Farsi assumere da un algoritmo

“Non mi ha scelto perché gli stavo antipatico”. Questa frase, a volte un po’ assolutoria, viene da dirla quasi spontaneamente ogni volta che non superiamo un test di selezione, un esame o una qualunque prova nella quale dobbiamo confrontarci con qualcuno che deve giudicarci. Il rapporto personale, approfondito o superficiale, è un fattore spesso determinante per valutare e poi eventualmente scegliere una persona, Dalla prima impressione fino ad arrivare ad una relazione che dura da tempo, sono molte le sfaccettature con le quali le nostre emozioni interpretano i rapporti con gli altri. Il fenomeno è anche alla base della costruzione dei network, anche quelli che si fondano su relazioni digitali (social media in testa). Ma quanto possono e devono influire queste variabili nella scelta di un collaboratore, di un professionista?

Uno studio americano mette in dubbio, con un metodo scientifico, l’efficacia delle relazioni personali per individuare le figure professionali più adatte nei percorsi di selezione. In un articolo apparso su Internazionale di questa settimana infatti, si spiega come si è arrivati a questa ipotesi. In un percorso di selezione per profili medio/bassi sono stati utilizzati due modalità di scelta diverse: la prima basata sulla somministrazione di test analitici (fondati su un algoritmo di decifrazione), la seconda sulle osservazioni di un gruppo di selezionatori. Il risultato è stato che i candidati assunti tramite test hanno mantenuto il posto più a lungo di quelli assunti tramite un processo di selezione “umana”.

Questo vorrebbe forse dire che affidarsi ad un sistema di selezione totalmente scientifico è la soluzione migliore? E che quindi in futuro dovremmo imparare a farci assumere attraverso un algoritmo) In realtà non è proprio così. La selezione fatta secondo parametri scientifici porta in sostanza a definire gruppi di lavoratori uniformi, con lo stesso livello di competenze, la medesima gamma di interessi e via dicendo. Una omogeneità che, in realtà, non fa bene alle aziende che, per mantenere un posto nel mercato hanno capito che la soluzione è puntare sulla diversificazione, anche interna.

In definitiva le relazioni personali ci aiutano a definire (o a mettere insieme) un sistema complesso in grado di soddisfare esigenze diverse, a volte contrapposte. Non solo: il fattore emotivo è anche il valore aggiunto che entra in gioco in caso di imprevisti escogitando soluzioni originali. Un computer (un test, un algoritmo) sono in grado di individuare il migliore secondo un criterio scientifico e oggettivo: solo che non sempre è la soluzione migliore.

Quello che i social media non dicono

I social network servono a trovare lavoro? Se sì, quali piattaforme? E con quali risultati? Immaginiamo che le risposte a queste tre domande possano essere diverse in base alle esperienze avute nei primi contatti con il mondo del lavoro o con quello dei social network. Proviamo a rispondere anche noi. Si può trovare lavoro con un social media? La risposta è senz’altro affermativa. Ma, chiaramente, non è uno strumento diretto di assunzione. Avere un profilo su un social network significa esporsi, presentarsi, rendere pubblica una parte della nostra vita. Questo vale anche se settiamo in maniera restrittiva e vincolata i parametri della privacy. Il motivo è semplice: supponiamo che abbiate deciso di utilizzare Facebook solo per i vostri amici e al contempo siete in una fase della vostra vita in cui state cercando lavoro; come fate ad essere sicuri che nessuno dei vostri contatti intimi e stretti non possa essere il punto di collegamento con una opportunità di lavoro? Non potete esserlo ed è per questo che il solo fatto di iscriversi ad un social network è già un primo, piccolo, passo della vostra presentazione professionale.

Quali piattaforme di social networking sono adatte per la ricerca? Al momento, in Italia, c’è una piattaforma che più di altre è dedicata ai contatti professionali, Linkedin. Ma questo non vuol dire che possiamo e dobbiamo utilizzare solo quella quando siamo alla ricerca di opportunità professionali. Come detto poco sopra anche un social network generalista come Facebook può essere una importante vetrina per le nostre competenze. Quello che dobbiamo fare è imparare a considerare la nostra presenza on line anche in termini di visibilità, promozione di noi stessi, reputazione, affidabilità e considerazione da parte di un pubblico selezionato. Per questo motivo i social non possono, a nostro modo di vedere, soltanto essere un posto per il “cazzeggio”. Perlomeno abbiamo visto che utilizzarli anche per comunicare temi professionali può essere importante così come trascurare questo aspetto può essere dannoso e controproducente.

Questo significa (terza domanda) che i risultati possono essere buoni ma anche irrimediabilmente cattivi? In un articolo di Wired comparso qualche tempo fa veniva riportata l’ultima ricerca di Adecco insieme all’università Cattolica di Milano battezzata Work trends study. La sostanza? Il 35% dei recruiter (selezioantori) intervistati per il mercato italiano, circa 143, ha ammesso “di aver escluso potenziali candidati dalla selezione in seguito alla pubblicazione di contenuti o foto improprie sui profili social”. Capito? Nell’articolo, per essere chiari, si ribadisce anche che  “la web reputationnon è un giochino per fissati del web né un campo riservato ai brand o a una manciata di personaggi popolari: è l’altro lato della nostra presenza pubblica. Che potrebbe anche riservarci sgraditissime sorprese. Anzi, neanche quelle visto che non sapremo mai perché quella e-mail o quella telefonata non sono  arrivate“.

Per concludere, il nostro consiglio è abbastanza semplice. Attivate un profilo su di un social network, studiatene funzionalità e impostazioni nella maniera più precisa possibile, datevi una strategia per il suo utilizzo e, ogni volta che pubblicate qualcosa pensate: chi potrebbe leggere quello che sto scrivendo e come potrebbe interpretarlo?

Biennio all’estero con i Collegi del Mondo Unito

 

Il Movimento UWC è composto da 15 scuole internazionali legalmente riconosciute, unite dall’obiettivo di rendere l’educazione “una forza per unire popoli, nazioni e culture per la pace e per un futuro sostenibile”, temi che diventano più importanti ogni giorno che passa.

Ogni anno i Collegi del Mondo Unito offrono a studenti iscritti al terzo anno di scuole secondarie la possibilità di far parte di un’esperienza educativa in un ambiente che unisce un programma accademico di alto livello alla sfida personale ed ai valori dell’inclusione, dell’accettazione e della considerazione degli altri.

Esistono ad 18 Collegi del Mondo Unito in quattro continenti, per lo più specializzati nell’educazione di ragazzi tra i 16 ed i 19 anni, età in cui l’energia e l’idealismo di un giovane possono essere canalizzati in empatia, responsabilità ed impegno a lungo termine. Nei Collegi del Mondo Unito viene enfatizzata l’importanza dell’apprendimento esperienziale, del servizio di comunità e delle attività all’aria aperta.
Il programma è biennale e include attività scolastiche, sportive e creative, differenti a seconda della scuola di destinazione, e viene per lo più svolto in inglese.

La selezione è impegnativa e i criteri di selezione dei partecipanti si basano su questi parametri:
– curiosità intellettuale e cultura generale con particolare attenzione alle questioni contemporanee, a livello italiano e internazionale;
– capacità di rielaborazione personale, di pensare criticamente e a livello interdisciplinare;
– capacità di stare in gruppo e di lavorare in gruppo;
– altruismo, attitudine alla condivisione delle proprie esperienze, progetti, passioni;
– motivazione all’esperienza dei Collegi del Mondo Unito e condivisione dei valori del movimento.

Le candidature vanno fatte ogni anno in base alle indicazioni del bando, che di solito scade a novembre.

La parola dell’anno non è una parola

Ogni anno l’Oxford Dictionary sceglie una parola simbolo: un termine, un lemma, un’espressione che sintetizzi in qualche modo quel che si è detto e scritto durante i mesi precedenti. Chiaramente le fonti sono giornali, media e, più che mai, il web con tutto il suo contorno. La notizia è che per il 2015 la parola scelta non è una parola. Oxford ha scelto di rappresentare il 2015 con un emoji (emoticon), in particolare con al faccina che ride.

Probabilmente la scelta è dovuta soprattutto all’utilizzo massiccio e alla diffusione capillare di servizi di chat (WhatsApp e simili) che hanno dato il via libera alla messaggistica istantanea e veloce. Così noi utenti abbiamo in qualche maniera approfittato. Quante volte vi è capitato di esprimere con una faccina un pensiero anziché articolarlo con una o più parole? E quante faccine (simboli, pupetti, oggettini più o meno simpatici) ricevete sul vostro smartphone? Probabilmente frequentando le chat, se vi metteste a contarle supererebbero le parole. Forse però esagerare in questo senso non ci fa bene.

Non che sia una malattia, però l’utilizzo delle faccine ci permette di utilizzare una scorciatoia: non ci mettiamo a pensare a quali parole utilizzare, a come potremmo dirlo meglio o in maniera più efficace, a riflettere sulla sensazione che certi vocaboli possono suscitare. La faccina è veloce, sbrigativa, semplificatrice. A volte anche trattabile, che forse è la cosa che qualche volta ce la fa scegliere per evitare complicazioni. Così facendo però corriamo il rischio di non soffermarci sulle discussioni, di tralasciare i particolari, di non approfondire le relazioni. Le faccine non tolgono spazio alle parole ma anche alle nostre emozioni: riassunto in una pallina gialla che ride o che piange, uguale per tutti e in ogni occasione quello che proviamo rimane nel nostro cuore e nel nostro cervello soltanto un istante e non abbiamo tempo per rielaborarlo nè per capirlo. Accade che un po’ tutto ci sfugge. Lo scrive meglio di noi Paolo Iabichino in questo post su Medium: “Non è facile affidare alle parole un’emozione. Scrivere “sono felice”, “mi fai piangere dal ridere”, “mi fai incazzare, sai?”, “sono preoccupato”. Non è la stessa cosa che affidarsi a un comando breve per dirlo con una faccina.

Se vogliamo tralasciare la parte emotiva della faccenda c’è anche un’altra questione: siamo proprio sicuri che il comunicare per emoji sia davvero universalmente comprensibile? Immaginiamo di dover raccontare quello che sappiamo fare o, meglio, la nostra idea sulla professione che svolgiamo o che vogliamo fare attraverso le faccine? Avrebbe lo stesso effetto su chi ci ascolta? Sarebbe davvero un modo affascinante di attirare l’attenzione, magari in un ambito professionale? Anche se qualche volta non ce ne rendiamo conto, diamo forma a ciò che siamo anche attraverso il nostro scrivere. Proviamo a prenderci del tempo per farlo, affinché possiamo recuperare familiarità con l’ascolto di ciò che proviamo.

Studiare in Australia!

Molti di voi avranno pensato almeno una volta nella vita che sarebbe bello poter fare un corso, magari di lingua, in Australia, e unire la necessità di migliorare l’inglese con il piacere di visitare un paese così diverso dal nostro e sul quale si sentono racconti leggendari.

Ma come fare? La distanza sia geografica che culturale, la difficoltà di trovare fonti affidabili di informazioni dedicate proprio a chi non vive già nel paese sono tutti fattori che ci possono scoraggiare nella costruzione del nostro bel progetto.

Per questo il governo australiano ha creato un portale dedicato espressamente a chi ha intenzione di andare a frequentare un corso, a livello scolastico o professionale, nel paese dei canguri, dei serpenti e delle spiagge infinite.
Per farvi sentire più vicini, il 25 novembre un rappresentante del Consolato Australiano terrà un webinar gratuito sui vari tipi di corsi che si possono frequentare in Australia e su come organizzare il proprio soggiorno down under!

L’appuntamento è per mercoledì 25 novembre alle 16.30, online da casa tua!
La partecipazione è gratuita, con iscrizione via email all’indirizzo Italy@studyinaustralia.gov.au

Mi laureo: sì e poi?

Questo articolo potrebbe avere come sottotitolo: l’incubo de “ l’esperienza”. È un problema comune a una bella fetta di giovani appena uscita dagli atenei: la disoccupazione post-laurea, con il conseguente infrangersi delle speranze nutrite da anni di sacrifici trascorsi nella convinzione che uno “studio matto e disperatissimo “ e degli ottimi risultati possano aprire con facilità le porte sul mondo del lavoro. Però è ormai evidente che ciò è vero solo in parte, e che la delusione in cui incappano tanti giovani ha una motivazione molto semplice, cioè la mancata duttilità, diretta conseguenza di un termine ormai temuto e detestato: esperienza. In parole povere, sembra che un datore di lavoro spesso non sappia cosa farsene di un giovane super qualificato grazie agli studi ma privo di quella conoscenza pratica che gli permetta di saper spaziare e di far fronte a tutte le situazioni, ben diverse da quelle dello studente, in cui capita di incappare durante la carriera lavorativa.

I dati raccolti durante l’indagine dell’Eurobarometro sono chiari: quando un’impresa si trova di fronte alla decisione di assumere, guarda soprattutto a quelli che hanno già un po’ di esperienza, piuttosto che a quelli in arrivo da atenei “doc” ma che si sono dedicati esclusivamente allo studio.

Vi riportiamo, come è già stato fatto dall’editoriale sul lavoro del sito “Repubblica” (miojob.repubblica.it), le risposte dei manager di 7 mila imprese europee alla domanda: “Quanto è d’accordo con la seguente affermazione: l’esperienza lavorativa pregressa è un requisito cruciale per le nuove assunzioni

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E se credete che questo sia un problema tutto nostro, sappiate che l’Italia non è nemmeno tra i primi Paesi per i quali il famigerato fattore “esperienza” è fondamentale: prima arrivano Germania, Regno Unito e Francia (sempre secondo i dati dell’Eurobarometro).

Cosa possiamo consigliarvi noi? Di non accantonare il desiderio di conoscere il mondo anche quando sembra che la vita universitaria sia l’unica possibile (e sappiamo quanto possa riempire i pensieri e le giornate!), di non pensare che studiare basti e di mantenere sempre viva la curiosità e la sete di nuove esperienze, sia che si tratti di stage, che  di soggiorni all’estero che di lavori occasionali o volontariato. Tutto contribuirà a costruire la vostra identità non solo professionale ma anche di persone in possesso delle skill necessarie a “farsi scegliere” dai datori di lavoro (la sicurezza di sé, la capacità di comunicare, l’adattabilità, la creatività, lo spirito d’iniziativa e l’intraprendenza sono doti che possono fare la differenza in sede di selezione) e non solo! Come disse Oscar Wilde: “Nulla di ciò che vale la pena conoscere può essere insegnato”, quindi perché non iniziare venendo a trovarci per scoprire tutte le opportunità di lavoro, formazione ed esperienza che il mondo offre?

Creduloni!

La rete (internet) è sicuramente una trovata fantastica per le mille opportunità che è in grado di offrire. Nasconde però anche qualche trappola e qualche inganno a cui bisogna fare attenzione. Forse un aspetto negativo tra i più diffusi è quello legato alla diffusione di notizie false che oggi, grazie ai social media, riescono a raggiungere dimensioni e ampiezza di “contagio” molto ampli. Ne è un esempio il post diventato virale di qualche giorno fa su Facebook secondo il quale la nota casa automobilistica Volkswagen regalava auto: scritto qui così è fin troppo evidente che suona come una vera bufala, ma su Facebook a condividere la notizia (seriamente, senza quindi battute o commenti che facessero intuire ironia) sono stati molti (troppi, a nostro giudizio).

Sarebbe troppo facile liquidare la faccenda con una generica accusa alle nuove tecnologie o, ancor peggio, con il deprecabile adagio “si stava meglio quando si stava peggio”. La realtà è che la questione dell’informazione e dell’informazione corretta, veritiera e affidabile coinvolge diversi aspetti della persona e non solo il suo rapporto con la tecnologia (che comunque rappresenta una leva importante).

C’è per esempio un giornalista del Washington Post che cura una rubrica settimanale nella quale ogni volta smaschera una bufala portando a conoscenza del pubblico, con l’evidenza dei fatti, le bugie raccontate attraverso la rete. In un recente post ha però raccontato la sua delusione: le persone che credono in una notizia flsa non cambiano idea davanti all’evidenza dei fatti.

Lo ha spiegato anche, con un’apposita ricerca, uno studioso di scienze computazionali di Lucca (Walter Quattrociocchi), che spiega”contesti come Facebook permettono alle persone di modellare quello che leggono in base ai loro gusti. Quelle persone sono quindi sempre più esposte a notizie che – scrivono i ricercatori – sono «allineate con quello in cui credono». Quattrociocchi prova anche ad andare alla radice del problema e spiega: “Se si prendono le bufale e si cerca di smontarle, si vede che sono fatte da un misto di errori, analfabetismo funzionale e sfiducia nelle istituzioni: non proprio problemi facilmente risolvibili.”

Quindi per tornare all’inizio la risposta alla domanda “perché crediamo alle bufale?”, la risposta non è da cercare tanto negli strumenti che utilizziamo per informarci ma quanto nella modalità con cui li utilizziamo, nell’educazione che (non) abbiamo ricevuto per utilizzarli e nella capacità critica che (non) abbiamo più sviluppato. La cosa strana è che internet, i social media e tutto il mondo che gira nella rete sono una grande opportunità per colmare questi gap: basterebbe saperli utilizzare meglio.

Non finire nel cestino!

Diamo spesso consigli su come redigere il proprio curriculum vitae e qualche volta assistiamo le persone nella sua stesura. Per quante volte lo possiamo aver detto, ci accorgiamo però che c’è sempre qualcuno che ha ancora bisogno di qualche suggerimento. Così come ci sono delle domande sulla sua compilazione che sono intramontabili (degli evergreen): la foto ci va? Metto anche le esperienze di lavoro nero? Devo mettere il voto? Anche se è basso? In altre parole c’è sempre chi è alla prima volta davanti al foglio bianco su cui scrivere le proprie competenze (cercando di scriverle nel modo più attraente possibile).

Le parole d’ordine per quello che riguarda il cv sono due: attenzione ai dettagli e scrivere cose interessanti. L’attenzione ai dettagli è fondamentale perché basta poco per finire nel cestino: chi legge il vostro cv, che voi avete avuto in gestazione per tanto tempo con tanti tormenti, gli dedica al massimo un minuto, 30 secondi in una buona maggioranza dei casi. Significa che anche un piccolo errore di ortografia rischia di essere preponderante su tutto il resto se in quel breve lasso di tempo dedicato alla lettura è la cosa che salta agli occhi. Un apostrofo di troppo, un congiuntivo scambiato per un condizionale e la vostra candidatura fa una brutta fine. Direte voi: ma non sono errori sostanziali (soprattutto se non mi candido come prof di italiano). Beh, però ascoltate bene: non siete voi a decidere e, soprattutto, una valutazione del candidato non è mai fatta solo sulle sue competenze tecniche.

A proposito: i migliori cv sono quelli da cui è possibile avere un’idea della personalità della persona che lo ha scritto. Per questo motivo è necessario raccontare anche le proprie esperienze diverse dalle singole mansioni lavorative; parlare di un hobby o di una passione a cui si dedicano tempo ed energie aiuta a far capire di che pasta siete fatti. Non basta dichiarare di essere “buoni comunicatori” o “affidabili organizzatori” se poi queste affermazioni non sono supportate da contesti e momenti in cui le avete messe alla prova. Documentare un cv significa raccontare ciò che abbiamo fatto e realizzato più che quello che siamo.

Da ultimo in questo post una nota sul modello di CV da utilizzare. Scordatevi, per favore, il curriculum vitae europeo: lo possiamo vedere come un indice delle cose da inserire in un cv, ma non di più. Il cv europeo è più che altro il parto di un apparato burocratico e amministrativo fatto nel tentativo di unificare e uniformare i lavoratori di tutta Europa. Peccato che nel mercato del lavoro il principio sarebbe quello di differenziarsi per farsi riconoscere. E se non credete a noi sentite qua: “ho sempre ritenuto che il CV europeo sia l’antitesi di quello efficace perché non è chiaro, è troppo lungo e ripetitivo. È una gabbia poco flessibile che costringe tutti i candidati a parlare di sé allo stesso modo. E tutti alla fine sembrano usciti dallo stesso stampo. Il curriculum europeo ha il ruolo opposto a quello che dovrebbe svolgere un CV, cioè facilitare la comprensione a prima vista delle competenze di un candidato da parte di una persona che va di fretta e che ha altri centinaia di curricula da leggere.” Parola di Michèle Favorite, esperta alla John Cabot University.

A proposito: la John Cabot University sarà nostra ospite il prossimo 4 dicembre, prendete nota (e prossimamente nella nostra pagina eventi tutti i dettagli)

Il tuo lavoro è sicuro?

Già in altre occasioni abbiamo parlato di come e quanto le tecnologie possono aver modificato la nostra vita lavorativa. Non si tratta solo di avere oggi la possibilità di utilizzare il computer per scrivere e trattare documenti che ci riguardano in maniera più snella e veloce.  L’avvento dell’ICT (information and communication technology) nella nostra vita quotidiana ha cambiato radicalmente e per sempre non solo le nostre abitudini ma anche il nostro modo di pensare. Molto probabilmente, per esempio, molti di noi farebbero fatica a immaginare di vivere senza internet (alcuni, forse, farebbero fatica anche a rimanere senza per un giorno). Non si tratta di un vizio o di una pessima abitudine ma semplicemente di un mondo che è cambiato anche epr cose molto operative e utili: comprare un viaggio, fare un’operazione bancaria, trasmettere un documento di lavoro, informarsi per fare qualche esempio generico.

In alcuni casi, come nel settore del lavoro, internet e l’automazione offerta dai computer ha creato qualche paura. La domanda o, meglio, l’istanza più frequente in tal senso è: l’informatica di ruba o ci toglie il lavoro? Vengono alla mente le catene di montaggio (l’industria automobilistica Tesla non ha operai in catena) oppure le spedizioni delle lettere (mail e posta certificata stanno “mangiando” terreno ai portalettere). E il vostro lavoro, attuale o prossimo,  è sicuro? Oppure siete tra le figure che verranno messe a repentaglio dalle tecnologie?

La domanda corretta però è un’altra: quanto utilizziamo le tecnologie e quanto ne siamo utilizzati? Perché la paura, come sempre accade, è spesso figlia dell’ignoranza e della disinformazione. Così, anche su questo versante, conoscere aiuta a prevenire. Si può partire anche da piccole cose che sono già un segnale di quanto e come siamo nel giusto mood con la tecnologia. Per esempio, tra di voi chi sta cercando lavoro e utilizza i social network per promuovere le proprie competenze? Chi ha un profilo Linkedin aggiornato’ Chi invece non sa nemmeno che cosa sia Linkedin? Quanto conoscete le opportunità offerte dalle nuove tecnologie? Se impariamo ad utilizzare questi semplici strumenti significa che stiamo già facendo un passo nella direzione della scoperta anziché in quella chiusura al cambiamento.

Se volete una risposta alla domanda del titolo “il tuo lavoro è sicuro?” potete anche fare la prova utilizzando questo simpatico strumento messo a disposizione dalla BBC (riferito al mercato inglese). Chiaramente è solo un test anche se corredato da dati e statistiche. Se invece volete curarvi della prevenzione della vostra carriera professionale proviamo a darvi un consiglio: a essere messi in discussione saranno i lavori ripetitivi per i quali il contributo umano è scarso o nullo. Basta quindi dedicarsi a una professione per la quale non è richiesta solo routine e automatismi ma anche un po’ di creatività, intelligenza, spirito di iniziativa. Tutte cose che si possono imparare, studiando 🙂

Coding (ovvero la logica si impara da piccoli)

Sabato prossimo, il 7 novembre, ospitiamo il terzo appuntamento ad Ancona di Coderdojo, organizzato in collaborazione con l’associazione CoderDojo Ancona. Che cosa è un Coderdojo ve lo abbiamo spiegato già in un post di qualche tempo fa. Oggi vorremmo spiegarvi perché, secondo noi, è così importante. Ed anche così poco legato solo all’informatica.

Occuparsi di programmazione significa avere a che fare con cifre, numeri, matematica: tutti d’accordo? Ok. E poi: chi sa destreggiarsi meglio con le parole e le materie umanistiche è decisamente negato per una materia così scientifica come l’informatica: giusto? Non troppo. La matematica e l’informatica vanno sicuramente a braccetto ma ciò che le lega non è un’approfondita conoscenza di numeri, quanto una assoluta aderenza a un metodo, a un modo di procedere. E questo modo di procedere si chiama logica. La logica non è materia esclusiva di matematici, fisici e quanti altri hanno fatto degli studi algebrici la loro priorità. La logica può appartenere a tutti. lo racconta bene una giornalista americana il cui racconto è stato ripreso qualche tempo fa dalla rivista Internazionale.

Victoria Fine, questo il nome della giornalista, si era convinta che per stare al passo coi tempi era necessario per lei imparare bene l’informatica: per usare la meglio le nuove tecnologie, aprire un sito web, districarsi tra gli strumenti di diffusione on line dei contenuti che produceva (articoli, post, dossier). Ma Victoria era assolutamente spaventata dalla matematica, materia che fin dalla tenera età non riusciva a digerire. Quello che non sapeva era che la matematica non le sarebbe servita più di tanto. Imparate alcune regole fondamentali della programmazione, il resto è stata una questione di metodo che seguiva sostanzialmente due principi. Il primo: vedere quello che facevano altri e tentare di imitarli; non solo altri studenti di un corso a cui era iscritta, ama anche altri programmatori che postavano cose su internet (facilmente reperibili attraverso Google). Il secondo: non era questione di numeri e di parole; l’HTML (un codice di programmazione) è. come dice la parola stessa, un linguaggio di programmazione. Per questo impararlo è più una questione legata alla nostra capacità di imparare una lingua diversa, piuttosto che a quella di avere abilità con i numeri.

Certo, funziona per un livello base ma la cosa bella è anche che quello base può essere il primo di una serie di gradini che piano piano possiamo scalare imparando dagli errori che si fanno nella codificazione informatica. L’informatica è, sostanzialmente, imparare facendo.  Dice Victoria:”imparare a programmare non ha fatto di me una programmatrice, ma ha cambiato il mio atteggiamento quando devo imparare cose nuove“. In questa conclusione della giornalista americana c’è l’essenza del coding e anche del Coderdojo: l’obiettivo non è diventare prigrammatori informatici, ma cominciare ausare la testa, la logica. E magari lo facessimo tutti!