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Le competenze informatiche sono essenziali

Solitamente ormai si danno per scontate, ma le abilità nell’utilizzo del pc non sono un patrimonio comune. E, soprattutto, bisogna intendersi su che cosa significhi oggi sapere e potere utilizzare in maniera adeguata un computer. Se leggete questo post, quantomeno avete la padronanza minima della navigazione in internet e siete arrivati in qualche maniera a visualizzare queste righe. In Italia questa capacità non ce l’hanno tutti ed il problema non è tanto e solo di spendibilità nel mercato del lavoro ma anche di accesso alle opportunità. Significa che chi non sa utilizzare un computer non solo ha meno possibilità di trovare un lavoro dignitoso ma già oggi non è nella condizione di poter fare alcun lavoro.

Per dare un’idea un po’ più precisa di quello che accade oggi in Italia, riprendiamo da un articolo del giornale on line Linkiesta alcuni dati relativi alla diffusione di internet nel nostro Paese. Il dibattito italiano, solitamente, si ferma alla poca diffusione della banda larga nelle case degli italiani. Questa mancanza si porta dietro anche una serie di correlazioni e conseguenze, non ultima quella delle poche opportunità che ci sono di progredire in tema di diffusione della cultura informatica nella popolazione. In sostanza il pensiero è che siccome le infrastrutture esistenti sono poco sviluppate, ne consegue che sono poche anche le persone che le sanno utilizzare. Sicuramente questo è un dato veritiero, sostenuto anche da ricerche ed analisi di carattere scientifico. Per farci meglio capire, è come se dicessimo che in un dato luogo non ci va nessuno perché non c’è nessuna strada o collegamento che lo raggiunge.

Per l’informatica vale la pena però prendere in considerazione anche un altro fattore, se non altro per rifuggire da un atteggiamento attendista che è un po’ tipico italiano (della serie: non utilizzo il pc/web fintanto che non c’è una struttura adatta). In questo senso un dato che noi definiamo allarmante è quello che indica che a fronte di un aumento delle connessioni in banda larga di circa quaranta punti percentuali in meno di dieci anni, le abilità informatiche della popolazione italiana sono rimaste sostanzialmente al palo. Se è vero che il web veloce facilita l’accesso e l’utilizzo questo non dovrebbe accadere. Forse potrebbe essere utile un po’ di istruzione? Magari l’utilizzo e l’acquisizione di competenze informatiche cresce anche grazie a processi in cui si cerca di alfabetizzare le persone che dovranno utilizzarlo.

Sempre Linkiesta riporta che “l’implementazione di politiche per la diminuzione dell’analfabetismo informatico potrebbe essere una buona leva per far crescere il mercato delle vendite online, perlomeno in relazione all’Italia. Un Paese, forse vale la pena di ricordarlo, in cui il 39% della popolazione non ha mai navigato su internet. L’esempio da seguire, in quest’ambito, è quello dei paesi scandinavi”. Insomma sarebbe necessario tornare un po’ sui “banchi” o, meglio, sui PC di scuola per imparare ad utilizzare il computer. L’alfabetizzazione digitale, come viene chiamata, aiuterebbe non soltanto a far progredire il singolo, ma anche l’intera comunità in termini di ricchezza di opportunità, sviluppo di nuovi mercati, consapevolezza e cultura generale. Insomma, un vero progresso. Che stiamo aspettando?

 

Nel nostro piccolo, niente! Infatti certi che questa cosa fosse utile abbiamo fatto partire qualche tempo fa il minicorso “ABC per il PC” che in tre moduli insegna a chi proprio non ne sa nulla che cosa fa e a che cosa serve il computer. Ci piace dirlo: è stato un successone! Talmente elevato che abbiamo deciso di riaprire le iscrizioni. Se conoscete qualcuno che non saprebbe raggiungere questo articolo per leggerlo è il momento giusto per fargli un regalo: ditegli di iscriversi ad ABC per il PC, lo aspettiamo!

Convincere gli altri

Quando parliamo con qualcuno quanto è fondamentale che la persona che ci sta di fronte non solo comprenda quello che diciamo ma lo condivida pure? L’ascolto e la condivisione sono due passaggi distinti di un singolo processo che è quello di comunicare. La comunicazione potremmo dire che è una brutta bestia: da una parte è un meccanismo naturale, spontaneo per il quale no ci verrebbe mai in mente di dover studiare per imparare a gestirla. Dall’altra però se con la nostra comunicazione vogliamo ottenere risultati precisi, raggiungere obiettivi, essere efficaci dobbiamo forse entrare nell’ordine delle idee che qualcosa da imparare ci sia: le tecniche di comunicazione non sono un patrimonio comune, tanto è vero che c’è differenza tra un oratore e un altro. Fino al punto che quella di comunicare oltre ad essere un’arte a volte diventa anche un mestiere.

Un po’ di comunicazione efficace dovremmo però impararla tutti. Oggi vi proponiamo allora tre indicazioni di massima che riprendiamo da questo articolo comparso su Linkiesta al quale aggiungiamo qualche nostra indicazione. Perché potrebbe esserci utile? Le situazioni in cui ci troviamo a comunicare e dobbiamo farlo perseguendo una performance sono diverse: un colloquio di lavoro, un esame all’università, un’interrogazione, un lavoro di comunità, la gestione di un gruppo di lavoro, un ruolo di leader. Sono tutte situazioni in cui non ci sarà sufficiente dire le cose, dovremo anche riuscire a farle comprendere nel senso più ampio del termine. Vediamo come possiamo riuscirci.

Il primo compito che abbiamo è quello di selezionare. Non possiamo dire tutto quello che ci passa per la testa. I contenuti da trasmettere li dobbiamo scegliere (quindi decidere che alcune cose non le diremo) perché prima di parlare (o scrivere) avremo stabilito una strategia (cioè ci siamo dati un obiettivo e anche un modo per raggiungerlo) rispetto alla quale dovremo “tagliare” i nostri contenuti. Facciamo un esempio: avete mai incontrato un venditore di auto che prima di tutto vi racconta difetti della macchina che volete comprare (o che vuole vendervi)? Non è solo una questione di onestà (in quel caso il venditore vi racconterà che i difetti non ci sono proprio). La stessa cosa avviene per esempio durante un colloquio di lavoro: dobbiamo scegliere prima argomentazioni e temi che vorremo trattare e prepararci su quelli: saranno i temi che tiriamo fuori non appena ci verrà data la possibilità di parlare “liberamente”.

La seconda cosa che dobbiamo imparare a fare è quella di ripetere. C’è una regola che sembra banale, leziosa e forse a tratti ridicola che dice: annunciare ciò che dirai, dirlo e ripetere ciò che hai detto. Espresso in questa maniera viene da esclamare “che assurdità!”. Ma vi possiamo assicurare che quando ascoltiamo il nostro cervello ha un livello di assimilazione dei contenuti che funziona molto bene con la ripetizione. Per fare un esempio pratico: avete fatto caso che ci ricordiamo con una certa facilità slogan e motivetti pubblicitari solo per il fatto che la televisione, la radio o i giornali li hanno ripetuti migliaia di volte senza aggiungere alcun contenuto di maggior valore? Se scriviamo la frase “Dove c’è Barilla…” crediamo che ciascuno di voi sarà in grado di terminare con la seconda parte. Quindi quando vogliamo che la nostra platea (anche fosse di una sola persona) accolga una nostra idea dovremo essere bravi a ripeterla nel discorso più di una volta (senza cadere nella trappola di essere ripetitivi, insomma la giusta misura).

Infine cerchiamo di non essere sconclusionati. Voi direte: e chi lo farebbe? Eppure capita di sentire parlare (o parlare) per lungo tempo senza avere un’idea più completa del discorso nel suo complesso. Sono quei casi in cui ci chiediamo: “dove vorrà andare a parare?”Ecco quelli sono i casi in cui nel discorso (o nel testo scritto) non abbiamo inserito i link. Non stiamo parlando di quelli del web che ci portano da un sito all’altro, ma dei collegamenti che di un discorso fanno la struttura. Questa struttura, anche se non espressa ma costruita fin dall’inizio, è quella che aiuta chi ascolta a comprendere meglio e più in profondità quello che diciamo. Per esempio tutte le favole, scritte per essere comprese dai bambini, sono accomunate da una struttura (spesso semplice): presentazione dei personaggi, vicenda del personaggio, finale (spesso lieto). Si dice che questo è raccontar storie. Ed è quello di cui un buon comunicatore ha bisogno. E voi, che storia avete in mente di raccontare la prossima volta?

 

Che odio quel lavoro

Questo post vorrebbe raccontare di come sia importante scegliere un lavoro che ci piace e, al contempo, di quanto in realtà noi essere umani siamo adattabili. Queste due cose sono una il contrario dell’altra oppure entrambe concorrono a costruire la nostra personalità professionale?

Per rispondere a queste domande che hanno una caratura quasi esistenziale partiamo da un articolo apparso su Vice (la rivista on line di origine canadese presente nella versione italiana ormai da 10 anni) in cui si raccontano 6 lavori odiati e odiabili. Vediamo velocemente quali sono. Il primo è il lavoro del controllore e a raccontarlo è una donna: il brutto di questa professione è che ti becchi rimbrotti e insulti (non sempre per tue colpe) per non parlare di certi orari e treni che a volte trasportano persone “irrequiete” (per usare un eufemismo). Però il bello (secondo il racconto dell’intervistata) è nell’incontrare persone e storie diverse e sentirsi di poter essere loro di aiuto.

La seconda professione odiata è quella dell’ufficiale giudiziario: chi di voi vorrebbe essere nei panni di chi è visto, nella migliore delle ipotesi, come un boia o un uccello del malaugurio? Chi fa questo lavoro però si sente anche gratificato per essere la persona che fa rispettare la legge e, in alcuni casi, riporta la pace tra i contendenti. Più delusa la figura che si occupa di recupero crediti: in questo caso la frustrazione di dover raccontare bugie o ricorrere a velate minacce diventa più pesante di qualsiasi soddisfazione.

A seguire, tra i lavori più brutti, ci sono quelli di chi si occupa dei soldi. Degli altri. Come ad esempio chi si occupa di raccolta fondi, costretto a chiedere soldi in mezzo alla gente scoprendone ipocrisie e falsità anche se con un nobile scopo (spesso la raccolta fondi è quella realizzata a favore di enti e organizzazioni benefici). Oppure il lavoro del trader (l’operatore che tratta prodotti finanziari per conto terzi): qui il compromesso con la propria coscienza èancora più grande perché di solito si trattano somme alte e con esse a volte anche il destino di persone e società. Non è facile poi districarsi in una professione a cui, per stessa ammissione di chi ne fa parte, viene attribuito un giudizio di valore negativo. Da ultimo, nelle professioni più odiate, c’è quella del giornalista. Le cose che scrive sono spesso oggetto di critiche che non riguardano il solo contenuto dell’articolo o del dossier ma diventano personali e dirette. Chi fa questo lavoro poi è in un continuo divario tra quello che vorrebbe scrivere e quello che invece è, in quache maniera, costretto a scrivere per rispettare la linea editoriale del proprio giornale.

Non so se tutti voi siete concordi nel definire questi lavori come “odiati” (attenzione: non significa che siano i peggiori lavori da fare in senso assoluto). Certo è che, anche facendo un lavoro di questi o un altro poco invidiabile, sono esperienze in cui ciascuno di noi mette in campo le proprie competenze e quelle si evidenziano anche se il lavoro che facciamo è brutto. C’è un’altra considerazione da fare: lo sviluppo del lavoro, qualunque esso sia, può portare a risultati e traguardi diversi da quelli che ci si immagina inizialmente e farci raggiungere quindi mete insperate. Infine le esperienze di lavoro rappresentano comunque un banco di prova: prima di tutto per noi stessi e, in seconda battuta, anche per dimostrare agli altri quello di cui siamo capaci. Però, è sempre meglio scegliere un lavoro che ci piace 🙂 

Il lavoro a tempo indeterminato non è un successo

Da quanto tempo ormai sentiamo dire che la parola d’ordine è flessibilità? Che i tempi del lavoro sicuro sono finiti? Che probabilmente nel corso della vita dovremo cambiare più lavori e forse anche più professioni? Anche se questi “mantra” sono ripetuti da almeno dieci anni, sono sicuro che in realtà sono ancora in molti a sperare nella soluzione definitiva nel momento in cui firmano un contratto di lavoro, mandano un cv, rispondono ad un annuncio.

La realtà è che con il passare del tempo i segnali che qualcosa di strutturale nel mondo del lavoro sta cambiando ed è già cambiata ci sono: il calo senza freni del numero degli assunti con contratti a tempo indeterminato, le nuove regole che prevedono contratti molto più flessibili anche per le assunzioni di lungo periodo, l’aumento esponenziale delle partite IVA e dei lavori occasionali, la generazione a volte eccessiva di nuove attività imprenditoriali in sostituzione di servizi e mansioni che prima erano in capo a dipendenti. Sono segni evidenti di precarizzazione la cui causa non è sempre e soltanto da ricercare nelle politiche di una singola nazione, ma risiedono in una economia globalepiuttosto complessa (e che non affronteremo qui).

Però non tutti i mali vengono per nuocere e, soprattutto, l’uomo è animale di grande adattabilità. In un articolo comparso sulla testata on line BloomberBusiness sonoa rrivati a titolare che “L’anniversario di dieci anni di lavoro in uno stesso posto è un fallimento“.  Una ricerca fatta tra i giovani americani nati tra il 1982 e il 2004 (questi ultimi ancora un po’ piccoli a dir la verità) rivela (e rileva) che il mantenimento di uno stesso posto di lavoro per lungo tempo non è una conquista ma addirittura potrebbe essere una sconfitta. Uno di loro afferma che è più facile parlare di crescita della propria carriera se si è in grado di attraversare aziende diverse piuttosto che rimanere in uno stesso posto nel medesimo lasso di tempo (e lo dice uno che a 27 anni ha cambiato già tre volte posto di lavoro).

Mac Schwerin, questo è il suo nome, afferma anche un’altra cosa interessante e un po’ provocatoria: è più facile raccontare e rappresentare i propri successi se si riesce a dimostrare di portare risultati ovunque si vada. Questa opinione è condivisa da molti millenials (i nati di cui sopra) interpellati nel sondaggio svolto dalla società di consulenza Deloitte. Il motivo è anche legato al fatto che stiamo parlando di giovani che hanno concluso gli studi in un periodo di recessione economica e di mercato di lavoro molto competitivo: in qualche misura sono abituati a vedere e vivere la propria carriera professionale in maniera radicalmente diversa: vogliono le stesse cose delle generazioni precedenti (casa, famiglia, ecc) ma sono convinti di ottenerle con un percorso diverso.

Ci sono però due considerazioni a margine da fare. La prima è che, per loro stessa ammissione, il loro punto di vista cambierebbe se fossero assunti in azienda di “prima classe” (Tesla, Facebook, Google).  La seconda è che stiamo parlando del mercato americano dove la percentuale di giovani rappresenta la parte più ampia del mercato del lavoro. Credo che, anche alla luce di questi due assunti finali, potremmo trarne anche noi considerazioni utili e interessanti su come affrontare le nostre sfide “casalinghe” con il mondo del lavoro.

Lavorare con piacere (o almeno provarci)

Quando ci capita di andare nelle scuole a parlare di lavoro una domanda e un giochino che facciamo spesso è quello di chiedere: “per cosa lavorereste?”. Le risposte sono le più svariate ed anche le più tremende. Su tutte la maggioranza è senz’altro quella di chi pensa che il denaro è una leva più che sufficiente per alzarsi la mattina, recarsi al proprio posto di lavoro e rimanerci per minimo 8 ore (chiaramente più la quota di denaro si alza e più la disponibilità aumenta). Ingenui. Primo perché ad oggi il denaro disponibile, in senso assoluto, è sempre meno; secondo perché in realtà anche le ambizioni di guadagno più sfrenate trovano un limite nelle 24 ore al giorno (ed è un limite a cui nessuno arrivare, quello di 24 ore al giorno di lavoro); terzo perché chi pensa solo al denaro non ha fatto i conti con molte altre variabili e, soprattutto, non ha tenuto conto del fatto lavorare significa mettere in gioco non solo abilità e competenze tecniche ma anche un certo grado di emozioni e passioni personali.

D’altra parte un’attività che ci impegna così tanto tempo (40 ore alla settimana, 160 ore al mese, 1920 all’anno, 76800 in una vita di lavoro contrattualmente regolare) non può essere soltanto una questione di impegno tecnico. Quando lavoriamo in realtà mettiamo in gioco noi stessi e lo facciamo sempre, anche quando il lavoro non ci piace. Il problema è che quando facciamo qualcosa che ci piace, oltre alla sensazione del tempo che trascorre più velocemente, c’è anche quella di generale appagamento per avere realizzato qualcosa, raggiunto un obiettivo, trovato la soddisfazione nostra e degli altri. Come fare allora per individuare il giusto percorso che ci conduce a trovare una professione soddisfacente.

C’è un libro che si intitola “L’alleanza” che prova a dare un suggerimento con una tecnica che vi invitiamo ad utilizzare. Il suggerimento è quello di scrivere i nomi di 3 persone che ammiriamo: non è necessario che siano strettamente legate al nostro settore (anzi!); possiamo spaziare da personaggi storici a quelli di fantasia. Trovati i nostri “fari” elenchiamo accanto ad ogni nome le tre qualità che ammiriamo di più in ciascuno doi loro. Infine classificate le qualità in ordine di importanza: dalla più importante, alla meno significativa. Così facendo avremo una lista di valori personali da poter confrontare con quelli del nostro proprio piano di crescita (non ne avete uno? male! Dovreste pensare e immaginarvi chi e che cosa vorrete diventare da grandi). È un esercizio utile tanto per chi è appena uscito o sta uscendo da un percorso formativo, quanto per i professionisti già affermati (che potrebbero confrontare la loro scala di qualità con quella dell’azienda). Potrebbe essere un piccolo esercizio per la pausa delle feste natalizie.

PS: il 22 (martedì pomeriggio) ci facciamo gli auguri e facciamo una piccola festa: vieni? Ne saremmo contenti!

Comunicare bene per vivere meglio

Chi ben comunica è a metà dell’opera. Se qualcuno voi, leggendo velocemente, ha letto “comincia” anziché “comunica” (tornate a vedere) ha fatto un errore ma ci ha anche dato l’opportunità di parlare di quanto e come comunichiamo. Questo incidente è soltanto una delle caratteristiche della comunicazione: chi legge tende, involontariamente, ad economizzare il più possibile. Il nostro cervello associa immediatamente le prime lettere ad eventuali parole già memorizzate in modo da restituire più velocemente il risultato. Come viene dimostrato da quel giochino nel quale riusciamo a leggere un testo anche se tutte le parole sono scritte male (provate qui). Ed una cosa analoga avviene con i concetti: avete presente la frase “non si ha mai una seconda occasione per fare la prima buona impressione“? Il concetto è lo stesso.

Questo tipo di “incomprensione” se stupisce e diverte chi legge, dovrebbe invece in qualche modo porre delle domande a chi scrive o, più in generale, comunica: quindi tutti noi ogni qualvolta scriviamo o comunichiamo qualcosa, per esempio quando scriviamo un cv, una lettera di presentazione, quando ci presentiamo ad un colloquio o robe simili. Siamo proprio sicuri che i contenuti che vogliamo trasmettere arriveranno integri e ben compresi? Completamente tranquilli che questo accada forse non lo possiamo mai essere. Ma una cosa la possiamo fare: mettere a punto una strategia comunicativa efficace che, come un meccanismo ben rodato, lasci pochissimo o nessun spazio alle incomprensioni, ai malintesi, agli errori di valutazione. Vi ricordate la storiella di Ulisse che incontra Polifemo? Il ciclope accecato gridava che “Nessuno” lo aveva colpito e così l’astuto Ulisse se la poté scampare agevolmente: astuto ma anche grande stratega Ulisse, considerato che tutta la scena se l’era immaginata ben prima per poter avere la meglio. Chiaramente il senso della storia non è che è meglio dare un nome falso (ma dai?). Quello che ci pare interessante è che quando comunichiamo, in particolare in ambito professionale, dovremmo armarci di un po’ dell’astuzia di Ulisse.

Quale astuzia potremmo adottare da parte nostra? Quali scelte possono essere lungimiranti? Quale può essere una strategia efficace? Un libro molto interessante che si intitola “Ruba come un artista” propone un invito più che esplicito a fare quello che già altri suggeriscono da tempo: copiare! In realtà il percorso è un po’ diverso: copiare, RIELABORARE, incollare. La parte centrale, la rielaborazione, è quella più importante perché è il momento in cui riusciamo a caratterizzarci, ad essere originali, a mettere noi stessi in quello che stiamo facendo. Questo, anche nel mondo della comunicazione, è essenziale. Quali sono gli elementi di un buon “furto” o, come piace chiamarla a noi, di una buona rielaborazione? Il libro di ne cita diversi, alcuni che ci sembrano fondamentali: lo studio (per copiare bene dobbiamo prima osservare ed analizzare profondamente), la capacità di trasformare (non è una mera traslazione ma una ispirazione profonda), la capacità di mescolare (più sono i modelli che seguiamo più saremo in grado di creare qualcosa di originale ed unico).

Possiamo scegliere un modello che è un mito (come Ulisse) oppure qualcuno che realizza ciò che ci piace meglio di noi: l’importante è che ci ricordiamo che niente è originale così come tutto può esserlo. Dipende da quanta parte di noi stessi decidiamo di mettere in quello che comunichiamo, in quello che creiamo.

Farsi assumere da un algoritmo

“Non mi ha scelto perché gli stavo antipatico”. Questa frase, a volte un po’ assolutoria, viene da dirla quasi spontaneamente ogni volta che non superiamo un test di selezione, un esame o una qualunque prova nella quale dobbiamo confrontarci con qualcuno che deve giudicarci. Il rapporto personale, approfondito o superficiale, è un fattore spesso determinante per valutare e poi eventualmente scegliere una persona, Dalla prima impressione fino ad arrivare ad una relazione che dura da tempo, sono molte le sfaccettature con le quali le nostre emozioni interpretano i rapporti con gli altri. Il fenomeno è anche alla base della costruzione dei network, anche quelli che si fondano su relazioni digitali (social media in testa). Ma quanto possono e devono influire queste variabili nella scelta di un collaboratore, di un professionista?

Uno studio americano mette in dubbio, con un metodo scientifico, l’efficacia delle relazioni personali per individuare le figure professionali più adatte nei percorsi di selezione. In un articolo apparso su Internazionale di questa settimana infatti, si spiega come si è arrivati a questa ipotesi. In un percorso di selezione per profili medio/bassi sono stati utilizzati due modalità di scelta diverse: la prima basata sulla somministrazione di test analitici (fondati su un algoritmo di decifrazione), la seconda sulle osservazioni di un gruppo di selezionatori. Il risultato è stato che i candidati assunti tramite test hanno mantenuto il posto più a lungo di quelli assunti tramite un processo di selezione “umana”.

Questo vorrebbe forse dire che affidarsi ad un sistema di selezione totalmente scientifico è la soluzione migliore? E che quindi in futuro dovremmo imparare a farci assumere attraverso un algoritmo) In realtà non è proprio così. La selezione fatta secondo parametri scientifici porta in sostanza a definire gruppi di lavoratori uniformi, con lo stesso livello di competenze, la medesima gamma di interessi e via dicendo. Una omogeneità che, in realtà, non fa bene alle aziende che, per mantenere un posto nel mercato hanno capito che la soluzione è puntare sulla diversificazione, anche interna.

In definitiva le relazioni personali ci aiutano a definire (o a mettere insieme) un sistema complesso in grado di soddisfare esigenze diverse, a volte contrapposte. Non solo: il fattore emotivo è anche il valore aggiunto che entra in gioco in caso di imprevisti escogitando soluzioni originali. Un computer (un test, un algoritmo) sono in grado di individuare il migliore secondo un criterio scientifico e oggettivo: solo che non sempre è la soluzione migliore.

Quello che i social media non dicono

I social network servono a trovare lavoro? Se sì, quali piattaforme? E con quali risultati? Immaginiamo che le risposte a queste tre domande possano essere diverse in base alle esperienze avute nei primi contatti con il mondo del lavoro o con quello dei social network. Proviamo a rispondere anche noi. Si può trovare lavoro con un social media? La risposta è senz’altro affermativa. Ma, chiaramente, non è uno strumento diretto di assunzione. Avere un profilo su un social network significa esporsi, presentarsi, rendere pubblica una parte della nostra vita. Questo vale anche se settiamo in maniera restrittiva e vincolata i parametri della privacy. Il motivo è semplice: supponiamo che abbiate deciso di utilizzare Facebook solo per i vostri amici e al contempo siete in una fase della vostra vita in cui state cercando lavoro; come fate ad essere sicuri che nessuno dei vostri contatti intimi e stretti non possa essere il punto di collegamento con una opportunità di lavoro? Non potete esserlo ed è per questo che il solo fatto di iscriversi ad un social network è già un primo, piccolo, passo della vostra presentazione professionale.

Quali piattaforme di social networking sono adatte per la ricerca? Al momento, in Italia, c’è una piattaforma che più di altre è dedicata ai contatti professionali, Linkedin. Ma questo non vuol dire che possiamo e dobbiamo utilizzare solo quella quando siamo alla ricerca di opportunità professionali. Come detto poco sopra anche un social network generalista come Facebook può essere una importante vetrina per le nostre competenze. Quello che dobbiamo fare è imparare a considerare la nostra presenza on line anche in termini di visibilità, promozione di noi stessi, reputazione, affidabilità e considerazione da parte di un pubblico selezionato. Per questo motivo i social non possono, a nostro modo di vedere, soltanto essere un posto per il “cazzeggio”. Perlomeno abbiamo visto che utilizzarli anche per comunicare temi professionali può essere importante così come trascurare questo aspetto può essere dannoso e controproducente.

Questo significa (terza domanda) che i risultati possono essere buoni ma anche irrimediabilmente cattivi? In un articolo di Wired comparso qualche tempo fa veniva riportata l’ultima ricerca di Adecco insieme all’università Cattolica di Milano battezzata Work trends study. La sostanza? Il 35% dei recruiter (selezioantori) intervistati per il mercato italiano, circa 143, ha ammesso “di aver escluso potenziali candidati dalla selezione in seguito alla pubblicazione di contenuti o foto improprie sui profili social”. Capito? Nell’articolo, per essere chiari, si ribadisce anche che  “la web reputationnon è un giochino per fissati del web né un campo riservato ai brand o a una manciata di personaggi popolari: è l’altro lato della nostra presenza pubblica. Che potrebbe anche riservarci sgraditissime sorprese. Anzi, neanche quelle visto che non sapremo mai perché quella e-mail o quella telefonata non sono  arrivate“.

Per concludere, il nostro consiglio è abbastanza semplice. Attivate un profilo su di un social network, studiatene funzionalità e impostazioni nella maniera più precisa possibile, datevi una strategia per il suo utilizzo e, ogni volta che pubblicate qualcosa pensate: chi potrebbe leggere quello che sto scrivendo e come potrebbe interpretarlo?

Mi laureo: sì e poi?

Questo articolo potrebbe avere come sottotitolo: l’incubo de “ l’esperienza”. È un problema comune a una bella fetta di giovani appena uscita dagli atenei: la disoccupazione post-laurea, con il conseguente infrangersi delle speranze nutrite da anni di sacrifici trascorsi nella convinzione che uno “studio matto e disperatissimo “ e degli ottimi risultati possano aprire con facilità le porte sul mondo del lavoro. Però è ormai evidente che ciò è vero solo in parte, e che la delusione in cui incappano tanti giovani ha una motivazione molto semplice, cioè la mancata duttilità, diretta conseguenza di un termine ormai temuto e detestato: esperienza. In parole povere, sembra che un datore di lavoro spesso non sappia cosa farsene di un giovane super qualificato grazie agli studi ma privo di quella conoscenza pratica che gli permetta di saper spaziare e di far fronte a tutte le situazioni, ben diverse da quelle dello studente, in cui capita di incappare durante la carriera lavorativa.

I dati raccolti durante l’indagine dell’Eurobarometro sono chiari: quando un’impresa si trova di fronte alla decisione di assumere, guarda soprattutto a quelli che hanno già un po’ di esperienza, piuttosto che a quelli in arrivo da atenei “doc” ma che si sono dedicati esclusivamente allo studio.

Vi riportiamo, come è già stato fatto dall’editoriale sul lavoro del sito “Repubblica” (miojob.repubblica.it), le risposte dei manager di 7 mila imprese europee alla domanda: “Quanto è d’accordo con la seguente affermazione: l’esperienza lavorativa pregressa è un requisito cruciale per le nuove assunzioni

tabella torta

E se credete che questo sia un problema tutto nostro, sappiate che l’Italia non è nemmeno tra i primi Paesi per i quali il famigerato fattore “esperienza” è fondamentale: prima arrivano Germania, Regno Unito e Francia (sempre secondo i dati dell’Eurobarometro).

Cosa possiamo consigliarvi noi? Di non accantonare il desiderio di conoscere il mondo anche quando sembra che la vita universitaria sia l’unica possibile (e sappiamo quanto possa riempire i pensieri e le giornate!), di non pensare che studiare basti e di mantenere sempre viva la curiosità e la sete di nuove esperienze, sia che si tratti di stage, che  di soggiorni all’estero che di lavori occasionali o volontariato. Tutto contribuirà a costruire la vostra identità non solo professionale ma anche di persone in possesso delle skill necessarie a “farsi scegliere” dai datori di lavoro (la sicurezza di sé, la capacità di comunicare, l’adattabilità, la creatività, lo spirito d’iniziativa e l’intraprendenza sono doti che possono fare la differenza in sede di selezione) e non solo! Come disse Oscar Wilde: “Nulla di ciò che vale la pena conoscere può essere insegnato”, quindi perché non iniziare venendo a trovarci per scoprire tutte le opportunità di lavoro, formazione ed esperienza che il mondo offre?

Non finire nel cestino!

Diamo spesso consigli su come redigere il proprio curriculum vitae e qualche volta assistiamo le persone nella sua stesura. Per quante volte lo possiamo aver detto, ci accorgiamo però che c’è sempre qualcuno che ha ancora bisogno di qualche suggerimento. Così come ci sono delle domande sulla sua compilazione che sono intramontabili (degli evergreen): la foto ci va? Metto anche le esperienze di lavoro nero? Devo mettere il voto? Anche se è basso? In altre parole c’è sempre chi è alla prima volta davanti al foglio bianco su cui scrivere le proprie competenze (cercando di scriverle nel modo più attraente possibile).

Le parole d’ordine per quello che riguarda il cv sono due: attenzione ai dettagli e scrivere cose interessanti. L’attenzione ai dettagli è fondamentale perché basta poco per finire nel cestino: chi legge il vostro cv, che voi avete avuto in gestazione per tanto tempo con tanti tormenti, gli dedica al massimo un minuto, 30 secondi in una buona maggioranza dei casi. Significa che anche un piccolo errore di ortografia rischia di essere preponderante su tutto il resto se in quel breve lasso di tempo dedicato alla lettura è la cosa che salta agli occhi. Un apostrofo di troppo, un congiuntivo scambiato per un condizionale e la vostra candidatura fa una brutta fine. Direte voi: ma non sono errori sostanziali (soprattutto se non mi candido come prof di italiano). Beh, però ascoltate bene: non siete voi a decidere e, soprattutto, una valutazione del candidato non è mai fatta solo sulle sue competenze tecniche.

A proposito: i migliori cv sono quelli da cui è possibile avere un’idea della personalità della persona che lo ha scritto. Per questo motivo è necessario raccontare anche le proprie esperienze diverse dalle singole mansioni lavorative; parlare di un hobby o di una passione a cui si dedicano tempo ed energie aiuta a far capire di che pasta siete fatti. Non basta dichiarare di essere “buoni comunicatori” o “affidabili organizzatori” se poi queste affermazioni non sono supportate da contesti e momenti in cui le avete messe alla prova. Documentare un cv significa raccontare ciò che abbiamo fatto e realizzato più che quello che siamo.

Da ultimo in questo post una nota sul modello di CV da utilizzare. Scordatevi, per favore, il curriculum vitae europeo: lo possiamo vedere come un indice delle cose da inserire in un cv, ma non di più. Il cv europeo è più che altro il parto di un apparato burocratico e amministrativo fatto nel tentativo di unificare e uniformare i lavoratori di tutta Europa. Peccato che nel mercato del lavoro il principio sarebbe quello di differenziarsi per farsi riconoscere. E se non credete a noi sentite qua: “ho sempre ritenuto che il CV europeo sia l’antitesi di quello efficace perché non è chiaro, è troppo lungo e ripetitivo. È una gabbia poco flessibile che costringe tutti i candidati a parlare di sé allo stesso modo. E tutti alla fine sembrano usciti dallo stesso stampo. Il curriculum europeo ha il ruolo opposto a quello che dovrebbe svolgere un CV, cioè facilitare la comprensione a prima vista delle competenze di un candidato da parte di una persona che va di fretta e che ha altri centinaia di curricula da leggere.” Parola di Michèle Favorite, esperta alla John Cabot University.

A proposito: la John Cabot University sarà nostra ospite il prossimo 4 dicembre, prendete nota (e prossimamente nella nostra pagina eventi tutti i dettagli)

Il tuo lavoro è sicuro?

Già in altre occasioni abbiamo parlato di come e quanto le tecnologie possono aver modificato la nostra vita lavorativa. Non si tratta solo di avere oggi la possibilità di utilizzare il computer per scrivere e trattare documenti che ci riguardano in maniera più snella e veloce.  L’avvento dell’ICT (information and communication technology) nella nostra vita quotidiana ha cambiato radicalmente e per sempre non solo le nostre abitudini ma anche il nostro modo di pensare. Molto probabilmente, per esempio, molti di noi farebbero fatica a immaginare di vivere senza internet (alcuni, forse, farebbero fatica anche a rimanere senza per un giorno). Non si tratta di un vizio o di una pessima abitudine ma semplicemente di un mondo che è cambiato anche epr cose molto operative e utili: comprare un viaggio, fare un’operazione bancaria, trasmettere un documento di lavoro, informarsi per fare qualche esempio generico.

In alcuni casi, come nel settore del lavoro, internet e l’automazione offerta dai computer ha creato qualche paura. La domanda o, meglio, l’istanza più frequente in tal senso è: l’informatica di ruba o ci toglie il lavoro? Vengono alla mente le catene di montaggio (l’industria automobilistica Tesla non ha operai in catena) oppure le spedizioni delle lettere (mail e posta certificata stanno “mangiando” terreno ai portalettere). E il vostro lavoro, attuale o prossimo,  è sicuro? Oppure siete tra le figure che verranno messe a repentaglio dalle tecnologie?

La domanda corretta però è un’altra: quanto utilizziamo le tecnologie e quanto ne siamo utilizzati? Perché la paura, come sempre accade, è spesso figlia dell’ignoranza e della disinformazione. Così, anche su questo versante, conoscere aiuta a prevenire. Si può partire anche da piccole cose che sono già un segnale di quanto e come siamo nel giusto mood con la tecnologia. Per esempio, tra di voi chi sta cercando lavoro e utilizza i social network per promuovere le proprie competenze? Chi ha un profilo Linkedin aggiornato’ Chi invece non sa nemmeno che cosa sia Linkedin? Quanto conoscete le opportunità offerte dalle nuove tecnologie? Se impariamo ad utilizzare questi semplici strumenti significa che stiamo già facendo un passo nella direzione della scoperta anziché in quella chiusura al cambiamento.

Se volete una risposta alla domanda del titolo “il tuo lavoro è sicuro?” potete anche fare la prova utilizzando questo simpatico strumento messo a disposizione dalla BBC (riferito al mercato inglese). Chiaramente è solo un test anche se corredato da dati e statistiche. Se invece volete curarvi della prevenzione della vostra carriera professionale proviamo a darvi un consiglio: a essere messi in discussione saranno i lavori ripetitivi per i quali il contributo umano è scarso o nullo. Basta quindi dedicarsi a una professione per la quale non è richiesta solo routine e automatismi ma anche un po’ di creatività, intelligenza, spirito di iniziativa. Tutte cose che si possono imparare, studiando 🙂

Chi sopravvive all’autoimpiego?

L’autoimpiego è il modo (un po’ burocratese a dir la verità) con cui si individuano tutte le forme di lavoro autonomo. Anni fa (era il 2000) con questa dicitura era stata fatta anche una legge il cui scopo era quello di finanziare chi decideva di non trovare un lavoro ma di crearselo. Da quell’anno, anche se la legge non possiamo dire sia stata un successone, la strada del lavoro autonomo è stata suggerita via via sempre con maggior frequenza. I più maliziosi penseranno che questo suggerimento aumenti con l’aumentare del tasso di disoccupazione: come a dire “visto che il lavoro non c’è, inventatene uno!”. In realtà le cose non stanno esattamente così, anche se non possiamo negare che ci sia chi abbia fatto propria questa strategia nel dare consigli di ricerca attiva del lavoro. C’è un lavoro e un monitoraggio a livello europeo del grado di “imprenditorialità” (passateci il termine) di questo nostro continente. Per come va il mondo oggi, infatti, avere un tasso di crescita delle attività imprenditoriali (inclusi in questo senso anche i lavoratori autonomi), significa stare in una situazione di crescita, di buone prospettive o almeno di terreno fertile per l’economia (Silicon Valley docet).

Sarebbe anche importante che il tasso di crescita sia sano, il che significa che non sia un mero dato dell’attività di nascita delle imprese. Per esempio se in un certo territorio si volesse far alzare il tasso di nascita delle imprese si potrebbe dare un incentivo (economico) a chi la avvia senza troppi vincoli (l’esempio non è casuale). Ma se vogliamo che quell’impresa cresca e si sviluppi questo non è sufficiente, come non lo sono gli obblighi a rimanere aperta (e se un neoimprenditore fallisce non è che lo si può lasciare in attività per legge). Diventano invece importanti fattori come la qualità dei servizi per le imprese, il grado di fiducia dei finanziatori, l’accesso alle risorse economiche e materiali diverse, la cultura locale di impresa. Bisogna insomma capire non tanto il tasso di nascita delle nuove iniziative (imprenditoriali o di lavoro autonomo) ma anche il loro grado di sopravvivenza.

Questo studio è stato fatto da un ufficio dell’Unione Europa che si occupa di sviluppo sociale e occupazione (a questo link potete scaricare il loro studio annuale su questi fenomeni). Quello che ne emerge è una analisi dle contesto europeo sui motivi di sopravvivenza (o non sopravvivenza) delle iniziative personali in tema di lavoro. Innanzitutto come la solito il grado di sopravvivenza cambia da Stato a Stato (ai primi posti ci sono Svezia e Belgio mentre agli ultimi Lituania e Portogallo; l’Italia è poco sopra la media). L’altro aspetto interessante è che il grado di preparazione del singolo incide in maniera rilevante sul suo potenziale successo: chi è più preparato, ha studiato il settore e ha incamerato competenze ha maggiori chance di successo degli altri quando avvia una propria attività. Per coloro che avviano un’impresa perché, nei fatti, non hanno un’alternativa, la scelta di farlo in un settore in cui hanno maturato in precedenza esperienze di lavoro aumenta la probabilità di rimaner nel mercato. L’ultimo dato che emerge è che le iniziative che hanno più speranze di crescere sono quelle inerenti a settori in crescita dove l’iniziativa personale incontra anche un trend di mercato favorevole e in crescita.

In altre parole, per rispondere alla domanda del titolo, riesce a sopravvivere all’avvio di una attività in proprio chi investe nella propria preparazione e in un settore in crescita: non fa per tutti, ma non è nemmeno impossibile.

Vivere per studiare o studiare per vivere?

Il periodo più “formativo” nella nostra vita coincide anche con quello più difficile della gestione delle nostre esperienze, emozioni, relazioni. Si tratta dell’adolescenza durante la quale la nostra valutazione delle esperienze che facciamo, diciamolo, non è sempre equilibrata. Per questo motivo i ricordi e le motivazioni legate a questo passaggio non sempre sono nitidi, chiari e coerenti.

Nell’esperienza comune siamo portati a studiare, durante questo periodo, più che per una vera passione o fame di conoscenza, per altro: sfida, obbligo, paura. Non ci guida, essenzialmente, una volontà di sapere più cose. Anzi, a volte, forse spesso, quello che ci accade è di studiare con una certa sufficienza o noia. Per carità, non è quello che accade proprio a tutti. In generale comunque possiamo dire che lo studio impariamo ad apprezzarlo più tardi, magari con la scelta dell’università oppure leggendo qualcosa che ci interessa veramente quando siamo più grandi (anche di poco).

Eppure la nostra prima giovinezza, lo dicono gli studiosi, è il periodo in cui il nostro cervello sarebbe più fertile e accogliente per un sacco di nozioni. Sarebbe importante arricchire quanto più possibile il periodo della nostra vita in cui siamo, per così dire, più ricettivi.

Di occasioni ce ne sono tante e in questo periodo ve ne facciamo conoscere alcune che riguardano in particolare lo studio all’estero durante il periodo della scuola superiore: se guardate al nostro calendario degli eventi nei prossimi giorni abbiamo una serie di appuntamenti dedicati a questo argomento. Il 22 ottobre lo faremo con Intercultura, il 27 ottobre con Au pair in USA e il 5 novembre con NewBeetle. Abbiamo dato così tanto spazio a eventi di questo genere perché pensiamo che possano essere esperienze davvero interessanti. Per quale motivo?

Di motivi ce ne sono diversi. C’è l’importanza personale, perché un viaggio all’estero è una sfida: ci vuole curiosità e iniziativa per prendere una decisione e partire, ci vuole coraggio, perseveranza e senso di responsabilità per raggiungere le mete prefisse. Si impara ad arrangiarsi, a diventare indipendenti e autonomi. C’è un motivo che riguarda il nostro sistema di relazioni: un’esperienza all’estero fa sì che la propria abilità nel rapportarsi agli altri venga messa alla prova e si sviluppi; quando ci si trova in un paese straniero la propria capacità comunicativa ne esce rafforzata. C’è un motivo culturale, perché grazie all’incontro con usi, costumi e mentalità di altri luoghi, è possibile valorizzare le proprie tradizioni, abitudini e idee, il viaggio diventa un’occasione per un prezioso scambio culturale.

Infine il soggiorno all’estero aiuta a sviluppare le proprie competenze linguistiche:  chi arricchisce il proprio curriculum con l’approfondimento di una o più lingue straniere e/o con un’esperienza lavorativa, avrà delle carte in più da giocare quando cercherà un impiego e, di conseguenza, anche maggiori possibilità di fare una carriera professionale soddisfacente anche dal punto di vista economico. Un anno (ma anche un semestre o un trimestre) all’estero potrebbero davvero cambiarvi la vita e portarvi a vivere lo studio con tutt’altra passione passando da “vivere per studiare” (magari senza voglia) a “studiare per vivere” (meglio).

Insomma ce n’è abbastanza per non rinunciare almeno a uno dei nostri appuntamenti (anche se vi consigliamo di viverli tutti se potete in modo da poter fare dei confronti). Vi aspettiamo il 22, 27 e 5 novembre. Prendete il vostro ticket qui!

 

I sogni sono obiettivi

Quando vi è capitato l’ultima volta di sognare ad occhi aperti? Di avere un grande desiderio da realizzare? Di sentirvi come un bambino di cinque anni a cui viene chiesto “cosa vuoi fare da grande”? E che risponde con solenne convinzione “l’astronauta!” ?

Attenzione, non sto parlando di sogni indotti da sostanze psicotrope! Ma di desideri che ci fanno volare alto a mente lucida… e che hanno come unico effetto collaterale una forte sensazione di ottimismo. Pensate che i sogni ad occhi aperti siano roba da bambini? Beh, ricordatevi che i bambini la sanno lunga sul come godersi la vita…: possono volare tranquillamente su Marte con il semplice uso della fantasia, e sanno sempre cosa vogliono fare da grandi. Ma quando cresciamo lo dimentichiamo, iniziamo a perdere ottimismo, e ad annoiarci facilmente…. e la noia va spesso a braccetto con i comportamenti a rischio, in primis l’uso di sostanze (con le quali cerchiamo a volte di tornare su Marte..)

Oggi vi proponiamo un ottimo antidoto: esprimete un desiderio! E per invogliarvi a provare questa semplice tecnica, vi raccontiamo una storia. È una storia vera, ma visto che siamo in tema di bambini ci piace iniziarla così:

C’era una volta a Salvador de Bahia, nel nord-est del Brasile, un uomo coraggioso, che creò un’associazione insieme ad altri collaboratori, per aiutare i bambini di strada, molti dei quali erano dipendenti da droghe pesanti, vivevano di piccoli furti, e rischiavano quotidianamente la vita. Era un lavoro complesso, così come erano complesse e tragiche le storie di vita dei “meninos de rua”. Un giorno il più grande teatro della città offrì dei biglietti gratis all’associazione per uno spettacolo di danza classica. Bambini di strada ad un balletto classico? Gli educatori si chiesero cosa avrebbero combinato in un contesto del genere, e tentennarono… Ma poi decisero di rischiare.

Durante tutto lo spettacolo i bambini rimasero immobili e silenziosi. All’uscita uno di loro disse: “perché non potremmo farlo anche noi?”

E questo fu il primo desiderio di bambini che fino a quel momento sentivano di non avere più nulla da perdere. Un desiderio che diede il via ad un enorme progetto in cui centinaia di ragazzini e bambini hanno ricominciato a sognare, ricostruendo la loro vita grazie all’arte e alla danza. E soprattutto ai loro desideri. Molti ex meninos de rua oggi sono ballerini o musicisti professionisti. Il progetto si chiama Axé, e il suo motto è “desidero, dunque sono!

Quell’uomo coraggioso si chiama Cesare Florio La Rocca, creatore del progetto e della pedagogia del desiderio.

Perché vi abbiamo raccontato questa storia? Perché ci sembra un ottimo esempio di come impegnarsi per realizzare un sogno sia un ottimo stimolo per raggiungere i nostri obiettivi e fare quello che ci piace. Provare per credere: avete già espresso un desiderio?

 

(questo articolo è stato scritto da Chiara Crocianelli, operatrice dellInfomabus di Ancona)

Lavorare all’estero: guida all’uso (get the job!)

Una delle richieste più frequenti che riceviamo al nostro Informagiovani è: avete suggerimenti, consigli, notizie utili per andare a lavorare all’estero?  A questa domanda è sempre difficile dare una risposta standard ed esauriente per tutti. In primo luogo perché dietro alla parola “estero” c’è un mondo. Ebbene sì, fuori dai confini nazionali i paesi sono tanti e con regole, culture e procedure diversi per entrare nel mondo del lavoro. Certamente all’interno dei confini europei la cosa è più facile e la mobilità dei lavoratori non solo è più fluida ma è anche incoraggiata.

In secondo luogo perché bisognerebbe sempre conoscere la “storia” e, soprattutto, gli obiettivi di chi vuole andare all’estero. Storia, perché la “fuga” non è la strada migliore per un progetto che prevede la permanenza per lavoro in un paese straniero; un buon bagaglio di competenze e conoscenze accompagnate da una conoscenza discreta di una lingua straniera (inglese in primis) dovrebbero essere alla base di qualsiasi spostamento oltre confine. Ma, tant’è, non sempre è così.

Per questo, per dare una risposta completa e concreta alla richiesta di spostarsi all’estero, abbiamo organizzato il workshop di giovedì pomeriggio prossimo. Get the job servirà a far conoscere strumenti e modalità per presentarsi in inglese senza gaffe ma con successo. Nelle due ore circa in cui staremo insieme scopriremo e proveremo a capire un modo differente di fare i colloqui di selezione, che cosa un datore di lavoro straniero vuole davvero sapere su di noi, cosa dire e cosa assolutamente evitare di dire in un colloquio, come apparire affascinante e interessanti durante un’intervista senza sembrare strani(eri). Tutto questo avverrà con l’aiuto e il supporto di International House, una scuola non solo di lingue ma anche di cultura e di promozione della lingua anglosassone.

Partecipare è facilissimo: prenotate il vostro biglietto, GRATUITO, a questo link e presentatevi giovedì 8 ottobre alle 17,30 all’Informagiovani. Il resto verrà da solo. Il workshop sarà in lingua ma non è necessaria una conoscenza approfondita anche perché con il supporto di Nicky, l’insegnante di madrelingua di International House, sarà tutto semplice.

Non perdetevi questo concentrato (gratuito!) di consigli pratici per la candidatura di lavoro in inglese!

Cosa bisogna studiare per garantirsi il futuro

Scegliere il proprio percorso di studi non è facile: le incognite sono tante quante sono le raccomandazioni, i consigli, i suggerimenti. Il fatto è che alcune scelte che compiamo nei “primi” annid ella nostra vita potrebbero risultare determinanti per il nostro futuro. Non sempre sono facili da fare per una serie di motivi: ci capita di dover scegliere qualcosa che è più “grande” di noi, non siamo nel periodo giusto, non abbiamo un paragone di confronto che ci aiuta a fare la scelta corretta, non abbiamo la certezza che ciò che sceglieremo si manterrà una buona scelta anche in futuro. E via discorrendo per altre decine di dubbi. La notizia positiva è che questo tipo di “angosciosa” incertezza la viviamo un po’ tutti, un po’ tutti ci siamo passati e, qualche volta, chi non l’ha avuta è chi ha fatto poi le scelte peggiori.

Uno di questi momenti topici nel nostro spettro di decisioni è quando dobbiamo scegliere il nostro futuro professionale. Significa scegliere che scuola fare, che professione intraprendere e, qualche volta, anche se trasferirci dal posto dove viviamo. Su che basi facciamo questa scelta? Solitamente dipende dall’età: da adolescenti sulla scorta di quello che fanno gli amici (che poi uno si chiede: ce ne sarà uno che sceglie?), da giovani sulla spinta di quello che dicono genitori, parenti e insegnanti, da grandi sulla base dell’esperienza. Ma in ogni caso non sempre questi suggerimenti esterni sono corretti, seppur dati con scrupolo e buona fede.

In un articolo apparso questa estate sul Fatto Quotidiano si faceva questa domana: “È giusto studiare quello per cui si è portati e che si ama?” E la risposta del giornale era la seguente: “Soltanto se si è ricchi e non si ha bisogno di lavorare, dicono gli economisti. Se guardiamo all’istruzione come un investimento, le indagini sugli studenti dimostrano che quelli più avversi al rischio, magari perché hanno voti bassi e non si sentono competitivi, scelgono le facoltà che danno meno prospettive di lavoro, cioè quelle umanisticheI ragazzi più svegli e intraprendenti si sentono sicuri abbastanza da buttarsi su Ingegneria, Matematica, Fisica, Finanza. Studi difficili e competitivi. Ma chi li completa avrà opportunità maggiori, in Italia o all’estero.” A dire questa cosa sono gli economisti che hanno studiato il valore (monetario per certi versi) di alcuni studi. A certificare questa cosa c’è un documento di rilevanza internazionale (che chi mastica l’inglese può leggere qui) che indica tra le altre cose quanto vale l’investimento fatto per ottenre una laurea. Ad esempio “fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, per un uomo laureato in Legge o in Economia è 273, ben 398 se in Medicina. Soltanto 55 se studia Fisica o Informatica (le imprese italiane hanno adattato la propria struttura su lavoratori economici e poco qualificati). Se studia Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265. Cioè fare studi umanistici non conviene, è un lusso che dovrebbe concedersi soltanto chi se lo può permettere“.

Questa affermazione, da un puro punto di vista economico, matematico e razionale, è inconfutabile. Quindi: tutti a iscriversi alle facoltà scientifiche? Beh, secondo noi non è proprio così. Per due motivi: il primo è che ci sono una serie settori in cui la preparazione umanistica può essere fondamentale (avete mai sentito parlare, ad esempio, di content manager?) ed anche se rappresentano una nicchia hanno un loro riscontro. Il secondo motivo ve lo spieghiamo per una domanda: se una laurea in lettere vale -265 quanto vale invece una non-laurea (cioè un percorso di laurea intrapreso e non concluso) in ingegneria? Se avete la risposta postatela qui sotto. E buono studio!

Sharper, la notte dei ricercatori (2015 edition)

Sharper, la notte dei ricercatori. Ma anche di tutti quelli che ricercatori non sono ma dalla ricerca sono attratti, affascinati, incuriositi. Ma anche per quelli che hanno della ricerca un’idea vaga (e spesso pregiudizievole), superficiale o forse nemmeno sanno che anche in Italia (ad Ancona!) si fa ricerca scientifica. Sharper è un progetto europeo che ha l’obiettivo di avvicinare e sensibilizzare l’opinione pubblica alla scienza e al mondo dei ricercatori. Sharper è un evento dedicato a tutti e fatto per far conoscere a tutti la scienza e le sue meravigliose scoperte.

Venerdì 25 settembre a dimostrarlo ci penseranno professori e ricercatori dell’Università Politecnica delle Marche che venerdì 25 settembre saranno in piazza dal pomeriggio fino alla sera. Quest’anno, la notte europea dei ricercatori compie 10 anni a conferma dell’interesse e del coinvolgimento di tanti, tra cittadini ed organizzatori, agli eventi proposti. La manifestazione rappresenta un modo nuovo di avvicinarsi ad un mondo che genera opportunità di crescita e sviluppo per tutti, grandi e piccini. La ricerca è spesso considerata “lontana” quando, invece, è molto più vicina di quello che pensiamo. È nella vita di tutti i giorni e di tutti noi. È un approfondimento sulla quotidianità e una lente di ingrandimento su temi che ci sembrano “sconosciuti” ma che invece sono assolutamente fruibili e comprensibili da coloro che ogni giorno, non smettono mai di osservare il Mondo per andare… oltre.

Il programma è denso di iniziative: esperimenti, dimostrazioni, speaker’s corner, spettacoli, talk scientifici, laboratori aperti e molto altro. Ci sono due eventi che sono per i quali è necessaria la prenotazione. Il primo è la Silent Disco che “andrà in onda” la sera del 25 settembre: per ballare ciascuno la sua musica ma insieme agli altri è necessario avere le cuffie che potete prenotare a questo indirizzo www.radioarancia.tv.  Il secondo evento per il quale potete prenotare la partecipazione (non è obbligatorio) è la visita alla nave oceanografica del CRN: per farlo potete andare su naveoceanografica.eventbrite.it e prenotare l’orario della vostra visita (ci sono 4 visite da 20 persone ciascuna, dalle 17 alle 19).

E l’Informagiovani che ci fa a Sharper? Oltre alla nostra disponibilità per tutte le informazioni che vi serviranno, ospiteremo i laboratori scientifici dedicati ai ragazzi delle scuole superiori durante la mattina (purtroppo sono per i ragazzi della scuola, a voi non rimarrà che vedere le foto) e poi, nel pomeriggio alle 18.00 lo spettacolo di lettura teatrale sulla storica scoperta del DNA.

Ecco tutto il resto del programma. Vi aspettiamo!

 

In estate si guarda al futuro

estate futuroChi di voi si rivolge a una maga o un veggente per scoprire che cosa gli accadrà domani? Speriamo nessuno. Così come speriamo che siano pochi anche coloro che fanno troppo affidamento sugli oroscopi, che in realtà sono solo un modo divertente e giocoso per provare a farci delle domande su noi stessi e non per sapere se domani vinceremo la lotteria o troveremo un nuovo lavoro fichissimo.

Ma così come sono poco precise le previsioni di chi si affida alle stelle, ai pianeti e agli astri in genere, altrettanto lo sono, ahinoi, anche quelle economiche, politiche e sociali. Chiaramente in questi casi la base su cui vengono fatte sono un po’ più scientifiche, tecniche, misurabili e comprensibili (oltre che realizzate per fini più nobili). Ma pur sempre si tratta di approssimazioni e non di verità. In questi tempi in cui siamo abituati ad affidarci alla tecnologia, rischiamo a volte di darle più importanza e fiducia di quanta ne meriterebbe. Un esempio? Le previsioni del tempo. A differenza di un tempo, oggi siamo abituati a circolare, smartphone alla mano, con l’ultima previsione del tempo sempre in tasca. e per sapere se tra poco pioverà, anziché alzare gli occhi al cielo, li puntiamo sul display cercando una risposta più precisa, vera, attendibile. Alzi la mano chi non è rimasto deluso almeno una volta dalla sentenza letta sul web. Questo accade perché per tutto ciò che riguarda il futuro, che ci piaccia o no, c’è sempre una parte che non possiamo conoscere.

E quando si tratta del nostro futuro? Come facciamo a capire che cosa ci accadrà? Veramente siamo solo in balia del “destino”? C’è chi dice che “il futuro non è un evento inaspettato, che un giorno arriverà all’improvviso e ci sorprenderà. Il futuro è fatto di tanti segnali che stanno già entrando dentro di noi e ci stanno già trasformando” Ma che vorrà dire? Hanno provato a spiegarlo e a delineare alcune linee che possono tratteggiare il futuro che ci aspetta alcuni “guru”, personalità ed esperti di settori diversi, che si sono incontrati per un evento lo scorso giugno a Milano. Grazie ai loro interventi, in due giorni è stato possibile abbozzare una prima ricognizione dei prossimi anni, cercando appunto di leggere i segnali di lunga portata, quelli che vanno al di là del singolo gadget, tecnologia o tendenza.

Li riprendiamo da questo post e ve li riproponiamo. Vi potranno sembrare forse un po’ evanescenti, a volte un po’ romanzati, altre volte troppo futuristici. A noi sono sembrati simpatici e, soprattutto, più che adatti per una leggera lettura estiva.  Ecco qua alcuni concetti base che, forse, diventeranno familiari da qui a 10 anni:

  • Hyper-reality: la iper-realtà, quella che possiamo ottenere grazie alle proiezioni di dati di un oggetto tecnologico su ciò che guardiamo (realtà aumentata), sarà il prolungamento del nostro sé con altri mezzi. Una estensione che comporta molte perdite, ma anche un potenziamento che mette i brividi.
  • Publi-cy: con questo neologismo nato dalle parole “pubblico” e “privacy” si vuole indicare una dimensione nella quale saremo immersi (o forse già lo siamo) nei prossimi anni; il pubblico e privato si fondono in una nuova dimensione in cui bisognerà rinegoziare di continuo quali informazioni vogliamo condividere e quali no (non lo state già facendo con i post su Facebook?)
  • Data artist: se è vero che i Big Data e l’Internet delle Cose faranno crescere in maniera esponenziale il numero di dati scambiati, avremo bisogno di una nuova figura professionale: il Data Artist. Di cosa si tratta? Qualcuno in grado del significato, della forma, del movimento, della trasformazione dei dati. In altre parole un designer che anziché lavorare sugli aspetti esteriori delle cose che vedremo, lo farà sul loro interno.
  • Inclusione e uguaglianza: forse queste due parole non sono fantascientifiche come le altre che avete letto poco sopra; ma sicuramente sono più comprensibili e forse anche più importanti. Non è una coincidenza se due degli interventi più applauditi dabbiano avuto una conclusione simile, nonostante in uno si parlasse di cultura museale e in un altro di politica. In entrambi i guru hanno lanciato un forte appello affinché il futuro sia anche più inclusivo e uguale: diventerà un campo di battaglia nei prossimi dieci anni (soprattutto nelle forme di protesta e disobbedienza civile).

E voi, che futuro vedete? Anche se non siete (siamo) guru possiamo utilizzare in un mix vincente le nostre conoscenze e le nostre fantasie per dar vita a qualche previsione affascinante. Una sola avvertenza: se l’idea geniale vi verrà dopo una giornata calda passata sotto il sole senza cappello, forse potrebbe trattarsi di qualcosa di diverso da una previsione futuristica 🙂