Peer-education, perché funziona?

La peer-education, che la si può definire una metodologia educativa, vede le sue prime applicazioni intorno agli anni ’60, neanche a dirlo, negli Stati Uniti. Ha poi avuto un boom negli anni ‘80 per la campagna informativa sull’AIDS ottenendo importantissimi risultati nel mondo anglosassone. In Italia è arrivata un po’ più tardi ma da alcuni anni ormai è molto utilizzata in contesti educativi informali ed in quelli scolastici, qualificandosi come un approccio articolato utile e funzionale all’ educazione alla salute. Essa propone dei modelli di comportamento sani, orientando l’individuo al benessere, mettendo in luce le criticità e i danni a cui si va incontro seguendo condotte cosiddette “a rischio”.

Ma come si attua un percorso di peer-education? E soprattutto, quali sono i protagonisti e i destinatari?

Letteralmente significa “educazione fra pari” e nella maggior parte dei casi tale proposta educativa è attuata in contesti giovanili, anche se per “pari” si intende un gruppo di individui che vivono e convivono uno stesso ambiente e hanno gli stessi interessi, a prescindere dall’età. Certo è, che soprattutto nel mondo adolescenziale, questa metodologia ha un forte impatto e la trasmissioni delle informazioni risulta essere molto efficace, sia in contesti formali come la scuola, sia in quelli informali.

Scelto il tema da trattare il passo più importante e delicato da tenere in considerazione per avviare un tale percorso è quello del coinvolgimento del gruppo classe, perché, cosa fondamentale è che i peer-educator, ovvero gli individui che saranno formati e che poi andranno a formare i loro pari, vengono selezionati tramite autocandidatura. Loro stessi scelgono, in base alle loro motivazioni ed interessi, di impegnarsi in un percorso formativo per condividere poi le informazioni ricevute con i loro pari, nel modo che reputano più opportuno e più vicino al loro linguaggio mettendo in campo le loro competenze, life-skills, che sono patrimonio di ogni individuo e che, a seconda delle necessità, vengono attivate con risultati spesso sorprendenti. Alcune caratteristiche, comunque, sono  comuni agli aspiranti peer educator che devono possedere buone capacità comunicative e relazionali, essere in grado di lavorare in un gruppo ed essere percepiti dai pari come affidabili e credibili; è questa la gran forza di questa metodologia, ovvero lo sfruttare il rapporto di influenza reciproca e continua che si manifesta all’interno di un gruppo di pari.

La peer-education, quindi, dà vita ad un movimento virtuoso di condivisione di conoscenze e di messaggi che si svolge in maniera sempre pro-attiva e che a cascata trasmette le informazioni sul tema scelto ad un numero sempre più ampio di individui favorendo così consapevolezza e conoscenza reciproca.

 

 

Tieni il tempo!

La gestione del tempo è una delle soft skill (se non ricordi cosa sono leggi qui) tra le più conosciute e utili nel lavoro e nella vita. Spesso non puoi decidere quanto tempo avere a disposizione, ma quello che conta è riuscire ad organizzarlo al meglio possibile. Quali sono le problematiche più comuni? Scarso tempismo (sei puntuale o ritardatario?), accumulo eccessivo di lavoro o impegni extra, difficoltà a mantenere il focus sugli obiettivi prefissati o a rispettare le scadenze, perdere tempo in situazioni irrilevanti e dispersive.
A volte per non voler rinunciare a nulla, si rischia di fare di fretta o essere in ritardo su tutto. La difficoltà di dare priorità può farti sembrare tutto uguale e non sai più da dove iniziare; è importante stabilire un principio per dare un peso diverso a impegni e attività (Per urgenza? Per importanza? Per interesse?).
Il nostro rapporto con il tempo rivela caratteristiche della nostra personalità; il ritardo cronico può non essere solo questione di disorganizzazione, ma può avere alcune motivazioni psicologiche inconsce tra cui la ribellione ad un genitore vissuto come troppo autoritario nell’infanzia (Se sei ritardatario cronico e ti incuriosisce questo tema qui trovi qualche spunto).
Un’altra difficoltà comune nella gestione del tempo è quella di trovarsi sistematicamente a fare le cose all’ultimo. “Quella relazione importante la scrivo nel pomeriggio, la settimana prossima faccio questa telefonata, da domani inizio a studiare per l’esame …”. Quante volte ti sei fatto simili promesse senza riuscire a mantenerle? Si chiama procrastinazione ed è l’abitudine a rimandare le azioni da fare sempre ad un altro momento; può diventare uno stile di vita caratterizzato dall’incapacità di rispettare impegni e scadenze.
E al lavoro, come si può gestire bene il tempo? Pianifica con cura ed intelligenza, poi segui il piano con la giusta flessibilità (non troppa e non troppo poca!). Tempismo non significa agire frettolosamente quindi prenditi il tempo opportuno richiesto dall’occupazione che devi svolgere.
Un buon sistema che potresti sperimentare è quello delle 4D: 1. Delete (elimina): quell’attività può essere eliminata? Ricorda sempre la regola 80/20 proposta da Vilfredo Pareto secondo cui l’80% dei tuoi risultati deriva dal 20% delle tue azioni. 2. Delegate (delega): c’è qualcun altro che può eseguire quel lavoro al tuo posto? Se si, potresti delegarlo e ottimizzare il tuo tempo a disposizione. 3. Defer (rinvia): alcune attività possono essere eseguite in seguito, ma entro alcuni parametri. Definisci sempre delle scadenze e posticipa quello che può essere posticipato (ma senza cadere nella procrastinazione!). 4. Do (fai): ci sono cose che devono essere fatte immediatamente e avere la priorità assoluta. Rimandare queste attività potrebbe introdurti ad una spirale di ansia e stress.
Qui puoi approfondire le 4D collegate a obiettivi smart e qui trovi qualche tecnica di gestione del tempo.
Se invece vuoi un colloquio di orientamento e un confronto su questa e altre soft skills, passa a trovarci!