Una esperienza all’estero con lo SVE, tempo ben speso!

Tra le attività dedicate ai giovani e finanziate dall’Unione Europea attraverso il programma Erasmus+, la più accessibile, perché non richiede titoli di studio particolari, e la più adattabile alle proprie esigenze è sicuramente il Servizio Volontario Europeo.

Possono partecipare tutti i giovani residenti in Italia tra i 17 e i 30 anni che abbiano intenzione di passare un periodo tra 2 e 12 mesi in uno dei paesi aderenti al programma Erasmus+.

Ecco alcune opportunità già pronte da cogliere al volo, per programmare un’esperienza all’estero per i prossimi mesi!

 

Progetto “MULTI-KULTI 2016” – Polonia – dal 02/07/2016 al 28/08/2016

L’associazione POLITES ospiterà 20 volontari da 5 paesi diversi per l’organizzazione di attività multiculturali dedicate a bambini e ragazzi tra i 9 e i 15 anni; i volontari inoltre parteciperanno alle attività di workshop, ricerca e relazioni con altre associazioni che l’ente ospitante svolge abitualmente, con la possibilità di prendere parte anche a eventi organizzati dal locale centro regionale per il volontariato.

Scadenza per candidarsi: 5 giugno 2016

Progetto “The first step in education, the first step in volunteering!” – Romania – da maggio a novembre 2016
L’Asociatia Pro Democratia Club Braila accoglie volontari da diversi paesi per attività di collaborazione e apprendimento di tecniche di educazione non formale presso il vicino Kindergarden.

Scadenza per le candidature: al più presto

SVE presso Le Centre Méditerranéen d’Etudes Françaises (CMEF) – Francia – dal 10/01/2017 – 20/07/2017
Il Centro Studi offre la possibilità di svolgere uno SVE presso la scuola di lingue, e di essere coinvolti nell’organizzazione dei campi studio per ragazzi e ragazze, assistendo nell’accoglienza, l’accompagnamento e l’animazione dei gruppi stessi.

Scadenza per l’invio delle candidature: 20 giugno 2016

Progetto SVE presso la Fanzinothèque di Poitiers, Francia – dal 05/09/2016 al 31/08/2017
La Fanzinothèque accoglierà un/a volontario/a con forte interesse nelle arti grafiche, nell’editoria e informazione, per attività di produzione materiali grafici, per supportare l’organizzazione di eventi, mostre e workshop promossi dall’ente ospitante. Qui tutti i dettagli.

Scadenza per le candidature: 30 maggio 2016

 

Emozioni in foto

Il prossimo 9 giugno torneremo a parlare di immagini, fotografia e di come queste possono diventare un potente strumento per rappresentare le proprie emozioni. Lo faremo ospitano Emanuele Maggini, fotografo anconetano che ha realizzato un interessante progetto con il carcere. In anteprima sul nostro blog un’intervista che gli abbiamo fatto per capire meglio che cosa è successo.
Il tuo progetto ha portato la fotografia in carcere: ci spieghi meglio di cosa si è trattato?

La mia esigenza in quanto fotografo è sempre stata quella di trasmettere sensazioni ed emozioni,con la fotografia si ha la possibilità di rendere tangibile ciò che abbiamo dentro. Ho sempre desiderato fare qualcosa di buono per gli altri con la mia passione e con il mio lavoro,quindi ho deciso di portare la fotografia in un contesto molto particolare,in un contesto,ovvero il carcere, dove la fotografia è totalmente assente. È stata una sfida anche con me stesso che poi ha portato a risultati eccezionali anche grazie alla presenza costante di mia sorella Alice dottoressa in scende e tecniche psicologiche che ha dato un contributo enorme alla realizzazione di questo progetto. Si è trattato di uno corso settimanale con lezioni di due ore, dove è stata insegnata l’importanza della fotografia come mezzo di comunicazione in tutti i suoi aspetti ( racconto autobiografico, mezzo pubblicitario e come portavoce di contenuti inconsci) il tutto accompagnato da slide con esempi di fotografie tipo. Si è poi proseguito con l’insegnare la tecnica base della fotografia (tempi, diaframma, regola dei terzi, luci). Tutto quello che è stato imparato al corso i detenuti lo hanno messo in pratica, realizzando foto da loro progettate che potessero esprimere i loro contenuti.

Come mai hai pensato alla realtà carceraria? Nella tua percezione che tipo di stimolo,valore poteva avere la fotografia in quel contesto?

La mia esperienza personale e professionale mi ha portato alla consapevolezza di quanto la fotografia possa essere un potente mezzo per poter comunicare molto più di quanto possa essere detto. Ha il potere di poter esprimere contenuti scomodi e dolorosi di chi fotografa con eleganza e meno sofferenza e al tempo stesso la capacità di richiamare emozioni proprie in chi la guarda. Ho così pensato che potesse essere un valido sostegno farla entrare nella realtà carceraria. E che potesse offrire un valido ponte per tirare fuori l emotività di un utenza che ero sicuro avesse molto da comunicare e che poi potesse riavvicinare la comunità libera alla penitenziaria, avvolte questi due mondi sono così distanziati da stereotipi e pregiudizi che creano le vere sbarre della reclusione. Va aggiunto che secondo la costituzione il carcere è un sistema rieducativo e non mi dispiace l’idea che dopo questo corso teorico e pratico al quale ho rilasciato anche un attestato, finita la detenzione, qualcuno decidesse di fare buon uso di questa esperienza, appassionarsi a questa arte, così da farne un lavoro a tutti gli effetti.

Come è stato accolto dai detenuti il tuo arrivo? E la tua proposta?

La prima lezione è stata una di quelle più particolari, si avvertiva l’emozione ambo le parti, da parte mia sebbene avessi già sostenuto corsi importanti entrare nel contesto carcerario mi dava un mix di alte aspettative e paura, i ragazzi dall’altra parte erano incuriositi da questo corso innovativo mai fatto prima non avevano mai affrontato la fotografia in un contesto carcerario,alcuni di loro prima, e non sapevano cosa aspettarsi, abbiamo da subito appreso che il sistema detentivo lascia poco spazio alla comunicazione e che si erano iscritti a questo corso alla ceca senza sapere di cosa so trattasse ne con che modalità, hanno quindi iniziato a riempirci di domande e questo a facilitato il momento della presentazione, da lì in poi abbiamo instaurato immediatamente un bellissimo rapporto insegnantei-alunni che ci ha portato a collaborare in maniera eccezionale e professionale.

La fotografia nel tuo caso è stata un’esperienza artistica più che tecnica: possiamo dire che l’arte riesce a liberare le persone? In questo caso non hai corso il rischio di acuire ancor più il senso di libertà? Se ce stato questo rischio come lo avete superato?

La parte tecnica è stata fondamentale nell’insegnare a loro come poter utilizzare questo mezzo di comunicazione in maniera idonea, poi effettivamente la parte artistica è stata prevalente e molto più stimolante dato che il fine principe del progetto era di tirare fuori emozioni ed imprimerle in uno scatto. Il percorso per creare una foto è: concentrarsi su un pensiero, riflettere a fondo su di esso e imprimerlo. Progettando il corso io ed Alice abbiamo più volte riflettuto sul pericolo effettivamente di acuire il senso di perdita della libertà e abbiamo fatto molta attenzione ad usare immagini e parole che limitassero quanto più possibile questo pericolo. Ma l’arte è sinonimo di libertà di pensiero non fisica, e offrire loro un percorso che potesse restituirgli un po’ della loro individualità persa con l’entrata in carcere e la possibilità di comunicare anche contenuti indicibili è stata una cosa molto apprezzata dai detenuti. Abbiamo da subito compreso che la vera condanna non è la reclusione fisica ma lo smarrimento della propria personalità. Esistono celle di ferro ma anche delle prigioni mentali, l’offrire l opportunità di tirare fuori quello che avevo dentro dentro positivo o negativo, e poterlo raccontare oltre le mura, li ha secondo me per una frazione di secondo resi, veramente liberi.

In questo percorso sei stato coadiuvato da un dottoressa in scienze e tecniche psicologiche: quale è stato il suo contributo e quale, se possibile, la sua analisi dei risultati ottenuti?

Maggini Alice dottoressa in scienze e tecniche psicologiche ha contributo prettamente alla parte emotiva del corso. Il suo ruolo è stato finalizzato alla spiegazione della fotografia come veicolo di contenuti emotivi che in questo particolare contesto può rivelarsi strumento portavoce di sentimenti anche scomodi e dolorosi, ma che sono inevitabilmente presenti, anche se non detti, come anche di elementi positivi che esistono anche se si fatica a vederli in un contesto così duro e restrittivo. Portando poi i detenuti a far emergere questi sentimenti e individuando con il gruppo gli oggetti che potessero rappresentarli. Oggetti che poi sono stati utilizzati nel set e che i detenuti hanno utilizzato per le foto prodotte in still-life.
Alle luce di quanto emerso dalle foto prodotte la Dott.ssa Maggini Alice ritiene che l’ obiettivo del progetto sia stato raggiunto a pieno, considerando l’evolversi delle dinamiche di gruppo nelle varie fasi del progetto. Partito con un utenza che se pur ben disposta e pronta al dialogo è risulta nelle prime fasi palesemente in difficoltà a fermarsi su certi contenuti emotivi e non abituata a lavori che coinvolgono l’ emotività e che alla fine ha prodotto foto che raccontano di temi importanti come il rimorso, la solidarietà, la nostalgia e tanto altro. Particolarmente importante risulta il lavoro sul “tempo che scorre” tematica che come si può ben immaginare ha creato non poco disagio nel gruppo (utenza che nella maggioranza ha 10 e più anni di reclusione da scontare), argomento tanto fastidioso da essere considerato in prima istanza tabu e che alla fine del progetto risulta essere l’elemento principe della maggior parte delle foto.
Hai realizzato un corso di fotografia e quindi avevi un’aula anche se del tutto particolare; come è stato il rapporto umano con questi alunni? Cosa hai notato di diverso dalle altre aule.

Come ti dicevo prima,ho insegnato in molto corsi,con tantissimi partecipanti,non è stato poi cosi diverso a parte la presenza delle telecamere e le regole restrittive in cui ho dovuto giostrarmi. Ho trovato nell’utenza molta educazione e disciplina e soprattutto interessata e collaborativa, il rapporto è stato sempre insegnante-alunno come sempre faccio,in questo caso a maggior ragione ma ovviamente non sono mancate risate e momenti meno impegnativi dove poter scambiare due parole in tranquillità. Non sono mancati anche momenti di tensione soprattutto quando si è andati a toccare le emozioni che solitamente sono tenute al di fuori delle mura carcerarie e che come ci hanno più volte spiegato i detenuti se e quando emergono sono in questo contesto amplificate. Io e Alice ci siamo sempre concessi un momento di restituzione alla fine del corso dove io e lei discutevamo insieme su ciò che era emerso nella lezione, sui contenuti emotivi che ci portavamo via e su quale strategie adottare nella prossima lezione, siamo così riusciti a fronteggiare il tutto al meglio creando un bellissimo rapporto con la classe tanto che a fine corso per i saluti finali ci sono stati momenti toccanti conclusi con un arrivederci. I detenuti hanno pensato di salutarci scrivendoci delle lettere di ringraziamento da come ricordo per quanto abbiamo fatto insieme. È stata una cosa molto emozionante.

Ci puoi dire se questa esperienza ha cambiato il tuo modo di vedere la realtà carceraria e se si in quali termini?

Ho sempre pensato che il carcere debba essere rieducativo e non prettamente punitivo ,per molti di loro come ci hanno detto tramite lettere la punizione più grande è dentro di loro,quella di dover convivere con rimorsi e sensi di colpa. È stata un’esperienza molto intensa che mi ha portato a ragionare a fondo sulle conseguenze delle nostre azioni di tutti i giorni,sia piccole che grandi,sia positive che negative. Mi hanno fatto capire l’importanza della vista ,della libertà,della possibilità di scegliere,l’importanza di una carezza e il peso di uno schiaffo.

In che modo invece pensi possa essere stato utile per i detenuti?

Prima di tutto,la nostra presenza li ha stimolati a conoscersi, confrontarsi,a interagire con noi che venivamo da oltre le mura, hanno inoltre imparato un mestiere,che ovviamente in caso in un futuro lavoro come fotografo andrà rinforzato ma alcuni di loro hanno lasciato questa porta aperta per quando usciranno…e cosa più importante sono riusciti a tirar fuori ciò che avevano dentro con loro sorpresa,sono loro che hanno preso la reflex,calcolato la luce,creato il set e fatto lo scatto….creando delle vere e proprie opere che raccontano di loro. Secondo me sono stati straordinari.

Ci dici quali saranno i prossimi passi e come altre persone posso avvicinarsi a questa esperienza anche solo per conoscerla? E per conoscere i lavori fatti?

Certamente, abbiamo in previsione diverse mostre in tutte le Marche, partendo da Ancona ovviamente per poi fare altre tappe a Senigallia, Jesi ed altre città. Non saranno solamente mostre dove verranno esposte le foto dei detenuti ma faremo anche degli incontri aperti al pubblico dove io e Alice parleremo di questa straordinaria esperienza (l’appuntamento ad Ancona è per il 16 giugno nella sala dell’Informagiovani, in piazza Roma; ndr)

Che obiettivi può avere nel tuo futuro questa esperienza? Possiamo dire che ci sarà un continuo?

Una delle cose che ho capito ancor prima di iniziare il corso è che niente è impossibile,nonostante molti dicevano che non ci sarei riuscito per molte ragioni,quindi continuerò a portare avanti questo programma facendo altri corsi in tutta italia,ci hanno già contattato altri carceri per organizzare mostre,corsi ed incontri. Ho fatto della fotografia la mia disciplina,il mio stile di vita,ne ho ulteriore avuto conferma dell’importanza, quindi poterò sicuramente avanti altri progetti come questo. La cosa straordinaria è che questa esperienza ha formato loro quanto noi e vorrei ricordare che senza la disponibilità del Carcere di Montacuto,senza la determinazione e la voglia di cominciare dei detenuti con le loro stupende foto, tutto questo non sarebbe mai potuto accadere. Quindi ringraziamo tutti loro.

Vorremo infine ringraziarvi per questa bellissima intervista che ci avete fatto, per noi è stato importante il lavoro che abbiamo fatto dentro al carcere quanto riuscire a portarlo all’esterno, grazie ancora.

Lo faccio domani (l’arte poco nobile di rimandare)

Vi è mai capitato di avere un sacco di cose da fare? E di decidere di farle un altro giorno? La frase “lo faccio domani” crediamo sia abbastanza diffusa sia tra chi di noi è meno efficace ed efficiente, sia tra chi ha invece un sacco di cose nella propria lista delle attività da fare. In altre parole rimandare è un vizio piuttosto facile da prendere. Così succede che dovremmo preparare una relazione, controllare un budget, scrivere (magari anche un post come questo) ma prima di iniziare ci concediamo una visita a Facebook, poi clicchiamo sul link che il nostro contatto ha condiviso e da lì partiamo per altri “lidi”. A quel punto la nostra testa non è più concentrata su quel che avremmo dovuto fare e si perde per altri rivoli, senza una meta.

Perché questo accade? Un po’ senz’altro per mancanza di disciplina. Alcuni ricercatori considerano la procrastinazione fondamentalmente come l’incapacità di sapersi organizzare, come succede per altre cattive abitudini legate alla mancanza di autocontrollo, come l’abuso di cibo, i problemi con il gioco d’azzardo o la tendenza a spendere troppo. Per altri, invece, non ha a che fare con la pigrizia o la cattiva gestione del tempo, come possono dimostrare molte persone brillanti che hanno risultati sopra le media e tendono comunque a procrastinare

Per alcuni psicologi rimandare è una sorta di autodifesa: evitiamo un compito perché ci mette ansia senza restituirci una sensazione positiva. Per intenderci non è l’ansia che potremmo avere prima di giocare una partita del nostro sport preferito: quel tipo di ansia la superiamo solitamente con la voglia di giocare, di stare insieme agli altri, di vincere. Si tratta invece dell’ansia che ci fa sentire in colpa e ci fa vergognare perché non siamo all’altezza del compito da svolgere oppure non abbiamo fatto quel che dovevamo.

Il meccanismo con il quale agisce chi rimanda a domani funziona più o meno così: siccome la paura o l’ansia per il compito che ci aspetta sono insopportabili, sostituiamo quel compito difficile con uno più facile, comodo e divertente. Il comportamento è reiterato fino a che l’incombenza è troppo urgente e importante per non essere affrontata; a quel punto però diventa anche di più difficile gestione e soluzione. Esempio: dovremmo fare un certo esercizio di matematica per la lezione che avremo fra 3 giorni; oggi non la affrontiamo perché ci sembra di avere ancora molto tempo; domani ci avviciniamo all’esercizio ma ci distraiamo con altro; il terzo giorno, con sorpresa, abbiamo anche poco tempo per finirlo. Come lo risolveremo secondo voi? Sicuramente non con la nostra migliore performance. Senza contare che per qualcuno è preferibile non presentarsi a scuola piuttosto che affrontare l’esercizio e risolverlo, aggravando così ancora di più la situazione. Ma questo circolo vizioso non è proprio solo della scuola, accade con una certa frequenza anche agli adulti nel posto di lavoro.

Gli psicologi concordano sul fatto che il problema dei procrastinatori è che, invece di rimanere concentrati sui loro obiettivi a lungo termine, sono tentati a cedere alle gratificazioni immediate, che innescano quella forma di sollievo istantaneo che gli psicologi definiscono  “piacere edonico”. Gli obiettivi importanti sono più difficili ma a lungo andare portano una sensazione di benessere e soddisfazione più durevole. Se cadiamo nel tranello di pensare soltanto all’immediato e non vedere un futuro, quello che possiamo fare è cominciare a essere più attenti alla nostra dimensione futura e allo stesso tempo provare a risolvere i nostri compiti un pezzo alla volta. C’è una famosa domanda che si fa nelle sessioni formative in cui si tratta della gestione del tempo e delle risorse: come si mangia un elefante intero? La risposta più banale ma anche più giusta è: un pezzo alla volta. Questo significa che se il compito che abbiamo ci appare troppo grande, possiamo sempre spezzettarlo in compiti più piccoli, in fasi, che possiamo affrontare con maggior tranquillità e più efficacia. Provate a pensare al vostro prossimo compito come ad un puzzle: prima o poi lo finirete, basta mettere insieme un pezzo alla volta.

 

Fermatevi un anno

Sapete che cosa è un “gap year“? Il “gap year” è il modo in cui gli anglosassoni chiamano l’anno in cui decidono di prendersi una pausa. Sì, esatto, un anno di pausa da qualsiasi attività professionale (intendendo con questo anche l’inizio della carriera universitaria). Forse la cosa potrà sembrare strana per la nostra cultura, soprattutto oggi che siamo portati a pensare che ogni minuto passato a non far nulla è tempo sprecato. In alcuni paesi esteri invece il “gap year” è una prassi conosciuta, in certi casi consolidata, qualche volta addirittura consigliata. Quale potrebbe essere il vantaggio di dedicare un anno all’ozio?

Innanzitutto non si tratta di ozio come generalmente viene inteso. Esiste l’ozio creativo, che è quella condizione nella quale lavoriamo (o comunque facciamo qualcosa di produttivo, per noi stessi o gli altri) anche se non ne abbiamo consapevolezza, coscienza e intenzione. Il sociologo che ne ha definito caratteristiche e confini lo ha fatto in un libro che si intitola proprio “L’ozio creativo” (Domenico De Masi, Ediesse 1995). Quindi, una prima questione è che anche quando decidiamo di non fare nulla, in realtà stiamo producendo: ideiamo progetti per il futuro, immaginiamo come potrà svilupparsi la nostra professionalità o la nostra vita, fantastichiamo su dove vorremmo andare o come vorremmo vivere, ci dedichiamo a un hobby, coltiviamo una passione e altre cose del genere. Attenzione: deve essere però una scelta, cioè deve essere intenzionale. Per intenderci, giocherellare e perdersi tra i post di Facebook non è ozio creativo :-).

A ogni modo il “gap year” non è solo ozio, anche se creativo. In realtà è un modo interessante e intelligente per scoprire veramente di che pasta siamo fatti. Per prima cosa il “gap year” è anche e fondamentalmente un anno trascorso a vivere esperienze originali, inconsuete, diverse dalla routine o dalla programmazione che la maggior parte delle persone fa della propria vita. Per prenderci un anno di pausa dobbiamo quindi decidere come utilizzeremo quel tempo e cosa decideremo di fare: dovrà essere un’esperienza che non è dettata dalla funzionalità o da un obiettivo utilitaristico. Molto semplicemente si tratta di scegliere di fare cose ci piacciono e che ci fanno stare bene senza necessariamente che questo ci porti un utile, in qualsiasi senso lo intendiamo.

Se avete modo di ascoltare il racconto di chi ha fatto questa esperienza, vi dirà sicuramente che il “gap year” è stato fondamentale (a questo link http://goo.gl/71WTb5 potete trovare il racconto di una di queste storie; in inglese): l’esperienza può essere il punto di svolta di una vita, aiuta ad aprire gli occhi sul mondo, a respirare aria nuova per fare scelte migliori per il proprio futuro sopratutto per gli studenti. Per esempio, dal racconto di chi lo ha fatto e che potete leggere la link che vi abbiamo segnalato, scopriamo che un anno trascorso a vivere esperienze originali aiuta a comprendere meglio la diversità delle persone e come l’interpretazione del mondo in cui viviamo possa essere molto diversa dalla propria, a migliorare le capacità di adattamento di una persona, a essere maggiormente indipendenti. Se poi un anno di pausa è un anno trascorso all’estero, l’esperienza diventa ancora più interessante perché si aggiungono la conoscenza di una lingua estera, quella di una cultura diversa, la possibilità di avere contatti internazionali. Un anno di pausa può insegnare molte più cose di 10 anni si scuola e formazione.

Il nostro consiglio? Se per esempio siete nell’anno della maturità e state per affrontare la scelta (se non l’avete già fatta) di che cosa fare nella vostra vita, prendete in considerazione il fatto che un “gap year” potrebbe essere per voi la vera svolta.