Cosa sono le competenze?

Sono in molti a pensare che i lavori di domani si fonderanno sulle competenze piuttosto che sui titoli. Spieghiamo la differenza, almeno a nostro modo di vedere. I titoli sono “etichette” che possiamo metterci ed esibire quando qualcuno ce le consegna. Così diventiamo ingegneri, per esempio, solo quando, dopo un percorso universitario, otteniamo il titolo di studio della laurea in ingegneria; oppure siamo giornalisti solo quando un ordine, previo apposito iter ed esame, dichiara che possiamo firmare articoli di giornali e riviste. Niente di male, per carità. Solo che questo meccanismo oltre ad avere indubbi vantaggi (pensate ad esempio alla professione del medico, per la quale il titolo garantisce uno standard di qualità e sicurezza per tutti) ha anche qualche pecca. Per esempio non contempla professioni emergenti che, non rientrando dentro nessuna categoria già preordinata, sfuggono anche a titoli di qualsiasi genere (quando potete dire di essere social media manager?).

Ma il difetto, se così lo vogliamo chiamare, più grande è la logica che sottende a questo tipo di impostazione. Avere un titolo ci fa pensare (a volte pretendere) che sia nostro diritto avere anche un lavoro, una mansione retribuita per quel tipo di titolo. Non che la pretesa sia assurda, ma cosa succede se dato un tot di laureati in giurisprudenza non ci sono posizioni sufficienti per tutti? La risposta nella realtà la conoscete tutti. Questo meccanismo non è sbagliato in senso assoluto, solo che non corrisponde più e non è più adattabile all’attuale mercato del lavoro.  Proviamo avedere se, diversamente, può accadere qualcosa di diverso partendo dalle competenze.

Innanzitutto: cosa sono le competenze? Etimologicamente competenza deriva dal tardo latino competentia, sostantivo di competere (cum, insieme, più petere, dirigersi verso, cercare di avere, aspirare). Competere significa dunque: –Incontrarsi, convergere al medesimo punto –Concordare –Spettare, essere applicabile –Essere padrone di se stesso, cercare insieme (allo stesso tempo) di ottenere qualcosa –Essere adatto, capace di (in senso figurato). Riprendendo una definizione più vicina ai temi del lavoro, proposta da ISFOL, la competenza professionale è un insieme di elementi/dimensioni che concorrono all’efficacia di un comportamento professionale; è finalizzata all’azione ed è intrecciata alla capacità di fare e alla conoscenza delle situazioni e dei contesti. insomma dentro la competenza c’è tutta la nostra professionalità; e l’insieme delle nostre competenze fa di noi professionisti di un determinato campo. Avere delle competenze, quando cerchiamo lavoro, dovrebbe farci fare questa domanda: a chi possono essere utili? L’ottica, rispetto a quella del “posto di lavoro” per titoli, è nettamente diversa anche se il risultato atteso è identico.

Se cominciamo a porci nel mercato del lavoro come professionisti in grado di offrire delle competenze la strategia che dovremmo seguire non è tanto quella di trovare un posto, quanto quella di capire quale bisogno o quale utilità possiamo offrire a chi ci potrebbe pagare per avere i nostri servizi. Il meccanismo che regola questa strategia è lo stesso che seguono aziende ed imprenditori quando decidono di posizionarsi in un mercato. C’è un libro che racconta meglio e in maniera più esaustiva tutto questo: è “Business model you” di Tim Clark, tradotto anche in italiano dalla casa editrice Hoepli. Ah, se volete potete consultarlo gratuitamente anche all’Informagiovani!

Concentrazione minima

“Attenzione!” è questo l’incitamento che con maggiore frequenza e facilità troviamo in contesti diversi della nostra vita: per strada, a scuola, in casa. “Attenzione” è un ammonimento, ma anche un avvertimento, che richiama all’ordine prima il nostro sguardo e poi la nostra mente. La nostra mente ha, infatti, una forte inclinazione a disimpegnarsi, a divagare (e la frequenza con cui questo richiamo viene fatto ne è la dimostrazione). A chi non è capitato di distrarsi? O, meglio, chi non è mai distratto? La disattenzione, a parte i film di spie e 007, è un fattore intrinseco dell’essere umano: tutti noi ci distraiamo (e peggio sarebbe se non fosse così).

La mente umana, spesso e volentieri, vaga senza una meta apparente: non significa che sia inattiva, semplicemente non è focalizzata su di un obiettivo (e quel “attenzione!” magari gridato serve proprio a ricondurci all’obiettivo). Quando ci capita di distrarci, però, non è che il nostro cervello se ne stia lì ad oziare: nel concedersi spazi di svago, nel distaccarsi dalla contingenza la mente esercita anche altre facoltà, con esisti vantaggiosi per noi stessi e gli altri. E allora: a che cosa pensiamo quando non pensiamo a nulla? In un libro intitolato “The wandering mind” (sottotitolo tradotto: che cosa fa la mente quando non guardi”) si cerca danno più risposte a questa domanda. Quello che il nostro cervello fa durante lo “svago” è una ricombinazione di stimoli che durante la fase di attenzione ha ricevuto. La nostra memoria è composta infatti da tre sostanziali livelli. Il primo è quello delle competenze (skills) come per esempio parlare, camminare, scrivere, ecc. Il secondo livello è quello delle conoscenze (knowledge): si tratta dell’insieme delle nozioni che abbiamo ricevuto, in tutti i contesti in cui le abbiamo assimilate (non solo, quindi, la didattica formale). E infine quella che viene definita più comunemente come memoria, cioè la capacità di ricordare, riattivare esperienze del passato. Su questo ultimo livello la nostra mente, stranamente, propende più a guardare la futuro che non al passato, tanto è vero che le zone cerebrali che si attivano ricordando eventi del passato, sono le stesse che si attivano quando pensiamo al futuro.

Se paragoniamo il nostro cervello ad una città, nelle fasi di ozio non è che le strade siano deserte, ma gli abitanti attendono a casa propria salvo confluire in un medesimo posto quando accade un evento importante. Quindi quando divaghiamo, in realtà viaggiamo: oltre che tornare al passato, facciamo anche dei viaggi futuristici immaginandoci possibili scenari futuri. E poi facciamo anche un’altra cosa incredibile: secondo la “teoria della mente” abbiamo l’attitudine a rappresentarci gli stati mentali altrui. In altre parole ci facciamo delle domande e cerchiamo delle risposte su quello che potrebbero pensare gli altri. A volte facciamo anche il salto del cosiddetto “mettersi nei panni degli altri”: sviluppare la disposizione a mettersi nei panni altrui aumenta ala possibilità di comprensione reciproca, di empatia e interesse sociale, con evidenti vantaggi per la sopravvivenza del gruppo.

Questo vagabondare della nostra mente è anche alla base della creatività: si passa dalla fantasticheria privata a un esercizio sociale dell’immaginazione; è il piacere di girovagare nella mente altrui che ci induce a creare personaggi d’invenzione, apposta per questo scopo; ed è il piacere di spostarsi nel tempo che ci porta a inventare trame e storie. Anche l’attività di narrare è una forma di adattamento: i nostri remoti progenitori sono letteralmente diventati umani narrando, usando cioè il linguaggio per riferire, condividere, tesaurizzare esperienze ritenute rilevanti.

D’ora in poi quando qualcuno ci coglierà nel pieno della nostra distrazione potremo rispondere a quel monito (attenzione!) dicendo tranquillamente che stavamo viaggiando per raccontare storie e che quello che riusciremo a produrre grazie a questo metodo sarò molto più proficuo di quanto verrebbe fuori se rimanessimo instancabilmente focalizzati su di un solo obiettivo. Con buoan pace di chi ci vorrebbe soltanto come task manager, siamo in realtà dei poeti sognatori. 🙂

 

 

 

Come (rischiare di) perdere il lavoro

Solitamente consigliamo le cose che si DEVONO fare per trovare un lavoro. Ma forse possono essere utili anche quelle che si devono EVITARE per non rischiare di perdere quella che potrebbe essere un’opportunità lavorativa. Perché se è vero che un buon curriculum può aiutare a fare una bella impressione, è altrettanto dimostrato che mostrarsi trasandati fa ottenere l’effetto contrario. Leggendo un articolo tratto dalla rivista Business Insider abbiamo trovato alcuni comportamenti, atteggiamenti e stili che potrebbero essere a rischio “perdita di lavoro”: eccoli qua.

Poca attenzione: ci sono candidati che durante il colloquio prendono nota delle cose che vengono dette oppure fanno domande sull’azienda e sul ruolo; poi ci sono quelli che invece, con sguardo fisso, ascoltano senza alcun feedback quello che viene detto loro. Ecco, questi secondi stanno perdendo punti preziosi.

Esibizionismo: c’è chi cerca di attirare attenzione su di sè o sul proprio cv con effetti speciali, colori sgargianti, decorazioni floreali, un linguaggio esageratamente pittoresco. Cercano in tutti i modi di attirare l’attenzione: probabilmente ottengono il risultato sperato, ma l’attenzione è di un altro tipo (quella che abbiamo per un pagliaccio, non per un professionista).

Bere e fumare: non è affatto una buona idea bere qualcosa di alcolico prima di un colloquio perché se è vero che questo potrebbe calmare i nervi, si rischia invece di sembrare un po’ annebbiati oppure non troppo intelligenti; il fumo invece ci lascia addosso un odore inequivocabile ed anche se questo di per sé potrebbe non essere un problema, accade però che i selezionatori danno molta importanza alle nostre abitudini di vita che possono incidere sul luogo di lavoro.

Poca cura personale: quella della igiene personale non è una questione da sottovalutare; non sono per fortuna molti quelli a trascurarla, ma bisogna fare attenzione anche alla cura dei particolari, cercando di provvedere alla pulizia delle mani per esempio, oppure a qualche rimedio per una eventuale eccessiva sudorazione.

Mandare messaggi: speriamo che nessuno di voi abbia in mente di mettersi a scrivere un messaggio durante un colloquio; lo sconsigliamo anche nel caso lo facciate in quei momenti in cui siete in attesa (magari perché, giustamente, siete arrivati un po’ prima dell’orario prefissato). Questo perché, al posto del messaggio, nelle sale di attesa delle aziende potreste raccogliere utili spunti da utilizzare nel colloquio (che dite, leggendo una brochure aziendale per esempio?).

Portarsi dietro un sacco di roba: presentarsi ad un colloquio con troppe cose in mano o al seguito (agenda, telefono, bottiglietta d’acqua, scartoffie varie) non è un buon contributo per generare una buona impressione; il vostro curriculum, una penna con un foglio per gli appunti sono più che sufficienti (sì, il telefono lo potete lasciare da parte).

Esagerare: chiaramente l’obiettivo di ogni buon candidato è quello di stupire, impressionare il selezionatore che ha davanti (costi quel che costi). E quindi via a raccontare tutto ciò che si è fatto e che ci è accaduto senza accorgersi, a volte, di straripare in uno sproloquio che rischia di fare davvero una cattiva impressione. Per evitarlo alcuni piccoli accorgimenti: dire le cose rilevanti, tenere fuori dalla discussione la vita privata, ascoltare (e fare delle domande). La declinazione peggiore del candidato strabordante è quello che interrompe mentre parlano gli altri: dimostra mancanza di rispetto e anche poca attenzione (da evitare assolutamente).

Non far parlare il corpo: le parole sono importanti, ma lo è anche il linguaggio del nostro corpo; per esempio se scegliamo di non sorridere, di non guardare l’interlocutore in faccia e di avere una cattiva postura (quasi sdraiati sulla sedia, la testa appoggiata alle mani o ancor peggio sul tavolo per fare un paio di esempi) stiamo contribuendo a gran parte del nostro insuccesso con comportamenti a volte involontari.

Ci potrebbero essere anche altre cose da dire (e ce ne sono se avete voglia di leggere per intero l’articolo su Business Insider, in inglese). Noi ci auguriamo che anche solo questi descritti possano aiutarvi a fare la migliore prima impressione che potete. E in bocca al lupo per il vostro futuro lavoro!

 

Professione front office

In fondo che ci vuole? L’addetto al front office viene considerato un tipo di lavoro semplice, che tutti possono fare e che non richiede particolari qualifiche, una lunga preparazione o capacità specifiche.
E invece occuparsi efficacemente del front office di un ufficio, una azienda, una struttura ricettiva, è molto più che piazzarsi in divisa dietro a un bancone, e farlo bene implica non solo curare l’aspetto, ma anche e soprattutto la relazione, senza confondere un approccio gentile, amichevole e a volte informale (a seconda dell’esigenza del soggetto per cui si lavora) con una chiacchierata tra amici al bar.
Bisogna avere capacità di ascolto e di osservazione, per cogliere i segnali non verbali inviati delle persone che ci stanno di fronte, e capire la domanda reale che sta dietro alla richiesta; se è necessario porre delle domande per capire meglio cosa rispondere, bisogna saperlo fare con discrezione e cortesia.
E’ necessario saper rispondere in maniera educata, cordiale e rassicurante, anche quando non si ha immediatamente la risposta giusta a disposizione (e quindi poi bisogna avere la prontezza e l’intraprendenza per cercare quella più corretta possibile, possibilmente in tempi utili).

E che fare quando diverse richieste arrivano contemporaneamente? Se una persona si avvicina e stiamo già rispondendo al telefono o a qualcun’altro? E come cavarsela con chi arriva con una lamentela bella pronta, che magari non ha niente a che fare con il nostro operato?
Definire le priorità, rispettare le precedenze, gestire le emergenze e le criticità, dedicare ad ognuno il tempo e l’attenzione necessarie sono capacità che si acquisiscono con il tempo, l’esperienza e l’osservazione di chi già svolge questa mansione.
A volte stabilire un contatto visivo con la persona che abbiamo davanti mentre siamo al telefono, accennare un sorriso e, in qualche modo, fargli capire che ci siamo accorti che sta aspettando noi, la predispone ad attendere con maggior pazienza il proprio turno, o a porre la propria questione in maniera gentile.

Fondamentale oggi è ricordare che anche le attività sui canali social sono una forma di front office, di relazione con utenti e clienti: aspetto tanto più delicato quanto la comunicazione è a distanza, passa attraverso quello che si scrive e non è corredata dal nostro tono di voce, dall’espressione del viso, e può facilmente essere fraintesa, o non accolta come avremmo pensato. Le parole e le risposte vanno cautamente e attentamente scelte, e le risposte non devono farsi attendere troppo.

Insomma, la gestione del front office fatta bene comporta un nutrito mix di capacità relazionali, comunicative e organizzative, oltre alla conoscenza di informazioni relative al posto in cui ci si trova e al soggetto per cui si lavora (Con che orari vi trovo aperti? Dove trovo il signor… ? Il bancomat più vicino? Il vostro numero di telefono?).
Il tutto senza mai dimenticare un sorriso, che è sempre la miglior accoglienza e un buon modo per dirsi arrivederci!