Più vacanze per tutti!

Untitled3-e1377294231119.pngConsiderato il tempo e la data oggi parliamo di vacanze. Ora qualcuno si immaginerà, giustamente, che tratteremo di mete in paesi esotici, di arrampicate sui monti o di bagni in mezzo a piscine naturali piene di pesci. Ma su questi temi non siamo molto ferrati e, al massimo, potremmo riportare soltanto qualche piccola esperienza personale di poco conto. Invece scriviamo di vacanze perché la notizia è che le vacanze ci rendono più produttivi e ci aiutano anche a essere più efficaci nelle nostre mansioni professionali.

La cosa nasce da un’indagine fatta da due studiosi americani che hanno analizzato un campione di manager super impegnati ai quali è stato chiesto come preferissero lavorare: se con più tempo e calma o con meno tempo e più fretta. I risultati presentavano una variazione rispetto alla provenienza geografica dovuta al fatto che lo stile di lavoro risulta influenzato anche dalle abitudini e dalle consuetudini locali. Per esempio, i più vacanzieri sono gli svedesi e i brasiliani, con 41 giorni di ferie pagate, mentre negli Stati Uniti non c’è alcuna legge che regola il pagamento di giorni di vacanze e secondo le stime la media delle aziende americane è di 10 giorni di ferie pagate—e solo il 25% degli americani se li prende tutti. A ogni modo, il dato rilevante emerso è stato che i manager con più vacanze tendevano a essere più inclini a lavorare di fretta, a essere più concentrati e più impazienti. I dati raccolti hanno permesso di concludere che avere più vacanze aiuti i lavoratori a capire meglio l’importanza di essere efficienti e a dare il massimo quando se ne ha la possibilità.

Sembrerebbe quindi che prendersi un po’ di vacanze aiuti davvero a essere più produttivi: ma da cosa dipende questo aumento di produttività? Secondo lo studio che abbiamo brevemente illustrato sopra (e che potete leggere qui) si tratterebbe semplicemente di un fattore legato alla gestione del tempo: siccome so che ho meno tempo per fare lo stesso numero di cose, mi adopero per fare in maniera più efficiente. Prendersi una pausa non rinfrescherà il cervello permettendoci di lavorare di più, ma spendere meno tempo alla scrivania ci obbligherà a sprecare meno tempo.. Secondo la nostra modesta opinione ci sono anche altre ragioni per le quali il nostro lavoro può migliorare grazie alle vacanze.

In primo luogo c’è un fattore legato allo stress, il più evidente: il nostro cervello e il nostro corpo hanno bisogno anche di sperimentare contesti diversi da quello lavorativo, anche quando lavoriamo in un posto idilliaco. Chi di voi non si è trovato almeno una volta a tirare un sospiro di sollievo una volta varcata la soglia di uscita dal luogo di lavoro? Un altro fattore è rappresentato dalle opportunità di crescita che possiamo sfruttare all’esterno del nostro luogo di lavoro: per esempio non è detto che la vacanza si possa intendere solo come “svacco” e nullafacenza: per la maggior parte di noi fare vacanza significa anche dedicarsi in maniera più assidua a interessi e passioni, coltivare e sviluppare una competenza magari in maniera allegra e spensierata (molti sport per esempio aiutano a sviluppare doti che poi possono essere adoperate nel lavoro, come il coraggio e al determinazione). Infine un ultimo aspetto riguarda la possibilità che abbiamo di contaminarci con altre idee, culture, valori. Accade se adoperiamo le vacanze per viaggiare e visitare posti in cui non siamo mai stati soprattutto se lo facciamo all’estero, dove abbiamo possibilità di incontrare e conoscere situazioni e condizioni diverse dalle nostre. Questo tipo di vacanza sarebbe bello se potesse diventare in qualche modo un’abitudine di lavoro. Sembra quasi un controsenso ma in realtà esistono già realtà aziendali che includono, nei viaggi di lavoro, un tempo libero per i propri dipendenti: non si tratta (solo) di un premio legato alla disponibilità alla trasferta, ma di un’opportunità di crescita che si offre ai propri collaboratori e che si può poi sfruttare nel contesto lavorativo (funziona in maniera quasi diretta per chi svolge mansioni creative).

Noi ci crediamo talmente tanto in questa cosa delle vacanze che abbiamo già cominciato 🙂 Come forse i più attenti lettori avranno notato gli articoli di questo blog hanno subito una variazione nella frequenza: non più 3 appuntamenti (uscite) alla settimana ma una soltanto. Il tempo guadagnato lo utilizziamo per fare vacanze il più possibile produttive. Se volete provate anche voi e diteci come va: buona produttività!

Farsi venire un'idea

ideeCome si fa a farsi venire un’idea? Così, in maniera astratta e non contestualizzata, forse è davvero difficile non solo spiegarlo ma anche riuscirci. In realtà le idee nascono anche un po’ per caso, per un sogno o un desiderio, perché leggiamo una frase che ci appassiona o vediamo qualcosa che ci colpisce.  La famosa lampadina che si accende, insomma, non è sempre pronta a rispondere ai nostri comandi e talvolta, anche se lo vogliamo, le idee non vengono. Per questo motivo negli anni ’40 del secolo scorso, un pubblicitario americano di nome Alex Osborn, aveva inventato un metodo per far nascere le idee: l’ormai conosciuto, diffuso e strausato brainstorming.

Per chi non lo sapesse, il brainstorming (dall’inglese brain/cervello e storm/tempesta) è una tecnica di gruppo che consiste nel dire ciascuno tutto ciò che gli viene in mente rispetto a un argomento o un tema, senza alcun limite e senza la possibilità di essere censurati dagli altri. Quello che si dovrebbe ottenere è il più vasto e differenziato catalogo di idee sul tema dal quale prendere poi le migliori. Questa tecnica però ultimamente è messa in discussione da molti punti di vista. I motivi per cui il brainstorming non funziona sono dettagliati in questo articolo dell’Observer (in inglese; in italiano li trovate sul numero 1105 di Internazionale). Annamaria Testa nel suo blog prova ad approfondire il tema, citando alcuni motivi per cui i presupposti del brainstorming in realtà siano falsi. Il primo presupposto è quello che in gruppo le idee vengono meglio: in realtà “le persone sono più produttive se lavorano da sole. Facendo lavorare contemporaneamente gruppi e singoli individui sul medesimo tema, è facile verificare che i singoli producono più idee, e idee migliori“. Il secondo presupposto dice che la critica è paralizzante ed è per questo che nel brainstorming anulla è vietato. Però “le critiche altrui servono, eccome: aiutano a buttar via rapidamente le idee inefficaci.” Nonostante queste critiche siano delle mine alle fondamenta del brainstorming, questa tecnica continua a essere ampiamente utilizzata.

Ma se ce ne dovessimo liberare come potremmo fare a diventare tutti un po’ più creativi? La ricetta finale, quella sicuramente giusta, non l’abbiamo trovata. Ma leggendo un libretto piuttosto interessante, “Ruba come un artista” di Austin Kleon, abbiamo trovato qualche suggerimento davvero innovativo. Prendendo spunto dal titolo, la tecnica più efficace per essere creativi è davvero quella di “rubare”. Il furto di cui parliamo certamente non è una truffa e non porta danno a nessuno. L’indicazione possiamo spiegarla meglio in altra maniera, facendo un esempio. Pensate a come sono nati e cresciuti gli artisti che oggi conosciamo e riconosciamo come geni (Giotto, Raffaello, Leonardo, ecc.): la maggior parte di loro (la totalità potremmo dire) ha imparato la propria arte seguendo un maestro. Che cosa vuol dire “seguire” un maestro: spesso significava guardare quello che faceva e poi tentare di rifarlo. Questo procedimento, raccontato così, può sembrare molto simile al “Ctrl+C / Ctrl+V” che utilizziamo al computer (copia & incolla per chi è meno pratico della tastiera). In realtà tra il “copia” e l'”incolla” ci stava di mezzo una parola (e un’azione) che faceva la differenza: “rielabora”. Se non fosse così, se non ci fosse stato un processo di rielaborazione sarebbe diventato grande artista chiunque. Il processo di rielaborazione che mettiamo in atto quando prendiamo le mosse da qualcuno che cerchiamo di imitare è qualcosa che assomiglia molto alla creazione di idee.

Copiare quindi non è un peccato o una colpa, a patto di farlo bene. A patto, cioè, che il risultato finale non sia un accozzaglia di elementi posticci rubati qua e là, ma sia una rielaborazione di ciò che abbiamo visto e ci è piaciuto. Austin Kleon nel suo piccolo trattato sulla creatività mette anche un altro suggerimento interessante: circondarsi di talenti. Partecipare a un gruppo in cui non siamo i più bravi, confrontarsi con persone che ne sanno più di noi, ritrovarsi nella stessa stanza con persone che sono più brillanti di noi, frequentare una classe di studenti che hanno migliori risultati dei nostri, avere amici più abili di noi in qualche disciplina non dovrebbe farci sentire sfortunati, depressi o perdenti. In realtà è uno dei modi migliori per imparare facendo, per avere qualcuno da cui prendere le mosse, per trovare il nostro “maestro di bottega”. Perché altrimenti da chi copiamo?

Tre settimane all'IG

alternanza-scuola-lavoroQuesta avventura è nata nel giorno in cui la mia professoressa mi ha comunicato che avrei fatto le mie tre settimane di alternanza scuola-lavoro all’Informagiovani: non conoscevo molto questo servizio, anzi le mie informazioni erano veramente scarse.

Le emozioni prima di iniziare erano numerose e contraddittorie: passavano dal timore per la nuova esperienza alla curiosità di scoprire un mondo a me sconosciuto che mi avrebbe avvicinato al lavoro e messo a contatto con persone nuove con le quali avrei dovuto relazionarmi e collaborare per tre settimane. Il primo di giorno di “lavoro” mi sono presentato all’ingresso e sono stato gentilmente accolto da tutto lo staff che mi ha mostrato il locale dove avrei passato i giorni successivi e illustrato i servizi che l’Informagiovani svolge, liberandomi immediatamente della tensione e innescando ancora di più curiosità e stimoli.

Per cominciare, mi hanno assegnato una scrivania tutta per me dove avrei iniziato il mio primo lavoro. Consisteva nel revisionare e sistemare un raccoglitore che riguardava i finanziamenti per la creazione di nuove imprese; raccogliendo nuove leggi, nuove disposizioni e nuovi bandi. Col passare dei giorni ho iniziato a socializzare con le persone che collaboravano con me e ho trovato un gruppo che mi ha sempre dato la possibilità di lavorare con il tempo e lo spazio dovuto.

Essendo la prima esperienza lavorativa avevo un’idea e delle prospettive che in parte sono state confermate e in parte invece smentite. L’ambiente lavorativo dove mi sono trovato era energico, stimolante e allo stesso tempo accogliente e rassicurante. Questo mi ha permesso di lavorare in tutta tranquillità con gli stimoli giusti. I lavori che ho affrontato non erano basati solo sul consolidamento delle competenze scolastiche ma anche sull’acquisizione di nuove, come il rapporto e l’accoglienza del pubblico. Le prime volte è stato complicato perché avevo bisogno di un sostegno per via delle mie scarse informazioni. Ma con il passare dei giorni però aumentava la mia esperienza e le mie conoscenze che mi permettevano di consigliare gli utenti nel migliore dei modi. Sicuramente la parte del lavoro più gratificante e interessante è stata la creazione di un video su una mostra ospitata all’interno dell’Informagiovani. Questo perché mi ha permesso di imparare l’uso di un editor di foto e video e mi ha regalato la soddisfazione di ricevere i complimenti sia da parte dello staff che dagli organizzatori della mostra.

Pian piano scoprendo e vivendo l’ambiente dell’Informagiovani ho compreso le numerose difficoltà da affrontare ogni giorno per rispettare tutti i servizi disponibili al pubblico nei quali anche io ero coinvolto: spesso cercavo di trovare la soluzione affinché gli utenti potessero avere a disposizione la risposta migliore..

Arrivando alla fine di queste tre settimane posso affermare di essermi integrato perfettamente all’interno del gruppo e consiglio vivamente a qualsiasi ragazzo di provare questa esperienza. Ringrazio tutte le persone che hanno collaborato a rendere questo stage un bagaglio di esperienza che non dimenticherò.

 

(questo articolo è stato scritto da Federico Capobelli, stagista dell’Istituto Savoia-Benincasa)

 

Internet nella nostra vita

internetChi si segue più da vicino il mondo di internet e si appassiona ai dati, forse ha scoperto che sono usciti qualche giorno fa i dati sul mondo nel web per il 2015. Si tratta di una sorta di report che fa vedere come e quanto internet riguarda le nostre vite e di come le nostre vite, forse, sono cambiate con il web. Questo report è redatto dal 1995, per cui è anche abbastanza facile e immediato fare confronti. Che cosa è successo negli ultimi 20 anni? Se qualcuno è stato un utilizzatore “pioniere” del web si ricorda alcune cose che accadevano nella seconda metà degli anni ’90, quando internet è arrivato anche in Italia e ha cominciato a diffondersi. L’accessorio che abbinato al pc permetteva di proiettarci in tutto il mondo era il modem, una scatola rumorosa che collegava il pc alla rete telefonica. Dopo qualche istante di strani suoni, un misto tra un cigolio e un cinguettio, sul video apparivano “cose dell’altro mondo”. Che cosa vedevamo e cercavamo allora e che cosa vediamo e cerchiamo oggi? Vediamo qualche dato che riguarda il 2015 e proviamo a capire come sono cambiate le cose.

Il primo dato interessante è semplice e immediato: la popolazione di utilizzatori del web è passata da circa 35 milioni a quasi 3 miliardi (passando dallo 0,6% al 39%). Un terzo degli utenti di internet risiede in Asia e questo dovrebbe già dare un’idea di dove, probabilmente, sarà il futuro sviluppo della tecnologia in futuro. Nel tempo è cambiato anche il modo con cui utilizziamo il web: se nel 1995 praticamente il pc era l’unico modo con cui potevamo navigare, negli ultimi 20 anni la diffusione di un telefono portatile ha fatto passi da giganti, con una crescita a doppio zero. Nel mondo a oggi ci sono più di cinque miliardi di telefono, di cui il 40% è uno smartphone adatto a navigare su web. Un altro dato interessante su ciò che è avvenuto negli ultimi 20 anni è quello relativo al modo e alle opportunità che ci sono di poter usufruire dei contenuti: negli ultimi 20 anni sono nati il blue-ray e due generazioni di console per videogame, gli smartphone e Youtube, il tablet e lo streaming on demand solo per citare alcuni esempi. In altre parole, in pochi anni, una concentrazione massiccia, un’esplosione di offerta di contenuti che negli anni precedenti mai si era vista. Tutto questo su cosa ha avuto impatto nella nostra vita? Le modifiche maggiori le abbiamo avute come consumatori (chi non guarda almeno il prezzo di un bene su internet?), poi nel mondo business (basta pensare a come e quanto è cambiato il lavoro di chi opera nel turismo); un po’ meno nel settore della saluta e della pubblica amministrazione.

Proviamo a vedere qualcosa che riguarda invece i nostri comportamenti. In questo senso l’accelerazione maggiore l’abbiamo avuta negli ultimi 5/10 anni, con lo sviluppo della tecnologia che ha reso accessibile l’acquisito (a volte anche il solo utilizzo) di un device per navigare (dal pc al telefono). Se nel 2008 un utente “tipico” del web passava in media poco meno di 3 ore su web (di cui l’80% grazie ad un pc), nel 2015 le ore sono diventate quasi 6 (5,6 per la precisione) e oltre la metà avvengono attraverso un dispositivo mobile. C’è anche un’altra cosa interessante, che ha perlopiù delle implicazioni per quello che riguarda la pubblicità ma che può essere interessante anche per il nostro modo di comportarci. Negli ultimi anni (parliamo della forbice che va dal 2010 al 2015) è successo che stiamo cambiando il modo di fruire di immagini e video. Se 5 anni fa la quasi totalità dei video la guardavamo attraverso uno schermo grande e a sviluppo orizzontale (un TV o il monitor di un PC), nel tempo è salita la percentuale di ore spese a guardare video in senso verticale (cioè attraverso lo schermo di un telefono): nel 2010 accadeva al 5% per cento dei naviganti, nel 2015 al 30%.

Molte altre cose sono cambiate negli ultimi anni. Per esempio il modo con cui paghiamo o trasferiamo denaro in genere attraverso strumenti che ci permettono transazioni sicure e immediate, ha modificato il nostro comportamento di acquisto. Oggi, se vediamo una cosa che ci piace dopo una ricerca fatta su Google (o che ci viene segnalata da un amico) possiamo decidere di acquistarla con pochi click immediatamente. Possiamo certificare con la nostra firma i documenti, digitalizzando immediatamente una ricevuta (se avete ricevuto un pacco da un corriere questa esperienza l’avete già fatta). Possiamo inviare messaggi complessi, composti di video, foto e audio ai nostri amici, trasferendo in maniera più completa ed esaustiva quello che vogliamo dire ai nostri amici. Come pensate che tutto questo possa aver cambiato la nostra vita? Siamo cambiati come consumatori, cittadini, amici? Probabilmente sì, ma quello che il report suggerisce è anche che il cambiamento ancora non è completo e che molte novità devono ancora arrivare anche se noi al momento lo crediamo poco possibile o probabile. Come 20 anni fa.

I dati citati in questo articolo fanno parte di un report apparso negli USA, paese a cui si riferiscono. Il report potete trovarlo qui.

 

 

 

Quante ne sai?

quante ne saiTorniamo spesso a parlare di competenze e conoscenze, fondamento di una solida vita professionale (e se volete anche personale). Quante cose conosciamo? E quante ne conosciamo abbastanza bene da poter essere considerati dei “maestri” in quella materia? L’importanza di questo aspetto è fondamentale: soprattutto in ambito lavorativo (e non solo se faremo i maestri o i professori in futuro). Per definire meglio quello di cui vogliamo parlare vi raccontiamo una storiella.

Narra una leggenda molto popolare tra i fisici che Max Planck, dopo aver ricevuto il premio Nobel nel 1918 per la scoperta della quantizzazione dell’energia, si imbarcò in un tour attraverso tutta la Germania per tenere delle conferenze sulla meccanica quantistica, la nuova e rivoluzionaria disciplina che era nata dalle sue scoperte. Parlare di «conferenze» è improprio: il professor Planck teneva infatti sempre la stessa, sempre uguale, persino nei colpi di tosse. Giorno dopo giorno, l’autista che lo accompagnava arrivò a impararla a memoria, finendo anche per notare che il professor Planck cominciava ad annoiarsi un pochetto. In occasione di un viaggio verso Monaco di Baviera, perciò, chiese al suo assistito: “Certo, professore, deve essere veramente noioso ripetere sempre le stesse cose. Tanto per cambiare, a Monaco, non potrei parlare al suo posto?”. Planck, che era un buontempone, accettò volentieri e i due decisero di scambiarsi i ruoli; l’autista avrebbe tenuto la conferenza, mentre il Nobel si sarebbe accomodato in platea con il berretto da chauffeur e l’aria austera. Purtroppo, dopo la conferenza, accadde una cosa mai successa prima. Un tizio del pubblico, nella fattispecie un professore di fisica, si alzò in piedi e fece una domanda. Senza perdere un grammo del suo aplomb, l’autista replicò: “Mi sorprende davvero che l’abitante di una città così avanzata possa fare una domanda così semplice. Guardi, le può rispondere direttamente il mio autista”.

Questa storiella simpatica, di cui dobbiamo la conoscenza a Marco Malvaldi e al suo ultimo libro (Le regole del gioco), oltre a raccontare della prontezza di riflessi e dell’arguzia che ogni tanto possono salvarci da situazioni imbarazzanti e imprevisti, ci fa capire come e quanto sia importante conoscere abbastanza approfonditamente un argomento per poterlo gestire e non solo raccontare. La capacità di parlare, anche in pubblico, di un tema non è necessariamente sintomo di consocenza: gli psicologi chiamano questo tipo di sapere “conoscenza dello chauffeur” (potremmo dire “conoscenza da bar”). Se c’è qualcuno che ha una buona capacità di ascolto e di intuire quali sono i passi fondamentali di un discorso unite a buone doti comunicative, ecco che potremmo credere che quel qualcuno sia un esperto della materia. Fino ad un certo punto: il punto è quando qualcuno gli farà una domanda di cui conosce già la risposta. Potete chiamarla verifica o scherzo bastardo, fatto sta che quella domanda farà cadere tutte le competenze presunte come un castello di carta.

Chi adotta questo metodo per fingersi esperto di qualcosa in realtà è al massimo un bravo attore, capace di interpretare un parte. A pensarci bene in effetti, la similitudine è azzeccata: un attore studia una parte, ne assorbe per quel che può (e per il tempo che serve) le caratteristiche e poi la interpreta al meglio. Ma se un attore che interpreta la parte di un uomo di affari dovesse poi mettersi alla guida, veramente, di un’impresa sarebbero guai per molti, dai clienti, ai dipendenti, ai creditori. Questo ragionamento dovremmo essere bravi a farlo anche con noi stessi, evitando di raccontarci e raccontare storie e bugie sulle nostre competenze. Non sempre è facile perché il confine tra quello che conosciamo e quello che non conosciamo può essere labile e confuso. Le nostre conoscenze non dipendono soltanto da quello che abbiamo studiato sui libri, ma anche dalle esperienze e dalle percezioni che abbiamo assimilato nel corso degli anni. Per fare un esempio pensate alle ricette: sicuramente tra tutti quelli che sanno preparare un tiramisù ci saranno almeno 3 o 4 ricette diverse. Ma se fate un sondaggio ciascuno dirà che la propria ricetta è quella giusta, corretta, originale. Qualcuno però sarà in errore (supposto che la ricetta del tiramisù sia unica), anche se in buona fede. Nel mondo del lavoro, diversamente da quello della cucina (solo quando non è quella professionale), le conoscenze che dobbiamo avere devono essere precise, dettagliate, spesso profonde. Un esercizio che possiamo fare è quello di imparare a determinare  limitare l’ambito delle nostre competenze: che cosa sappiamo veramente? Su che cosa potremmo tenere una lezione senza paura di dover rispondere a una domanda?

Mettici la faccia e fatti i selfie tuoi

selfie tuoiLa scorsa settimana abbiamo parlato in questo blog di come e quanto sia importante sapersi presentare, sia di persona che con una forma scritta che oggi si traduce in molti modi, dalla semplice mail con cv allegato alla stesura di un blog o un sito personale. Le modalità con cui ci “rappresentiamo” sono molteplici e per come funzionano oggi la comunicazione e il sistema di relazioni tra le persone c’è un fattore cruciale. la foto!

Oggi, probabilmente, nessuno di noi si è salvato dalla selfiemania: la moda di fare un autoscatto con il proprio telefono, tenendolo in mano alla massima distanza consentita dalle nostre braccia. Il risultato finale non sempre è eclatante: a volte si vede un pezzo di un braccio, la foto è sfocata, le smorfie son quelle di un cartone animato. Anche quando il selfie è azzeccato la domanda che vi e ci facciamo è: sarebbe quella una foto professionale? La potremmo utilizzare per presentarci in un contesto lavorativo?

La risposta a questa domanda hanno provato a darla anche gli esperti di Linkedin, il social network business, dedicato al mondo del lavoro. Con la realizzazione di una apposita guida per i selfie hanno voluto trasformare, con i giusti accorgimenti, una pratica che si vuole legata solo a svago e divertimento in un modo rapido per aggiornare il proprio avatar lavorativo. Certamente il risultato finale non può essere il medesimo di una foto professionale, ma certamente con qualche consiglio che riportiamo qui di seguito il risultato finale sarà sicuramente migliore di un selfie qualsiasi.

Primo passo: scegliete uno sfondo. Probabilmente non ci facciamo caso ma in una fotografia quello che colpisce la nostra attenzione non è solo la faccia che eventualmente sta in primo piano; per dare un “senso” a tutta la foto i nostri occhi e il nostro cervello catturano particolari importanti. Sono particolari che aiutano poi ad elaborare sia il ricordo che l’associazione di idee connessi alla foto. Per questo è importante per esempio scegliere uno sfondo neutro (bianco per esempio) oppure un qualcosa che sia significativo (lo sfondo in questo senso potrebbe riprendere il luogo in cui lavoriamo oppure strumenti che fanno parte della nostra professione). Secondo passo: la giusta luce. Tutti sappiamo (forse) che una foto controsole è quasi vietata per un risultato buono (il viso sarebbe completamente scuro, quasi invisbile): bisogna fare attenzione anche ad altre fonti di luce e cercare di avere il viso sempre in una buona condizione di illuminazione (per esempio mai spalle ad una finestra, semmai il contrario); attenzione anche al flash, distorce la luminosità del vostro viso per cui la cosa migliore è… aspettare che sia giorno 😉

Terzo passo: il “makeup”. Pensate prima di scattare a come vorresti che risultasse la tua immagine finale, scegli la postura, l’abito e l’espressione che vorresti ottenere. Potete fare alcune prove e tentare di vedere come l’espressione che pensate di aver tenuto, il tipo di risultato e di effetto finale restituisce. Potrebbe accadere che un’espressione che vi sembrava affascinante sia ridicola e quella che reputavate poco professionale sia invece quella più adatta. La nostra fotogenia dipende anche da questi particolari. A ogni modo comunque volto rilassato ed espressione naturale, tendenzialmente sorridente. Pensate a quando ti sei sentito fiero di te o alla voce del capo che ti offre la promozione che hai sempre sognato: vedrete che otterrete lo scatto giusto. Quarto passo: il setting. Posizionate la macchina fotografica (o, meglio, il vostro smartphone) ad una distanza adeguata (le inquadrature dall’alto verso il basso tendono a dare risalto agli occhi e assottigliano ovale del viso e collo; viceversa lo scatto opposto può veicolare l’idea di imponenza ma rischia derive caricaturali per chi ha un naso o un mento pronunciati). Per evitare che oltre al viso la vostra foto comprenda anche una aprte del braccio che regge il telefono studiate un modo di appoggiarlo da qualche parte, non troppo distante per evitare di utilizzare troppo zoom (quelli digitali non offrono nulla di più di una inquadratura normale; l’immagine potete tagliarla successivamente): per esempio se fate la foto seduti ad un tavolo il telefono potete appoggiarlo ad una pila di libri messa a 80/100 centimetri da voi.

Il bello del selfie è che potete scattare e riscattare tutte le volte che volete: se non riuscite a trovare la foto migliore condividete gli scatti con un gruppo ristretto di amici (se volete potete farlo anche con noi, garantiamo massima riservatezza) e fatevi dare qualche consiglio.