile diventare ricchi e perseguire, spesso in maniera del tutto illusoria per alcuni ingenui, l’obiettivo di “ fare soldi senza fatica ”.
Se si considera che nel 2015 si sono superate le 300 ore di video caricate ogni minuto, perdersi nella massa è quasi la regola, quindi pensare che si possa sfruttare in modo non strategico e ragionato questo mezzo, lasciando che la “barca vada”, è appunto il modo migliore per affondare.

Sara Mormino, l’italiana responsabile mondiale delle partnership di YouTube, durante un’intervista a “La Stampa”, regala dei consigli e rivela che l’unico modo di avere qualche chance nella realtà paritaria (ma forse non meritocratica) del web, è partire sempre da una passione autentica, un qualcosa di assolutamente personale, pur tenendo in considerazione che ci sono temi che funzionano più di altri. I videogiochi su tutti. Infatti, nella classifica fornita da Wikipedia, aggiornata al 7 Febbraio 2016 (dominata quasi completamente da Youtuber americani), ancorato al primo posto c’è PewDiePie, username di un ragazzo svedese il cui canale di recensioni di videogiochi conta 42 milioni di iscritti. Ma come si traduce questo in termini lavorativi e monetari?

Per avere un’idea di quanto sia proficuo “ l’affare video”, vi facciamo presente che YouTube ha fondato una Creator Academy dedicata ai suoi autori, gratuita e aperta a chiunque voglia approfondire i temi legati alla gestione e alla produzione strategica dei propri contenuti su YouTube, con lezioni via Internet, incontri dal vivo, presentazione di casi di successo e lezioni di introduzione sulla monetizzazione con Youtube (ad esempio attraverso il programma “Partner di Youtube”).

Contenuti che interessino, titoli giusti e tag ottimizzati per le keyword cercate maggiormente su Internet, sono alcune delle “regole d’oro” da seguire per fare un buon lavoro. Perché essere uno Youtuber può diventare un lavoro e rappresenta un’occasione soprattutto per i giovani che, oltre ad essere i maggiori utilizzatori di Youtube, sono stati anche tra i primi a “sperimentare con i video”, sempre secondo la testimonianza della Mormino al sito web della Stampa.

In un periodo storico come il nostro, in cui i mantra sembrano essere quello della “flessibilità”, del “crearsi il lavoro” e del “diventare imprenditori di se stessi”, Youtube, che presenta dei costi vivi e dei costi fissi piuttosto contenuti, se usato intelligentemente può diventare la piattaforma ideale per far emergere il proprio talento, guadagnare e, perché no, nutrire il piccolo (o grande) mostro dell’egocentrismo che alberga in tutti noi.

(questo articolo è stato scritto da Viola Ferri)

Cosa sono le competenze?

Sono in molti a pensare che i lavori di domani si fonderanno sulle competenze piuttosto che sui titoli. Spieghiamo la differenza, almeno a nostro modo di vedere. I titoli sono “etichette” che possiamo metterci ed esibire quando qualcuno ce le consegna. Così diventiamo ingegneri, per esempio, solo quando, dopo un percorso universitario, otteniamo il titolo di studio della laurea in ingegneria; oppure siamo giornalisti solo quando un ordine, previo apposito iter ed esame, dichiara che possiamo firmare articoli di giornali e riviste. Niente di male, per carità. Solo che questo meccanismo oltre ad avere indubbi vantaggi (pensate ad esempio alla professione del medico, per la quale il titolo garantisce uno standard di qualità e sicurezza per tutti) ha anche qualche pecca. Per esempio non contempla professioni emergenti che, non rientrando dentro nessuna categoria già preordinata, sfuggono anche a titoli di qualsiasi genere (quando potete dire di essere social media manager?).

Ma il difetto, se così lo vogliamo chiamare, più grande è la logica che sottende a questo tipo di impostazione. Avere un titolo ci fa pensare (a volte pretendere) che sia nostro diritto avere anche un lavoro, una mansione retribuita per quel tipo di titolo. Non che la pretesa sia assurda, ma cosa succede se dato un tot di laureati in giurisprudenza non ci sono posizioni sufficienti per tutti? La risposta nella realtà la conoscete tutti. Questo meccanismo non è sbagliato in senso assoluto, solo che non corrisponde più e non è più adattabile all’attuale mercato del lavoro.  Proviamo avedere se, diversamente, può accadere qualcosa di diverso partendo dalle competenze.

Innanzitutto: cosa sono le competenze? Etimologicamente competenza deriva dal tardo latino competentia, sostantivo di competere (cum, insieme, più petere, dirigersi verso, cercare di avere, aspirare). Competere significa dunque: –Incontrarsi, convergere al medesimo punto –Concordare –Spettare, essere applicabile –Essere padrone di se stesso, cercare insieme (allo stesso tempo) di ottenere qualcosa –Essere adatto, capace di (in senso figurato). Riprendendo una definizione più vicina ai temi del lavoro, proposta da ISFOL, la competenza professionale è un insieme di elementi/dimensioni che concorrono all’efficacia di un comportamento professionale; è finalizzata all’azione ed è intrecciata alla capacità di fare e alla conoscenza delle situazioni e dei contesti. insomma dentro la competenza c’è tutta la nostra professionalità; e l’insieme delle nostre competenze fa di noi professionisti di un determinato campo. Avere delle competenze, quando cerchiamo lavoro, dovrebbe farci fare questa domanda: a chi possono essere utili? L’ottica, rispetto a quella del “posto di lavoro” per titoli, è nettamente diversa anche se il risultato atteso è identico.

Se cominciamo a porci nel mercato del lavoro come professionisti in grado di offrire delle competenze la strategia che dovremmo seguire non è tanto quella di trovare un posto, quanto quella di capire quale bisogno o quale utilità possiamo offrire a chi ci potrebbe pagare per avere i nostri servizi. Il meccanismo che regola questa strategia è lo stesso che seguono aziende ed imprenditori quando decidono di posizionarsi in un mercato. C’è un libro che racconta meglio e in maniera più esaustiva tutto questo: è “Business model you” di Tim Clark, tradotto anche in italiano dalla casa editrice Hoepli. Ah, se volete potete consultarlo gratuitamente anche all’Informagiovani!

Concentrazione minima

“Attenzione!” è questo l’incitamento che con maggiore frequenza e facilità troviamo in contesti diversi della nostra vita: per strada, a scuola, in casa. “Attenzione” è un ammonimento, ma anche un avvertimento, che richiama all’ordine prima il nostro sguardo e poi la nostra mente. La nostra mente ha, infatti, una forte inclinazione a disimpegnarsi, a divagare (e la frequenza con cui questo richiamo viene fatto ne è la dimostrazione). A chi non è capitato di distrarsi? O, meglio, chi non è mai distratto? La disattenzione, a parte i film di spie e 007, è un fattore intrinseco dell’essere umano: tutti noi ci distraiamo (e peggio sarebbe se non fosse così).

La mente umana, spesso e volentieri, vaga senza una meta apparente: non significa che sia inattiva, semplicemente non è focalizzata su di un obiettivo (e quel “attenzione!” magari gridato serve proprio a ricondurci all’obiettivo). Quando ci capita di distrarci, però, non è che il nostro cervello se ne stia lì ad oziare: nel concedersi spazi di svago, nel distaccarsi dalla contingenza la mente esercita anche altre facoltà, con esisti vantaggiosi per noi stessi e gli altri. E allora: a che cosa pensiamo quando non pensiamo a nulla? In un libro intitolato “The wandering mind” (sottotitolo tradotto: che cosa fa la mente quando non guardi”) si cerca danno più risposte a questa domanda. Quello che il nostro cervello fa durante lo “svago” è una ricombinazione di stimoli che durante la fase di attenzione ha ricevuto. La nostra memoria è composta infatti da tre sostanziali livelli. Il primo è quello delle competenze (skills) come per esempio parlare, camminare, scrivere, ecc. Il secondo livello è quello delle conoscenze (knowledge): si tratta dell’insieme delle nozioni che abbiamo ricevuto, in tutti i contesti in cui le abbiamo assimilate (non solo, quindi, la didattica formale). E infine quella che viene definita più comunemente come memoria, cioè la capacità di ricordare, riattivare esperienze del passato. Su questo ultimo livello la nostra mente, stranamente, propende più a guardare la futuro che non al passato, tanto è vero che le zone cerebrali che si attivano ricordando eventi del passato, sono le stesse che si attivano quando pensiamo al futuro.

Se paragoniamo il nostro cervello ad una città, nelle fasi di ozio non è che le strade siano deserte, ma gli abitanti attendono a casa propria salvo confluire in un medesimo posto quando accade un evento importante. Quindi quando divaghiamo, in realtà viaggiamo: oltre che tornare al passato, facciamo anche dei viaggi futuristici immaginandoci possibili scenari futuri. E poi facciamo anche un’altra cosa incredibile: secondo la “teoria della mente” abbiamo l’attitudine a rappresentarci gli stati mentali altrui. In altre parole ci facciamo delle domande e cerchiamo delle risposte su quello che potrebbero pensare gli altri. A volte facciamo anche il salto del cosiddetto “mettersi nei panni degli altri”: sviluppare la disposizione a mettersi nei panni altrui aumenta ala possibilità di comprensione reciproca, di empatia e interesse sociale, con evidenti vantaggi per la sopravvivenza del gruppo.

Questo vagabondare della nostra mente è anche alla base della creatività: si passa dalla fantasticheria privata a un esercizio sociale dell’immaginazione; è il piacere di girovagare nella mente altrui che ci induce a creare personaggi d’invenzione, apposta per questo scopo; ed è il piacere di spostarsi nel tempo che ci porta a inventare trame e storie. Anche l’attività di narrare è una forma di adattamento: i nostri remoti progenitori sono letteralmente diventati umani narrando, usando cioè il linguaggio per riferire, condividere, tesaurizzare esperienze ritenute rilevanti.

D’ora in poi quando qualcuno ci coglierà nel pieno della nostra distrazione potremo rispondere a quel monito (attenzione!) dicendo tranquillamente che stavamo viaggiando per raccontare storie e che quello che riusciremo a produrre grazie a questo metodo sarò molto più proficuo di quanto verrebbe fuori se rimanessimo instancabilmente focalizzati su di un solo obiettivo. Con buoan pace di chi ci vorrebbe soltanto come task manager, siamo in realtà dei poeti sognatori. 🙂